1933 - anno XI

Scritto da  Andrea Emiliani

Mimì Quilici Buzzacchi, copertina per il primo numero della rivista Ferrara (1933).La mostra del Rinascimento Ferrarese, Nino Barbantini e l'Officina Ferrarese.

Francis Haskell concluse il suo lavoro dando voce ed esperienza a un seminario esemplare, condotto presso la Scuola Normale di Pisa nella primavera del 1999. Il tema illuminava gli aspetti di natura artistica, ma anche di problematica organizzazione di vita delle mostre d'arte, della loro tradizione secolare, come anche della loro proliferazione in numerosi casi ormai insensata, o futile. Ci eravamo visti nell'autunno a Mantova ed egli m'aveva pregato di mandargli a Oxford qualche dettaglio riassuntivo circa la tradizione delle mostre bolognesi, che dal 1950 al 1998 avevano raggiunto un numero consistente.



A ripensarci, e soprattutto ricordando le sue parole, talvolta caustiche, mi veniva fatto di ricorrere con la mente alla storia delle esposizioni, che più tardi saranno definite manifestazioni estemporanee o effimere, ritrovando come fosse stata proprio l'Inghilterra a promuovere e incoraggiare, fin dal Settecento, il diffuso fenomeno delle esposizioni. Non alludo, naturalmente, alle mostre commerciali, poiché di quelle anche Venezia e Roma erano piene già nel Settecento; e neppure alle mostre decorative, come ad esempio quelle che le famiglie del nobilato bolognese organizzavano sotto i portici a ogni decennale festa della parrocchia.

Queste ultime, comunque, presentavano anche interessanti aspetti di conoscenza e di studio, tant'è vero che Olivier Bonfait, oggi direttore di Villa Medici a Roma, le studiò a suo tempo con molta cura, assumendole come rara fonte di conoscenza storica ed economica nella proiezione di un collezionismo "pubblico". Erano spesso feste eccezionali, dove le ricche famiglie senatorie onoravano l'evento esponendo al pubblico sotto i portici veri capolavori, scelti dalle loro collezioni tradizionalmente ricchissime. Ricordo una lettera del nobile pesarese Antaldo Antaldi, ospite dei parenti principi Hercolani nel palazzo di Strada Maggiore, nella quale egli descriveva in una sera di festa l'infilata del portico dei Servi dipinto per l'occasione in un quieto color verde, panneggiato con garbo e colmo di dipinti esposti all'ammirazione dei visitatori. Correva l'anno 1821, mi sembra, e di lì a poco di queste esposizioni bolognesi scriverà ammirato al padre Monaldo anche Giacomo Leopardi.

 

Marcello Nizzoli, manifesto per il IV Centenario Ariostesco del 1933.Tuttavia, in Inghilterra, la mostra di opere d'arte aveva già allora un altro significato: consentire e promuovere l'esercizio della connoisseurship, e facilitare il progresso della verità e della conoscenza artistica. Questo era il fine delle manifestazioni della British Institution che - dal 1813 al 1816 e oltre - si impegnò in una sequenza memorabile di esposizioni monografiche dedicate a Reynolds, Hogarth, Gainsborough, Wilson, Rembrandt, oltre che ai grandi italiani e spagnoli.

Un'altra famosa esposizione fu dedicata nel 1857, a Manchester, a opere d'arte di collezioni inglesi. Fu il principe Alberto a sostenere questa formula che avrebbe giovato all'identificazione del tesoro accumulato nelle case degli inglesi grazie all'esercizio del collezionismo. La mostra ebbe catalogo, note bibliografiche e critiche, e perfino una dotazione di biglietti d'ingresso scontati adeguatamente, con pacchetti di viaggio individuale e di gruppo per i lavoratori. Raffinatezze di management cui l'Italia giungerà più di un secolo dopo.

Un'altra associazione britannica, The Burlington Fine Art Club, intraprese notevoli imprese. A quest'ultima bisogna accreditare la decisione di allestire un'esposizione di dipinti delle scuole pittoriche di Ferrara e di Bologna, degli anni 1440-1450. Correva il 1894, e il responsabile, R.H. Benson, prefatore del catalogo, s'avvantaggiava della consulenza di Adolfo Venturi. La fama dei ferraresi a Londra, oltre che presso il sogno illustrativo di artisti come Burne Jones o Dante Gabriel Rossetti, si era, infatti, attestata già allora su predilezioni stilistiche e critiche assai forti.

Proprio la Cassa di Risparmio di Ferrara ha allestito in Palazzo dei Diamanti, anni addietro, una bella mostra dal titolo La Leggenda del Collezionismo Ferrarese (1996). Naturalmente, il titolo era evocativo ed alludeva alla singolarità del modello di quelle origini. Tra le quinte del teatro architettonico si apriva il sipario sul ritorno di Ferrara in Europa. Entrava in scena il conoscitore tedesco Otto Mündler che, inviato da sir Charles Eastlake, direttore della giovane National Gallery di Trafalgar Square, si aggirava nel 1856 per le strade acciottolate di Ferrara in cerca di nuovi artisti e di dipinti.

 

Ferrara, 15 ottobre 1933, il re Vittorio Emanuele III visita la mostra.Da queste forme di pubblico collezionismo nacque anche la predilezione degli intellettuali, che fece del gusto anglosassone il luogo privilegiato dello stile di Ferrara. In parallelo, si sviluppò la rapida adozione delle opere di pittura del Quattrocento ferrarese, caldeggiata anche dalle ricerche di profondità effettuate da Adolfo Venturi tra le carte della Palatina di Modena.

La scuola ferrarese, negli anni carducciani, entrava sulla scena nazionale con ufficialità e in particolare nell'occasione dell'Esposizione dell'Emilia, che nel  1888  fu inaugurata della regina Margherita e che salutò il ritrovamento della data di origine dello Studio bolognese all'anno 1088: il più antico del mondo! La forte determinazione di Adolfo Venturi conduceva alla serie dei suoi quattro famosi, basilari saggi storici dedicati alla storia delle arti figurative estensi, editi tutti in quel decennio. Essi devono  considerarsi il basamento più solido per ogni adeguata ricostruzione.

Il Burlington Fine Art Club esponeva nel 1894 la bellezza di 65 dipinti della scuola ferrarese del Quattrocento, molte medaglie, disegni e infine un numero esaustivo di fotografie che il Venturi aveva prestato al Club allo scopo di spalancare al pubblico un orizzonte di vasta visibilità.



Ferrara, 7 maggio 1933: la principessa di Piemonte, Maria Josè, all'inaugurazione della mostra con a destra Nino Barbantini ed a sinistra il podestà di Ferrara avv. Renzo Ravenna.Gli anni che passarono videro nascere ed evolvere tra le mura della città 'dimenticata' un ceto intellettuale e di studio di cui Gilberto Pellizzola, in un raffinato, analitico saggio del 1982, pubblicato da Ranieri Varese nel Bollettino dei Musei Civici, ha disegnato l'immagine più fervida e attendibile. Al centro di questa acuta rievocazione è la figura di Nino Barbantini, giornalista e scrittore di qualità, outsider della critica d'arte. Nativo di Ferrara e immerso nel suo milieu culturale e sociale, Barbantini passerà tuttavia la sua vita a Venezia, dove, interprete della Secessione di Ca' Pesaro e direttore della Galleria d'Arte Moderna, raccolse numerose soddisfazioni di lavoro.

Lo rivedremo a Ferrara nell'occasione alla quale stiamo avviando la nostra attenzione e la nostra curiosità. Proprio in seno ai momenti formativi dell'etica del museo, del restauro nascente, e del nuovo mondo nutrito da esaltanti relazioni, era germinata quella specie di coscienza attiva e produttiva del lavoro critico che ritroveremo adottata dal mondo della conservazione e della museografia, erede della vecchia cultura pragmatica.

La stessa che era stata evocata da Leopoldo Cicognara e da Pietro Giordani, proseguita da Pietro Selvatico Estense, praticata alla perfezione da Giovan Battista Cavalcaselle e finalmente tradotta - per l'influsso dell'Estetica di Benedetto Croce (1902) - in una doppia e simultanea opportunità di lavoro sull'istituzione critica: la struttura di intervento delle moderne Belle Arti (1907) e l'approntamento d'una operante legge di tutela nel 1909, opera di Giovanni Rosadi e di Corrado Ricci.



Nino Barbantini.Un sistema, cresciuto come era quello italiano, negli anni giolittiani, capace di riassumere il grande passato dei cessati governi, a decorrere dalla Lettera di Raffaello e di Baldezar Castiglione a Leone X, circa 1519, preparava un futuro nel quale le istituzioni artistiche promettevano eccezionali risultati di comunicazione e di relazione: risultati che durano oggi ancora, anche se posti in crisi e astenìa profonda da interpretazioni politiche che non conoscono il dibattito, illuminista prima e risorgimentale poi, soprattutto a riguardo dell'equilibrio che noi riteniano fondamentale tra interesse pubblico e utile privato.

Sono note le ragioni che, tra il 1928 e il 1933, portarono autorità ferraresi e romane  a sostenere le celebrazioni dell'Ottava d'Oro e di Ludovico Ariosto. Il ruolo di Balbo fu determinante: era questa la stagione del quadrumviro fascista, forte appunto di un programma generale ferrarese ed estense. Una mostra d'arte antica poteva fare proprio allora la sua apparizione da protagonista, approvata e sostenuta anche dalle Belle Arti e dal Comune. Ma la stessa iniziativa di Palazzo dei Diamanti deve essere immaginata in un arco progettuale tessuto per molte fila con la forza d'una ricostruzione sperata della città devoluta nel 1598: ed allontanata con violenza dalla storia.

Nel primo dopoguerra, aveva corpo in Palazzo Pitti, a Firenze, quell'esposizione dedicata alla pittura del Seicento e del Settecento italiani che nel 1922, sotto le mani non sapienti, ma tuttavia abili di Ojetti, Tarchiani e Dami, ottenne un reale, memorabile successo di pubblico. E anche di progressiva attenzione della critica. Premeva sull'iniziativa il valore d'un decennio e oltre di studi dedicati all'età barocca, sulla quale si era avventata, un po' sconsideratamente, la condanna di Croce: ma che almeno nella serie incisiva dei saggi giovanili di Roberto Longhi sulla rivista "l'Arte" di Adolfo Venturi, del figlio di questi Lionello, e dello studioso tedesco Hermann Voss, chiedeva la fondazione d'una nuova stagione degli studi. Gli studi sull'arte barocca in Roma di quest'ultimo, grande conoscitore furono pubblicati nel 1924, e la loro analisi è valida tutt'oggi.

Questo era anche l'esordio del Barocco nella più larga opinione italiana. Una conquista che in fondo non si è ancora conclusa, per essere, quel secolo e quell'affermazione di esistenza e di volontà artistica, di una sterminata vastità, di una onnipresenza destinata a colmare ogni altare, ogni palazzo dell'Italia. Un investimento di studio che ha occupato l'intero Novecento e che possiede ed esibisce ancora spazi insondati.

Nino Barbantini a Venezia con Bernard Berenson.L'occasione doveva precorrere anche il tempo della riscossa italiana sul piano delle mostre, e cioè delle manifestazioni dell'effimero scientifico, del protagonismo studioso e rumoroso. Capace di animare l'opinione pubblica. E soprattutto dall'intuizione del regime e del suo potere di governo di ricostituire per accumulazione di novità, di bellezze, di opere d'arte, più che il nome dell'Italia, sufficientemente noto e frequentato da studiosi e da turisti stranieri - soprattutto dell'area anglosassone e francese - il credito di un Mussolini che, dopo il delitto Matteotti e la crisi del suo partito, intravedeva con la consueta abilità giornalistica, alla boa degli anni Trenta, la possibilità di ricorrere alla celebrazione del potere artistico. In effetti, il dittatore vi riuscì con una serie di esposizioni, che hanno un inizio clamoroso con la mostra londinese "Exhibition OF Italian Art", organizzata in Burlington House tra gennaio e marzo del 1930, con la responsabilità di lord Balniel e di Kenneth Clark, allora docente a Oxford.

La mostra, di proporzioni gigantesche, era stata montata quasi ad libitum dei richiedenti, che avevano quale incontentabile madrina lady Ivy Chamberlain, per colmo di ironia la consorte del primo ministro britannico che uscirà sconfitto nell'incontro di Monaco del 1938. La mostra di Burlington House fu grandiosa e fortunata. Lady Chamberlain aveva tagliato corto con le esitazioni e le resistenze delle Belle Arti italiane e rivolgendosi direttamente al Ministero degli Esteri e anche al Capo del Governo. Quanto a Vittorio Emanuele III, che pure aveva concesso il suo patrocinio all'iniziativa, egli non aveva un'idea precisa di quante fossero, e quali, le opere d'arte imballate ed accumulate in attesa della partenza: e alla domanda di Ojetti stesso, espresse - inutilmente - la sua assoluta contrarietà all'iniziativa.

Si narra infine che il traslatlantico Leonardo, nella traversata del ritorno sulla Manica, corresse seri pericoli per una tempesta improvvisa. E con lui, metà delle opere della Rinascenza italiana. I due volumi del catalogo ufficiale tarderanno un paio d'anni ad uscire. Kenneth Clark, disincantato, dirà che quello era il peggior lavoro che egli stesso avesse mai fatto.

Il successo piramidale della mostra londinese era destinato a rinnovarsi nell'ancor più smodata esposizione, presentata tuttavia da Paul Valéry, dal titolo "L'Art Italien de Cimabue à Tiepolo", quasi cinquecento pezzi esibiti nel '35 al Petit Palais. Essa sarà seguita dall'esposizione organizzata nel Jeu de Paume e dedicata all'arte italiana moderna a cura di Antonio Maraini e Ugo Ojetti. Il successo fu modesto; Margherita Sarfatti, che possedeva personalità e competenza, era stata brutalmente rimossa da un regime che voleva ormai vivere tranquillo.

La mostra di Burlington House, per tornare al 1930, fu come l'innesco d'una serie di manifestazioni espositive che nell'arco del decennio esplose letteralmente in numerose regioni italiane. Il primo posto, come ora diremo meglio, fu proprio quello illuminato dalla "Mostra della Pittura Ferrarese del Rinascimento", allestita da Nino Barbantini nel restaurato (approssimativamente) Palazzo dei Diamanti di Corso Ercole I. Nel '35 Cesare Brandi montò, tra divise bianche e attillate uniformi marinare, la "Pittura Riminese del Trecento" nell'Arengo di Rimini. Seguiva a Parma l'ottima mostra dedicata da Armando Ottaviano Quintavalle al Correggio, Palazzo della Pilotta. Nel frattempo, Rodolfo Pallucchini dava il via a Palazzo Rezzonico di Venezia a una sequenza fortissima, che elaborava nel trionfo veneziano Tiziano nel '35, Veronese nel '36, Tiepolo nel '37, il Settecento Veneziano nel '38. Con la "Mostra Giottesca" degli Uffizi, Firenze celebrava il suo grande figlio nel '37, dedicandogli un catalogo monumentale e scientificamente determinante, edito anni più tardi.

Per noi, Cesare Gnudi e Luisa Becherucci affrontavano la "Mostra di Melozzo e del '400 Romagnolo" nella Pinacoteca Civica di Forlì. Anche Longhi intervenne a sedare qualche pretesa dei promotori di salutare fin nell'umanesimo pittorico le radici genetiche del compaesano di turno. Durante l'inaugurazione della mostra di Melozzo, alla presenza di Sua Maestà Vittorio Emanuele di Savoia, il piccolo cane della portineria incappò eccitato proprio tra i piedi augusti del Re, mentre il custode stesso procedeva a scusarsi rumorosamente, affermando che il cane era di fede repubblicana.

I restauri del giardino all'italiana di Palazzo dei Diamanti.Così, tra la nuova, intravista altezza europea di scienza e d'arte, e l'aneddotica un po' felliniana delle città della provincia, la storia dell'arte e l'immagine delle sublimi architetture della nostra vita e dei capolavori ormai affidati a musei da perfezionare, a restauri da eseguire adeguatamente, ad attenzioni estetiche da assodare, si apprestavano a scavalcare il massacro imminente e le distruzioni della seconda Guerra mondiale, con la ferocia dei bombardamenti.

Non c'è dubbio alcuno sul fatto che l'iniziativa ferrarese del 1933, (che rimase aperta, con un'eccezione rarissima, anche nel '34) avesse il doppio merito di agganciarsi alla perfezione con la prima stagione della riscoperta estense, quella venturiana degli anni 1880 e 1890 e di dare uno sbocco sapiente alla tensione latente delle infinite, inesauste virtù patrie delle comunità emiliane e romagnole.

L'1 dicembre dell'anno 1934 saliva, si far per dire, sulla predella della cattedra dell'Istituto di Storia dell'Arte dello studio bolognese, "lungo lungo, nero nero" come verrà riferito, l'outsider universitario dell'ultima ora Roberto Longhi. Aveva vinto un concorso che, a detta del giovane Mario Salmi, aveva visto, com'era giusto, trionfare un cavallo in mezzo a un gruppo di ciuchi. Qualcuno diceva che la sua partecipazione era stata propiziata di fretta, anche per evitare che qualche malintenzionato procedesse a mettere in cattedra Arduino Colasanti, allora direttore generale delle Belle Arti, che pare ne avesse desiderio.

Longhi, amico di Giorgio Morandi, lo aveva invitato alla sua prolusione accademica, in prima fila, accanto a qualche autorità, forse a Carlo Calcaterra e a Igino Benvenuto Supino. Ciò che sappiamo di certo è che in ultima fila stavano contro il muro due diciannovenni inizialmente ignari, o quasi: Alberto Graziani di Imola e Francesco Arcangeli di Bologna. Forse non poteva ancora esserci Giorgio Bassani, che era del '16; forse c'era Nino Rinaldi, forse Franco Giovannelli, certo Attilio Bertolucci, più anziano degli altri. Cesare Gnudi era a Roma, al Perfezionamento di Pietro Toesca, che si svolgeva a Palazzo Venezia, salendo la scaletta di legno che andava all'Istituto fondato da Corrado Ricci nel '21. E di lì, salendo un piano ancora, si narrava, all'appartamento della Petacci.

Per la storia, il 18 luglio del '34, nel cuore dell'estate - chiusa da due settimane, giorno più giorno meno,  la mostra di Palazzo dei Diamanti - Nello Quilici aveva pubblicato sul suo Corriere Padano, pagina dell'arte, una dettagliata  notizia che esordiva così: "Olà critici, storici, esperti, IN guardia! Longhi parte contro di voi con la lancia IN resta, e sotto a chi tocca. Ce n'è per tutti, da Venturi a Barbantini. Gl'idoli cadono a pezzi. Le attribuzioni ... consacrate nello stupendo catalogo barbantiniano sono prese di mira senza riguardi." E seguitava, preannunciando in tal modo l'uscita al pubblico del libro di Longhi, intitolato Officina Ferrarese, appena appena pubblicato dalle Edizioni d'Italia, a Roma.

Quilici, che la sapeva lunga, aggiungeva anche  che Roberto Longhi era "il più serio e più preparato storico dell'arte che abbia oggi l'Italia e uno dei migliori d'Europa" e che egli  ritornava "per orientarsi nel cammino lungo alla città Estense".

I tavoli per i rinfreschi allestiti nel giardino.Dietro un così fragoroso annuncio, poteva accadere di tutto e l'intera città era molto incuriosita. Longhi in realtà aveva colto nella mostra di Palazzo dei Diamanti la palla al balzo per mettere a punto le carte d'un cassetto pieno di appunti e di ricerche nel suo ormai lungo studio romano, e per rilanciare continui ampliamenti e acquisizioni. A suo modo, Longhi aveva ammirazione per l'organizzazione dell'esposizione. L'Officina Ferrarese non è una guida avversa, tanto meno un pamphlet gettato contro l'enorme lavoro di Adolfo Venturi e di Nino Barbantini. Semmai si avverte tra le sue parole, come sempre, una vibrazione più che sensibile, nervosa, al nome di Bernard Berenson, qualche eccesso contro il nome di Waterhouse (tradotto in Casalacqua) e altre minori antipatie.

Come è noto, nella prima giovinezza Longhi aveva concepito una forte ammirazione verso gli scritti di Berenson, e in particolare verso gli Italian Painters of the Renaissance, editi nel 1897. Ed è altrettanto famosa la richiesta incalzante avanzata dal giovane Longhi allo studioso lituano, un po' stupito e alla fine lusingato, di farne una traduzione italiana: richiesta alla quale peraltro fece seguito il più totale e progressivo silenzio, accompagnato da una combattiva abitudine a criticarne l'opera, a denigrarne la filologia e a dare eterna disdetta alla sua conoscenza. La lite silente (si fa per dire) durò tutta la vita, e soltanto nel 1956 i due grandi tornarono a incontrarsi, anche se del tutto inutilmente. Ma ciò che volevo dire ora passa anche attraverso questo episodio - in certo qual modo - ed è che la scrittura di Longhi, sempre aspramente indipendente per immaginario e per vocabolario, nel caso dei grandi ferraresi e soprattutto davanti a Ercole sembra aver immerso il pennino dentro le antiche visioni nibelungiche e le saghe islandesi del critico lituano, in un universo roccioso e onirico. La bellissima pagina dedicata ai ferraresi negli Italian Paintings del lontano 1897.

L'Officina di Longhi è comunque un libro incomparabile. Il piacere dell'itinerarietà temporale, dal lento continuo dilatarsi storico, si paragona con una metrica di apparizioni ritmate e semplici: proprio come se ciò accadesse a riflesso della spazialità elementare, misurata, di una mostra. Diceva giustamente Giovanni Previtali che ciò che regola l'Officina è un vecchio ottocentesco genere "salonnier", un genere letterario rievocato dinanzi alla nuova realtà propiziata dalla struttura nitidamente espositiva. E al di là dei gruppi di attribuzioni talora invecchiate, o fuori registro, comunque in attesa dell'incalzante lucente ricostruzione longhiana, che si completerà anch'essa nell'arco di altri vent'anni, che splendida invidiabile mostra fu quella di Barbantini! L'occhio di un Longhi al vertice della sua esperienza potè davvero profittare, e per due anni, di una resurrezione artistica di una bellezza e d'una completezza da togliere il fiato.

Il manifesto originale dell'Esposizione della Pittura Ferrarese (1933).Questa fu l'Officina Ferrarese, il laboratorio apparso in Palazzo dei Diamanti e offerto all'ammirazione, quasi a riepilogo dei lunghi decenni di studi venturiani, dell'intelligenza critica di Berenson, e ad augurio di una nuova stagione di verità critica e storica. Longhi, che si preparava a fondare la sua moderna scuola universitaria e a lavorare in Emilia per quindici anni almeno, avrebbe voluto che quell'Officina si fosse offerta oltre, e si fosse dunque dilatata a Bastianino, a Scarsellino, al Bonone, arrivando fino ad avvertire il respiro profondo dell'affocata memoria estense che spirava nell'opera del giovane Guercino e nell'ammirazione del suo primo collezionista, l'entusiasta cardinal Serra.

A noi più giovani, sopravvenuti dopo il disastro della guerra, rimase per qualche anno ancora il piacere e la curiosità di ritrovare sulle bancarelle dei libri vecchi il catalogo di Nino Barbantini: il bel catalogo nitido ed elegante, non invadente, dalle illustrazioni perfette, stampato a Venezia e consegnato nella primavera del '33 alla mostra che stava inaugurandosi.

Ed era, in quella nebbiosa rovina, un ricordo di dignità intellettuale rasserenante.

L'argomento di questo articolo ha costituito motivo di un'analisi assai circostanziata, condotta da Silvana Onofri e Cristina Tracchi nel corso di un Laboratorio didattico di ricerca e di approfondimento del Liceo Classico Ariosto, anno 2000. Si tratta d'una ricerca completa e densa di argomentazioni, alla quale peraltro io ho potuto approdare solo successivamente alla stesura di questo scritto. Poiché tuttavia mi è stato possibile constatare una sostanziale coincidenza di punti di vista, sono molto lieto di segnalare l'opera di seminario (L'indimenticabile Mostra del '33, Liceo Ariosto, Ferrara 2000) e di indirizzare a essa queste mie opinioni, con le congratulazioni più vive.