Gli anni al Corriere del Po

Scritto da  Gaetano Tumiati

La testata del Corriere del Po, quotidiano del Comitato di Liberazione Nazionale di FerraraVicende e personaggi del quotidiano dove, nel 1946, ebbe inizio una brillante carriera di giornalista

 

Ai primi di febbraio 1946, dopo due anni di guerra di Libia e quasi tre di prigionia - Algeria, Marocco, Texas - rimisi finalmente piede in Europa e in Italia. Viaggio avventuroso, quello di ritorno: trentatré giorni ammassati nelle stive di una nave da trasporto americana che da Los Angeles - via Messico, Panama, Santo Domingo, Gibilterra - ci portò fino a Napoli.

 

Ricordo i branchi di pesci volanti del Pacifico, i gatti selvatici arrampicati sugli alberi che fiancheggiavano il canale di Panama, la terribile tempesta nel Mar dei Caraibi, l'emozione che provai a Gibilterra quando per la prima volta, inaspettatamente, "sentii" l'Europa come patria; poi l'arrivo nella Napoli devastata dell'immediato dopoguerra, con gli scugnizzi che si tuffavano sottobordo, nella speranza che qualcuno gettasse loro qualcosa da mangiare. Ma soprattutto la sosta a Cantiano, sull'Appennino umbro-marchigiano, dove interruppi la mia fortunosa risalita verso il Nord, per sostare sulla tomba di mio fratello Francesco, giovanissimo comandante partigiano catturato e fucilato dai fascisti su quelle colline, quando io, prigioniero nel Texas, nulla sapevo della sua sorte.

 

A Ferrara arrivai verso le due del pomeriggio di una giornata fredda con un cielo grigio e basso che gravava sulla pianura. La sgangherata corriera che avevo preso a Bologna mi scaricò a Porta Po. Avevo ancora addosso le strane vesti da prigioniero dateci dagli americani: consunte divise Usa della prima guerra mondiale, ritinte di blu con due giganteschi PW rosso fuoco - prisoner of war - sulla schiena e sulle cosce.

Così conciato, con il sacco in spalla - pochi indumenti sdruciti, ma anche un fascio di appunti cui tenevo moltissimo - mi avviai lungo il corso senza che alcuno dei rari passanti, abituati a bel altro, facesse caso al mio insolito abbigliamento. Camminavo lentamente: le macerie rassegnate della chiesa di San Benedetto distrutta dai bombardamenti, Palazzo dei Diamanti fortunatamente salvo, almeno all'aspetto esterno, Parco Massari deserto, piazza Ariostea con la sua colonna biancastra e il Poeta tutto solo, lassù in cima.

E, finalmente, via Palestro, la mia strada, gli incroci con Mascheraio e con Mentana, le occhiaie vuote del Maneggio di Artiglieria scoperchiato dalle bombe, il conto alla rovescia dei numeri civici alla mia destra - 41, 39, 37 - giù giù fino al 31, casa nostra.

 

Ferrara, 1947- l'autore di questo articolo, Gaetano Tumiati, al centro della foto con due redattori del Corriere del Po: Onorio Dolcetti e Adolfo Baruffi.Casa mia, con il campanello d'ottone che esito a suonare. Frazioni di secondo. Accosto l'indice, premo. Lontano, all'interno, il trillo attutito che credevo di aver dimenticato, lo scatto della serratura che si apre, il grido di nostra madre nella tromba delle scale: "È lui! È lui!"

Basta. Ho voluto ricordare quel momento cruciale - ero uscito da quel portone a ventidue anni, rientravo a ventisette compiuti - perché per me come per molti altri della mia generazione, segnava non soltanto un traguardo sospirato, ma anche il taglio netto fra due fasi della vita: la fine della prima giovinezza e l'inizio, se non ancora della piena maturità, di una nuova coscienza ricca di idee, di dubbi e soprattutto di speranze.
Per me, fra le altre, quella di darmi al giornalismo.

Fin dai primi momenti, nostro padre si rese conto che la sua aspirazione a vedermi portare avanti lo studio legale fondato da nostro nonno e continuato con successo da lui, sarebbe andata delusa.

Chiuso per ore in camera mia, passavo il tempo a tradurre in ordinati racconti di guerra e di prigionia gli appunti stropicciati che avevo salvato da mille peripezie. Con un impegno che venne via via attenuando le riserve paterne fino a farle svanire del tutto.

Naturalmente per essere assunti da un giornale non basta aver scritto diversi racconti e neppure averne pubblicato qualcuno. Occorre sì facilità di scrittura, ma anche disponibilità alla "gavetta", determinazione, tenacia. Meglio se garantite da qualche voce autorevole. Le prime doti le avevo; la "voce autorevole" fu quella di Ireneo Farneti, avvocato cinquantenne, mio cugino acquisito, medaglia d'argento della prima guerra mondiale, antifascista da sempre, membro del Comitato Nazionale di Liberazione in rappresentanza dei cattolici di sinistra. Io, non iscritto ai partiti, mi sentivo e mi dichiaravo laico e socialista, ma questo non costituì un ostacolo per Ireneo Farneti e tanto meno per la direzione del "Corriere del Po", quotidiano di CLN, la cui proprietà, in quei giorni, era passata alle Camere del Lavoro di Ferrara, Ravenna e Rovigo.

Quello in cui entrai, dunque, era senza dubbio un giornale delle sinistre: proprietà dei sindacati, direttore comunista, redattore capo socialista, difesa a oltranza degli operai e dei lavoratori della terra, ammirazione o almeno comprensione dell'Unione Sovietica.

E tuttavia credo fosse errato considerarlo - come molti allora facevano - un monolito freddamente burocratico senza dialettica e senza sfumature. Alcune sue caratteristiche, infatti, lo rendevano diverso da altri organi consimili; addirittura un esempio delle complessità e delle contraddizioni di quel periodo.

Visto dall'esterno, il palazzotto di viale Cavour aveva ancora l'autoritaria dignità che gli derivava dal fatto di essere stato la sede del "Corriere Padano" di Italo Balbo; all'interno, invece, stanze semivuote, pareti disadorne, mancanza quasi assoluta delle suppellettili, degli strumenti, delle documentazioni necessarie a una redazione.

 

Giro d'Italia 1947 - Gaetano Tumiati inviato spaeciale alla corsa rosa, con il ciclista ferrarese Lambertini e il motociclista del Corriere del Po.Con il passaggio della guerra era sparito quasi tutto. Contrastava però con quella inadeguatezza la vivacità dell'ambiente: fra quelle pareti spoglie risuonavano soltanto voci giovanili; in quelle stanze certosine, neppure l'ombra di un redattore anziano o anche soltanto di una certa età; tutti, in quella piccola redazione, erano al di sotto dei venticinque anni. Il più giovane, Flavio Dolcetti, attivissimo reporter, anche se gli era riconosciuta soltanto la qualifica poco ufficiale di "aiuto di cronaca", ne aveva diciassette.

Perfino l'amministratore del giornale, Nino Bardilli, rientrava nei generali limiti di età, trasgrediti soltanto dal direttore, Amleto Bassi, e dal redattore capo - l'organico non prevedeva la carica di vicedirettore - Alberto Felletti Spadazzi.
Poco più che trentenne, minuto, folta chioma scura sempre pettinata, voce sommessa, Bassi era un uomo di cultura, tanto mite nell'aspetto tanto duro nei giudizi e nelle decisioni. Comunista convinto, amava però radunare nel suo studio intellettuali ferraresi come Mario Canella, Claudio Varese, Ireneo Farneti con quella elasticità "togliattiana" che manifestava anche nei suoi articoli di fondo, peraltro limpidi e chiari.

 

Felletti Spadazzi, l'"anziano" del giornale - aveva da poco superato i quaranta - era esattamente il suo contraltare. Alto, pesante, rubicondo, fedele d'inverno al suo cappottone scuro di buon taglio e alla sua lobbia dalla tesa rigida garbatamente arrotondata all'insù, più che socialista, qual era e teneva solennemente a dichiararsi, sembrava un classico esempio del bravo borghese amante della buona tavola. Il suo socialismo consisteva in una vasta cultura dei movimenti operai e contadini a cavallo fra i due secoli e, soprattutto, nel saggio buonsenso con cui riusciva a risolvere le questioni più complesse e a sanare gli attriti più nascosti.

 

La testata di Vostro Sport, trisettimanale sportivo ferrarese del dopoguerra.Nella classifica per età, entrando al giornale, mi trovai di colpo al terzo posto, fra i "soldati semplici", neofita e decano a un tempo. Ciò facilitò moltissimo il mio inserimento in quel lavoro per me tutto nuovo in cui mi gettai a capofitto, felice di poter essere adibito ai compiti più diversi com'era possibile soltanto a quei tempi in un giornale di sole quattro pagine, sei nelle circostanze eccezionali: cronista, redattore, corsivista, titolista, impaginatore. Particolarmente attento quando mi toccava "passare" o impaginare articoli di collaboratori illustri come Vasco Pratolini, Alfonso Gatto, Guido Aristarco, Giancarlo Vigorelli.

Dodici ore di lavoro al giorno, dalle quattro di pomeriggio alle quattro di notte - i giornali a quei tempi "chiudevano" a quell'ora - soltanto una breve pausa per la cena in via Palestro e subito via di nuovo in bicicletta con appeso al manubrio il thermos di caffelatte caldo per la fame e i bruciori di stomaco che mi avrebbero preso fra le due e le tre. Nottate di intenso impegno professionale con pause di allegria e anche qualche infantile ingenuità come quando, tutti insieme, sul modello di certi film americani, ci dotammo di grandi visiere di celluloide che facevano molto "giornalista", ma che servivano a poco, tanto che presto le dimenticammo nei cassetti.

Qualche volta, se dalla telescrivente arrivava una notizia clamorosa, magari riguardante l'Unione Sovietica, potevano sorgere dissensi e polemiche fra chi era comunista e chi socialista o indipendente; ma sempre senza trascendere; battute di spirito, puntate irrisorie che si spegnevano quando il proto, l'anziano Baruffi, entrava trionfante con la prima copia del giornale fresca di stampa.

La mattina dopo riprendevamo il lavoro animati dalle comuni convinzioni in tema di politica interna - Costituzione, unità sindacale, riforma fiscale, "imponibile di manodopera", - sempre eccitati dalla febbre giornalistica che rendeva facile e perfino gradevole ogni fatica pur di battere i colleghi concorrenti del "Giornale dell'Emilia" - questo il nome allora del "Resto del Carlino" - e dell'"Avvenire".

Con quelle convinzioni e quella febbre addosso, sotto una continua doccia scozzese di entusiasmi e delusioni, vivemmo tutti i grandi avvenimenti di quel periodo - firma della Costituzione, riforma agraria, scissione socialista - fino alla rovente campagna elettorale del 1948.

La grande vittoria democristiana del 18 aprile e la sconfitta del Fronte Popolare segnarono praticamente la fine del "Corriere del Po" e di quella mia prima esperienza giornalistica. Il primo di settembre, infatti, il giornale, pur mantenendo la testata, divenne l'edizione ferrarese del "Progresso d'Italia", quotidiano bolognese filocomunista. E io, quello stesso autunno, passai alla redazione milanese dell'"Avanti", auspice Riccardo Lombardi.

 

 

Appena venti mesi durò, dunque, la mia esperienza al "Corriere del Po", e tuttavia ricordo quel periodo come uno dei più importanti per la mia formazione professionale e umana. In quei venti mesi, come ho detto, ebbi la possibilità di esercitarmi nei più diversi settori, di confrontare e approfondire le mie idee, di considerare gli aspetti luminosi e quelli ambigui della politica.

Là, nell'edificio di viale Cavour, potei conoscere da vicino quella straordinaria categoria operaia che erano i tipografi della "lavorazione a caldo"; a differenza di noi redattori, erano tutti anziani, o per lo meno apparivano tali, segnati com'erano dalle velenose esalazioni del piombo fuso: rughe profonde, bocche spesso sdentate, calvizie precoci; e tuttavia pieni di entusiasmo per il loro lavoro e spesso pronti a dare a noi giovani saggi consigli sui problemi del mestiere e sui valori stessi della vita.


Al "Corriere del Po" debbo una delle maggiori soddisfazioni della mia carriera: la gioia della mia prima missione di "inviato speciale" al seguito del Giro d'Italia del 1947. Lo seguii arrampicato sul sellino di una grossa moto - il giornale non poteva certo privarsi dell'unica auto a sua disposizione - guidata dal non ancora ventenne fattorino Meci, promettente campione di motociclismo, categoria juniores. Vertiginose volate, Fausto Coppi grondante di sudore sui tornanti dolomitici, visto a due metri di distanza, i primi incontri con colleghi illustri come Montanelli o Bruno Roghi.

 

 

Ma, soprattutto, di quei venti mesi, ricordo volti, voci, atteggiamenti dei miei compagni di lavoro chini sulle loro scrivanie, con le visiere o senza, oppure aperti al sorriso mentre scherzavano e si sfottevano a vicenda senza neppure immaginare che diversi di loro, di lì a qualche anno, sarebbero diventati famosi.

Neppure io, del resto, pensavo di far parte di una covata da cui sarebbero uscite grandi firme e dirigenti di spicco: Onorio Dolcetti e Giuseppe Conato direttori responsabili di due diverse edizioni dell'"Unità"; Gilberto Formenti, amico oggi scomparso, direttore prima dell'"Arena" di Verona, poi del "Gazzettino" di Venezia. E Florestano Vancini? L'allora ragazzo di bell'aspetto dai chiari occhi ingenuamente aperti sul mondo, sarebbe diventato uno dei nostri maggiori registi cinematografici, aiutato talvolta da un altro ex redattore, il piccolo Adolfo Baruffi, figlio del "proto".

Così come il "fraticello" Ervardo Fioravanti, temperamento più d'artista che di giornalista, concluse la sua carriera dedicandosi con successo all'amata pittura. Chiudo l'elenco, certo incompleto, con l'"aiuto di cronaca" Flavio Dolcetti, il diciassettenne di un tempo, eletto vicepresidente della CASAGIT e membro del Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti.

Allori soltanto per il "Corriere del Po"? Tutt'altro. Suppergiù in quel periodo, sull'altro versante giornalistico e politico, a dirigere l'edizione del "Giornale dell'Emilia" venne chiamato il ventiquattrenne Lamberto Sechi, futuro fondatore e direttore di "Panorama"; e a quella dell'"Avvenire", un giovane sacerdote anticonformista, don Lorenzo Bedeschi, autore di validissime opere storiche, destinato alla cattedra dell'Università di Urbino. Due straordinari colleghi, che fra l'altro sarebbero diventati miei amici fraterni, ma che venivano da altre città. A differenza di noi del "Corriere del Po" - mi si perdoni il momentaneo fugace soffio di campanilismo - non erano ferraresi.