Il registro da cui traggo il documento è stato redatto in diversi momenti e scritto da mani diverse. Per la parte che qui interessa, esso offre il regesto di atti notarili ed è coevo alla stesura degli stessi. Ne fu estensore fra' Nicola Dalle Tapezzerie, la cui mano è pure presente, talora, negli atti notarili richiamati.
Il registro raccoglie poi, in una sorta di indice, «un memoriale generale di tutti li instrumenti o mandati rogati per il già messer Philippo Siviero pertinenti alli reverendi padri de santo Paulo da Ferrarra e loro convento incomenziando a'l anno 1547 sino a'l anno 1587», essendone stato estensore il notaio ferrarese Giovanni Battista Nobili Rossetti, tra il 1622 e il 1646. Il nostro documento vi appare così indicizzato: «1547, alli 26 agosto. Donatione de frate Vittorio fata al monastero de santo Paulo per la libraria nova, qual frate Vittorio fu delli Advogari ferrarese», ricavandosene così un'ulteriore conferma della natura - e della veridicità - dell'atto, oggi non più reperibile.
Circa la personalità di fra' Vittorio organista, si può precisare che il suo nome, prima di farsi frate, era Giacomo e che era della prestigiosa nobile famiglia degli Avogari. Fin dal Trecento fu essa in rapporto con gli Estensi, sorgendo le loro case non lontano dal Castello, presso il quale poi, sulla chiesa di S. Giuliano esercitarono il diritto di patronato. Non è purtroppo più reperibile il testamento di Vittorio (Giacomo) Avogari, rogato dal notaio Nicolò Lavezzoli l'11 aprile 1539, che poteva forse offrire qualche elemento in più per una migliore ambientazione del nostro. Da altre comparse del religioso, risulta evidenziato il suo ruolo di organista. Fu beneficiario di lasciti testamentari e si può tranquillamente ritenere che quanto egli dona alla libreria del convento gli fosse pervenuto per via ereditaria.
Nel 1547 la biblioteca di S. Paolo poteva definirsi nuova dopo i consistenti lavori intrapresi da fra' Giovanni Maria Verrati nel 1543; il 20 novembre dell'anno dopo, venne siglato il contratto con i pittori Francesco Valides, Giovanni Battista Tartaglia e Marco Preudi, con il quale era loro affidato l'impegno di «pingere librariam novam», prevedendosene il completamento nel 1545; tale è anche la data che appariva in una lapide, dove si ricordava appunto la costruzione della biblioteca ad opera del Verrati. Il lascito di fra Vittorio si inseriva poi in un costume assai diffuso, per cui le biblioteche diventavano nobile ricetto di oggetti artistici, di rarità e di anticaglie.
E veniamo ai due pezzi evidenziati nell'atto di donazione con il nome degli autori: il Laocoonte di Michelangelo e la Carità di Cosmè Tura.
È da dire che, per quanto mi risulta, nessuna opera pittorica o scultorea del Buonarroti con tale soggetto è oggi superstite. Come è noto, il celebre gruppo marmoreo di arte ellenistica era stato scoperto sotto i ruderi delle Terme di Tito sul colle Oppio all'inizio del 1506. Per volere del papa Giulio II l'Artista, insieme con l'architetto Giuliano da Sangallo, si recò a prendere visione della scultura; iniziò anche, a quanto pare, a lavorare ad un braccio per integrare la figura di Laocoonte, lasciando però incompiuto il lavoro. L'oggetto di cui si parla nel nostro documento doveva essere un bronzetto, data la sua menzione dopo le medaglie e, pertanto, da rapportare anche con gli altri oggetti minuti che compaiono nell'elenco.
La riproduzione dell'originale marmoreo, in bronzetti appunto, proliferò molto presto. Se ne propone qui una rassegna telegrafica, rapsodica e occasionale: nel 1517 lo scultore milanese Antonio Elia ne eseguì un piccolo esemplare bronzeo, definito in una lettera ad Alfonso I d'Este «el megliore sia stato facto»; è anteriore al 1532-1533 il bronzetto del Museo Nazionale del Bargello di Firenze (alt. cm. 27,5); è successivo quello dei Civici Musei d'Arte e Storia di Brescia (alt. cm. 30); è posteriore al 1533 o al 1540 quello del Michael Hal di New York (alt. cm. 24,7). Insomma il moltiplicarsi di esemplari, stante la celebrità del gruppo, insieme con la fama di Michelangelo, ancora vivente, può avere indotto il buon fra' Vittorio ad attribuire paternità michelangiolesca al suo pezzo. Ma che anche Michelangelo abbia messo forse mano nel campo di tali riproduzioni - e allora sarebbe anche da ripensare la sicura affermazione del nostro frate - lo si potrebbe vedere insinuato in particolare in una lettera di Sebastiano del Piombo allo stesso Buonarroti del 3 luglio 1520.
Non c'è dubbio che la Carità con tre putti di mano di Cosmè altro non è che la Musa Tersicore del Tura - meglio: dubitativamente attribuita ad Angelo Maccagnino, a Cosmè Tura e a collaboratore - che già aveva adornato, insieme alle altre muse, lo Studiolo di Leonello a Belfiore e che ora è conservata al Museo Poldi Pezzoli di Milano.
Gli studiosi che in epoca recente hanno preso in esame il dipinto sono concordi nell'affermare che la trasformazione della musa - Tersicore, dea della danza nella terza virtù teologale - sia avvenuta nel tardo Settecento. Il restauro del 1987 ha eliminato gli attributi che aveva assunto nella sua nuova veste di virtù: la raggiera e soprattutto la scritta che campeggiava sul bordo del piedistallo: EX DEO EST CHARITAS ET IPSA DEUS EST. Proprio questi elementi, sia pure con circospezione, si fanno risalire anche ad epoca più antica: e a questo punto è legittimo chiedersi se non sia stato proprio nel corso del Cinquecento che essi hanno trovato spazio sulla tavola turiana ad indicare la nuova qualifica del personaggio.
La sicura denominazione di Carità assunta dal dipinto fin dal Settecento - prescindiamo qui dal documento cinquecentesco - avrebbe comunque dovuto dissuadere i recenti studiosi dall'inserire questo dipinto nella serie delle stagioni, dove esso sarebbe stato identificato con l'Inverno, e di farlo pertanto trasmigrare in varie sedi: il Tribunale dell'Inquisizione e la sagrestia di S. Girolamo. Nel pieno Ottocento esso approda da Ferrara, tramite l'antiquario dai molteplici interessi Filippo Pasini, alla raccolta milanese di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, mantenendo la denominazione di Carità, conservata fino ed oltre gli anni Cinquanta del secolo scorso.
Certo l'itinerario di questa tavola, una volta lasciato lo Studiolo di Belfiore, è tutto da ristudiare, se mai sarà possibile. Ma un dato di fatto sicuro è che, a metà del Cinquecento, la Carità-Tersicore è passata anche per la cella di fra' Vittorio organista nel convento carmelitano di S. Paolo.