Dodici sacchi di riso

Scritto da  Paolo Viana

Il lavoro delle mondine nelle risaie ferraresi negli anni 1950...Storia di una simbiosi fra il ferrarese e un prezioso cereale

 

La nostra storia inizia con una firma. Quella di Galeazzo Maria Sforza, in calce a una lettera all'oratore del Duca di Ferrara a Milano.

E'  il 27 settembre 1475. Nelle campagne oltre Porta Ticinese, i carri gemono sotto il peso del riso appena trebbiato. I contadini li seguono con occhi curiosi: quelle pannocchie color dell'oro sono gravide di chicchi come non ne hanno mai viste. Il Duca di Milano, buon cultore delle arti diplomatiche, ha deciso di farne dono a Ercole I e la sua lettera preannuncia la partenza di dodici sacchi di questa particolarissima semente, della quale si decantano le virtù a tavola e in campo.

La spedizione del prezioso carico avviene, in effetti, pochi giorni dopo, tra mille precauzioni: le vie, comprese quelle d'acqua, sono ancora infide, e dodici sacchi di riso costituiscono una fortuna, dalla quale Giuliano Guascono si separa solo perché glielo ordina - ovviamente, per iscritto - il suo signore.

 

L'ufficiale dei parchi di Milano, cui è diretta una seconda missiva dello Sforza, è cresciuto nella convinzione che quei chicchi gialli, con la loro anima candida, siano una spezia esclusiva delle tavole principesche, ma da qualche tempo il suo signore ha deciso di destinare a questo cereale grandi campi a sud della città, dove ha ripreso le bonifiche dei monaci di Morimondo. A Ferrara, pensa il funzionario lombardo, avranno deciso di fare lo stesso. É così. I dodici sacchi di riso non arrivano per caso in Emilia.

Le parole dello Sforza - "inteso quanto ne scrivesti nel desiderio che ha lo Ill.mo Duca vostro de introdure il seminare del riso nel ferrarese" - autorizzano a ipotizzare una precisa richiesta di Ercole I che, seguendo le orme di Borso d'Este, ha avviato la bonifica di Sammartina e vuole approvvigionarsi a Milano di questa semente fortemente produttiva, che può risolvere i problemi alimentari delle popolazioni stremate da guerre e pestilenze, ma che nel Quattrocento viene ancora importata dall'Africa e dalla Spagna.

 

La vita delle mondine nelle risaie ferraresi negli anni 1950.La scelta estense è fortunata: vent'anni dopo, nel 1495, il "Diario ferrarese" di Ludovico Muratori, direttore della biblioteca di Modena del duca Rinaldo I d'Este, ci riferisce che il riso si vende a Ferrara "soltanto" a quattro quattrini alla libbra, segno che le risaie del Polesine hanno assunto in due decenni un'espansione tale da far crollare le quotazioni.

Il "boom" è comune ad altre zone padane, ma, qui, ai "plus" economici ed agronomici che incentivano gli investimenti si sovrappone un'autentica simbiosi ambientale. Questa graminacea, infatti, sembra fatta apposta per preservare le terre giovani del Polesine da nuovi allagamenti, visto che la sommersione periodica dei campi richiesta dal riso riequilibra alcuni effetti negativi delle opere di bonifica.

Nel suolo ferrarese si riscontra un'alta presenza di torba, frutto del sedimentarsi, millennio dopo millennio, delle erbe di palude. Questo composto, una volta esposto all'aria, perde l'acqua che ha incamerato e si "sgonfia". Dopo un po', inoltre, si ossida, consumandosi. Se a ciò si aggiunge che il suolo ferrarese si abbassa di anno in anno per effetto della subsidenza geologica, alla lunga la sfida lanciata al mare risulta impari e diventa preziosissima la sommersione delle risaie, che compensa il costipamento, rallenta l'ossidazione, annulla l'acidità del terreno torboso e impedisce la risalita dell'acqua salmastra del vicino Adriatico. Insomma, inseguendo una maggior redditività, i duchi estensi si imbattono in uno strumento di equilibrio pedologico in grado di completare le loro bonifiche. E di conservarle nel tempo.

Quando, al tramonto del quindicesimo secolo, il primo chicco di riso cade tra le zolle ferraresi, la pianura che separa la città dal mare ha già conosciuto fasti e decadenza.

Per millenni, questa è stata una regione inospitale, un digradare di boschi e paludi, in cui il viandante ritrovava un passo sicuro solo quando metteva piede sull'isola di Pomposa. Proprio lì, per la prima volta, tra il Po di Volano e il Po di Goro, fin dagli ultimi secoli del primo millennio cristiano i monaci avevano preso a contendere alla laguna, di argine in argine, i moggi necessari alla rinascita economica e sociale della penisola, vessata dalle orde longobarde.

 

La vita delle mondine nelle risaie ferraresi negli anni 1950.I benedettini combattevano una battaglia più ardua di quelle dei loro confratelli cistercensi in Lombardia, perché il suolo emiliano, capace di essere tanto generoso con la vanga, nasconde un'instabilità che rende precaria ogni conquista.

Le antiche popolazioni del Polesine, tra il bosco della Mesola e le valli del Mezzano, non dovevano solo affrancarsi dalla malaria e dalla fame, ma anche domare una terra ribelle.

Ci avevano rinunciato persino i romani, che pure del Volano avevano fatto un loro confine strategico; eppure, i benedettini riuscirono nell'impresa, risanando ettari su ettari e desistendo solo quando, con la rotta di Ficarolo del 1152, il Po cambiò il suo corso, ridisegnando il delta, soffocando le loro opere di bonifica e avviando la potente abbazia verso un triste declino.

Gli Estensi raccolgono, dunque, l'eredità di quei monaci-ingegneri, regalandoci con il loro impegno questo spettacolare scenario di un fiume che ancora oggi, sei secoli dopo, corre sospeso sulla campagna.

La metamorfosi della pianura ferrarese da acquitrino a scacchiera agricola si compie, infatti, tra il XV e il XVI secolo, quando vengono prosciugati migliaia di ettari di terre salse e paludose tra Copparo, il Po e il Po di Volano. Si inizia con Borso d'Este a Casaglia, intorno alla metà del '400; poi è la volta di Sammartina e Diamantina; infine, con Alfonso II, parte la Grande Bonificazione Estense, tra il 1566 e il 1572, che coinvolge nobili veneziani e finanzieri lucchesi e "vale" più di 15.000 ettari del Polesine di Ferrara.

Si costruiscono centinaia di chilometri di nuovi canali, vengono risistemati quelli esistenti e si imprime alla risicoltura una spinta che alimenta invidie e preoccupazioni: nel 1588, Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova, ordina di non concedere più acque alle risaie del vicino, preoccupato che manchino alle proprie, e, sul finire del XVI secolo, Venezia stabilisce la "prohibizione di mettere a semina di risi niuna sorta di terreni buoni per seminarvi formenti", per paura, annota Antonio Tinarelli nel suo "Cenni di storia e delle civiltà del riso" (Vercelli, 2001), di trovarsi a corto di foraggi per gli allevamenti.

 

La vita delle mondine nelle risaie ferraresi negli anni 1950.Da allora, sono passati diversi secoli, eppure la risaia è ancora oggetto di sfida. Il riso continua ad attirare su di sé le ambizioni degli stati e, oggi come allora, ha un valore strategico negli equilibri del mercato alimentare. Per i ferraresi - anche se soltanto per loro - questa coltura mantiene un ruolo ulteriormente decisivo, essendo l'unica in grado di garantire quell'equilibrio tra ambiente, suolo e presenza dell'uomo che rende perpetua la bonifica del Polesine.

Percorriamo la "gran linea": i trattori che in primavera avanzano, un po' incerti, in questa terra bruna, paiono ormai una presenza naturale e non si ricorda quanto sia costato il risanamento delle valli che, ad esempio, sarebbe stato impossibile senza il genio di Leonardo da Vinci. Spostiamoci a Torre Abate, l'antica dogana fluviale tra lo Stato Pontificio e la Repubblica di Venezia: oggi è un'oasi che ospita gli aironi ed attrae le scolaresche, ma una volta questo era il cuore di un ingegnoso sistema di scolo basato sulla separazione delle risorse idriche in base alla loro quota e regolato dalla forza di gravità.

Attraverso un sistema inventato proprio da Leonardo, costituito da porte che si aprono e si chiudono in base alla pressione idraulica, l'acqua defluiva verso l'Adriatico nel periodo della bassa marea e si trovava la strada sbarrata quando il mare risaliva. Ovviamente, il sistema funziona finché il terreno si trova a un livello più alto di quello del mare e abbiamo già visto quanti fattori rendano precaria questa condizione nella Bassa ferrarese, che in alcune zone, ogni cent'anni, si abbassa addirittura di un metro.

Ebbene, tra '500 e '600, la Grande Bonificazione Estense, grazie a chiaviche come questa, ha conquistato centinaia di chilometri quadrati, facendo di Ferrara un importante produttore ed esportatore di grano. Troppo importante. Nel 1605, i veneziani effettuano, infatti, il "taglio" di Porto Viro, con il quale deviano i deflussi del Po verso l'insenatura della Mesola, dove si trovano i sistemi idraulici estensi, interrandoli. Ferrara, che è posta ormai sotto il controllo del Papa, non è in grado di reagire e la maggior parte dei territori al di sotto del livello del mare viene inghiottita dalle acque.

 

Aspetti della vita delle mondine. Ma il riso, ormai, fa parte della cultura di questa regione e nell'Ottocento, quando l'avvento del vapore permette di riprendere il risanamento, ripartono le coltivazioni.

Ancora una volta, i ferraresi dividono le acque in "alte" e "basse": le prime scorrono a due-tre metri rispetto al livello del mare, nelle zone di Guarda, Copparo, Formignana e Tresigallo; le seconde arrivano a -4,20 metri e appartengono all'area di Jolanda di Savoia, Berra, Ariano Ferrarese e Codigoro, dove vengono concentrate le pompe che scaricano nel Po di Volano. Il frutto di questo impegno è ben visibile dagli argini, che sono possenti e sembrano delle vere e proprie autostrade dei campi, perché devono durare su una terra che è ballerina.

Sulla campagna sottostante è ricamata un'estesa rete di canali, che nei secoli ha permesso la stabilizzazione delle colture irrigue. Oggi si basa sugli impianti di derivazione dal Po di Berra, Contuga, Guarda e Capodargine, un patrimonio gestito da tre consorzi: il primo circondario Polesine di Ferrara, il secondo circondario Polesine di San Giorgio e le Valli di Vecchio Reno, che sono coordinati dal Consorzio generale di bonifica della Provincia di Ferrara, responsabile anche delle irrigazioni agricole.

La risicoltura si sviluppa, soprattutto, nel quadrilatero del primo circondario, tra il Po e il Volano, la Mesola e Pomposa, Copparo e Codigoro e, malgrado il lungo scorrere del tempo, non è cambiato granché e nel suo destino continuano a intrecciarsi ingegneria e diplomazia, le bizze del suolo e le pressioni di governi e mercati.

Le caratteristiche pedologiche della zona continuano a condizionare le tecniche colturali, profondamente differenti da quelle delle terre "vecchie" di Vercelli e di Pavia, e i costi sono sensibilmente superiori che altrove.

I regolamenti comunitari, moderne "grida" con cui il riso diventa merce di scambio sui tavoli della globalizzazione, rendono sempre più "rossi" i bilanci delle aziende agricole e da anni l'ettarato oscilla, seguendo il listino e le previsioni di un futuro che appare incerto come la terra su cui avanzano le mietitrebbie. Le sole tasse di bonifica ammontano a un centinaio di euro all'anno per ettaro, importo cui va aggiunta la spesa per la sommersione, variabile secondo i consumi.

 

Aspetti della vita delle mondine.I "bacini" di risaia sono livellati all'inizio di ogni campagna e vanno ripristinati i "gambini", canali di scolo che svolgono una funzione essenziale: la degradazione della torba produce, infatti, delle sostanze tossiche per le piante e la sommersione, oltre a ostacolare le risalienze saline, "lava" il terreno, impendendo che inaridisca. Va da sé che, in questo modo, non si tutela soltanto il riso, ma anche le altre colture.

La torba è un composto estremamente fertile che impone una concimazione "soft": questo è l'unico vantaggio per gli agricoltori ferraresi, perché la torba rende la difesa fitosanitaria più difficile e libera una grande quantità di azoto che propizia gli attacchi di piricularia, un fungo noto come brusone, che costituisce il patogeno principale del riso ferrarese, immediatamente seguito da giavoni, ciperacee e alismatacee.

In condizioni così speciali, gli agricoltori non possono seguire pedissequamente i testi di agronomia, ma devono possedere fiuto e tempismo per offrire ottimi Arborio, Volano, Argo e Baldo, che sono le varietà più gettonate. Il rigoglio vegetativo li costringe, ogni cinque/sette anni, alla rotazione con altri cereali (come il grano e il mais), leguminose (come la soia) o cocurbitacee (come il cocomero e il melone). Insomma, mentre altre colture consentono interventi codificati e, se il clima non "impazzisce", assicurano sempre dei buoni risultati, nel caso del riso occorrono parecchi sforzi aggiuntivi.

Questa disparità ha imposto agli imprenditori di concentrarsi sull'abbattimento dei costi, per esempio riducendo a un terzo la quantità di acqua utilizzata. Una "austerità" supportata dalla consulenza tecnica dell'Ente Nazionale Risi, che ha stabilito i propri uffici a Codigoro. Ogni due anni, le Giornate del riso di Jolanda di Savoia fanno il punto della situazione e le ultime edizioni della kermesse non hanno dato responsi trionfali, anche se gli investimenti non si fermano e, anzi, è stato varato un progetto per l'Igp del riso del Delta.

 

Oggi, nel Ferrarese, si coltivano circa seimila ettari di risaia, mentre qualche decennio fa erano più del doppio: dunque la potenzialità produttiva ci sarebbe, ma la rete irrigua non è adeguata e i costi restano proibitivi.

L'Europa, purtroppo, fa la sua parte: a giudizio dei protagonisti, la recente riforma della politica agricola comune, a dispetto del dichiarato impegno a sostenere lo sviluppo rurale e la multifunzionalità, rischia di soffocare questa coltura, che ha un ruolo primario nella bonifica dei terreni e nel combattere i processi di inaridimento.

Dall'alto dell'argine, oggi sembra tutto così placido e naturale, ma questa scacchiera agricola è il risultato di ingegno e fatica non meno delle piramidi o delle grandi cattedrali. Ogni anno, sotto l'apparente normalità, le risaie ferraresi attuano un risanamento pedologico senza alternative, grazie a imprenditori che, come ha ricordato recentemente Mario Guidi, presidente della locale Unione agricoltori, «sono tutti veri appassionati del proprio lavoro».

La risicoltura, insomma, vive in simbiosi con la pianura ferrarese e, quel che più conta, le sarà sempre più indispensabile: il riscaldamento del pianeta sta provocando, infatti, un innalzamento dell'Adriatico che renderà ancor più faticosa quella lotta con il mare in cui i ferraresi hanno la meglio da secoli. Anche grazie a dodici sacchi di riso.