Ferrara, tramite le personalità di Dosso Dossi, del Garofalo, dell'Ortolano, del Mazzolino e di molti altri, ha apportato un contributo fondamentale al Manierismo Padano. Alla mostra di Mantova sono presenti alcune opere di questi importanti pittori prestati dalla Fondazione e dalla Cassa di Risparmio di Ferrara.
Tra questi, vi è un recente acquisto della Cassa, opera di un pittore il cui legame con la nostra città è stato di eccezionale importanza: Tiziano Vecellio, erede diretto di Giorgione. Si tratta del Ritratto del comandante Gabriele Tadino, dipinto attribuito dalla critica, praticamente in maniera univoca, a Tiziano.
L'identificazione dell'effigiato è resa possibile dalla presenza di una scritta antica, ma non coeva al quadro, nella quale leggiamo: GABRIEL TADINUS EQES / HIERNUS PRIOR BARULI CESR / TORRUM PREFUS GENLIS / MDXXXVIII. Tale personaggio è stato sondato approfonditamente da Guido Tadini al quale mi sono riferita, così come potrà fare chiunque voglia indagare la dimensione storica di questo uomo d'armi.
Sappiamo che Carlo V, colpito dalla personalità e dalla fama del Tadino, gli offrì nel 1524 la carica di comandante generale dell'artiglieria di Castiglia e di Aragona, con l'eccezionale retribuzione di 2000 ducati d'oro l'anno. Il re cattolico, avendo conosciuto il comandante - durante una sua ambasciata come rappresentante dell'Ordine Gerosolimitano che gli richiedeva Malta come nuova sede - decise di non farsi sfuggire le tecniche militari da lui padroneggiate.
La sorte ha voluto che il nostro uomo d'armi subisse, nell'impresa che gli valse i maggiori onori, una grave ferita. Ci restituisce la memoria di quei tragici fatti, accaduti l'11 ottobre 1522, durante il suo intervento in difesa di Rodi minacciata dai Turchi, Giacomo Bosio nella sua Dell'historia della sacra Religione: «Andando e venendo continuamente Fra Gabriello Martinengo innanzi, e indietro in tutti i luoghi, che da nemici erano stati dannificati, per provvedere al tutto; andò al Baluardo di Spagna, per vedere s'una traversa, ch'egli aveva fatta fare, era ben fatta: e mettendo l'occhio al pertugio, per vedere quello che gli inimici far potevano, venne un'archibusata dalle trincee turchesche, che gli schiacciò e passò l'occhio; uscendo la palla per dietro l'orecchio.». Dopo un mese e mezzo di convalescenza si riprese da questa terribile ferita che per chiunque altro sarebbe stata mortale. Inevitabile fu la resa e l'abbandono dell'isola.
L'uomo che tanto affascinò Carlo V era, dunque, un comandante che aveva impressi, in maniera indelebile sul proprio corpo, i segni del suo sacrificio militare, animato da un senso dell'onore che lo aveva spinto a intraprendere la difesa di Rodi senza il supporto di nessuna potenza.
Sotto questa luce deve averlo voluto rappresentare Tiziano, avvezzo com'era a mettere in risalto le doti umane dei protagonisti dei suoi ritratti. Il Tadino viene effigiato di trequarti, in maniera da rendere meno evidente la sua menomazione, è posto a sedere e veste un ricco mantello di pelliccia.
Sul petto spicca la croce dei Cavalieri Gerosolimitani, mentre al collo fa bella mostra di sé un prezioso collare, evidente simbolo di un'importante onorificenza che possiamo tentare di identificare nel priorato di Barletta, di cui era stato insignito nel 1525.
Nella scritta apposta sul ritratto appare l'anno 1538, data che ricorre anche in una rara medaglia segnalata da Guido Tadini. Nel recto, il ritratto del Tadino, posto di profilo, è caratterizzato da una fisionomia matura e segnata, sicuramente somigliante a quella resa da Tiziano; al collo notiamo la croce dei Cavalieri di San Giovanni. L'iscrizione « GABRIEL. TADDIN. BERG. EQ. HIER. CAES. TORMEN. PRAEF. GEN.» può essere considerata la fonte dalla quale è stata tratta la scritta del dipinto, non è infatti possibile prescindere dalle identità riscontrabili.
Nel verso della medaglia, osserviamo l'analogia con il dipinto più interessante. Si tratta di una serie di cannoni posti in parata, così come li dipinge Tiziano, regalandoci un delizioso brano pittorico in cui i pochi e semplici tratti, che delineano gli elementi naturali, denotano la mano di un grande artista.
A coronamento di questa immagine, che potremmo considerare l'impresa del Tadino, leggiamo il motto: «UBI. RATIO. IBI. FORTUNA. (PRO)FUGA». I cannoni, dunque, diventano una sorta di attributo di quello che possiamo considerare uno degli ingegneri militari più importanti del Cinquecento. Egli fu, infatti, consacrato da Nicolò Tartaglia, illustre matematico bresciano, nei suoi Quesiti et inventioni diverse suo dotto interlocutore nella trattazione di argomenti militari.
Troviamo, poi, di Dosso Dossi il Sapiente con libro, dipinto che, insieme ad altre quattro tele di soggetto analogo, riemerse in tempi diversi, faceva parte di un ciclo non ancora ricostruito completamente. La chiara ispirazione al modello michelangiolesco della cappella Sistina è stata sostanzialmente tradotta in termini più marcatamente fisici, secondo lo stile proprio di Dosso. Questa serie gode di un fascino particolare dovuto al suo carattere misterioso; ogni Sapiente è connotato da un attributo, ma si tratta di elementi che non contribuiscono a identificare la giusta lettura iconografica.
L'interpretazione considerata la più attendibile è quella di Federico Zeri, il quale vede nel ciclo la rappresentazione al maschile delle sette arti liberali. La critica sembra, però, aver trascurato un'ipotesi formulata da Amalia Mezzetti, il cui contributo allo studio di Dosso resta fondamentale, secondo la quale esiste una relazione tra i Sapienti e un soffitto ferrarese raffigurante un ciclo astrologico, rapporto già realizzato da Dosso negli affreschi da lui eseguiti nel Castello del Buonconsiglio a Trento.
Altro recente acquisto della Cassa è la Sacra Famiglia con S. Giovannino, Sant'Elisabetta, S. Zaccaria e S. Francesco (?), attribuita al Garofalo, la quale rappresenta una delle varianti dell'esemplare conservato a Londra presso la National Gallery (inv.170). Datata intorno agli anni venti del Cinquecento, si ispira chiaramente, come già osservato da Anna Maria Fioravanti Baraldi, al motivo della doppia sacra famiglia della Madonna Canigiani di Raffaello.
Il Garofalo, oltre a manifestare una certa sensibilità verso i modelli pittorici più in voga, mostra una sostanziale fedeltà a se stesso, in virtù della quale propende per una rappresentazione più ricca di personaggi, distribuiti in maniera tale da porre in evidenza il tangersi dei due gruppi nelle figure di Gesù e di San Giovannino.
Egli, poi, reinterpreta in maniera personale l'impostazione delle figure all'interno di un ambiente architettonico chiuso, elemento distintivo della produzione del Mazzolino; lo stesso valga per la resa del Padre Eterno e degli angeli musicanti, animati da un guizzo estroso. Il paesaggio visibile attraverso l'apertura della quinta architettonica amplia la spazialità prospettica della scena.
Abbiamo, poi, Giacobbe e Rachele al pozzo, bellissima tela attribuita a quello che convenzionalmente la critica ha denominato il Maestro dei dodici apostoli, nome coniato da Claudio Savonuzzi che individuò i tratti salienti dello stile pittorico di questo anonimo pittore, partendo dalle dodici tavolette raffiguranti, appunto, i discepoli di Cristo, conservate nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara.
Il soggetto è stato tratto dal libro della Genesi (29, 1-10) in cui viene descritto l'incontro tra Giacobbe e Rachele presso il pozzo al quale la giovane era solita abbeverare il bestiame.
Il pittore traduce fedelmente il testo; oltre ai due protagonisti compaiono, infatti, anche i pastori ai quali Giacobbe chiede informazioni sullo zio Làbano e che gli indicano la cugina che si sta loro avvicinando. All'arrivo di Rachele «Giacobbe, fattosi avanti, / rotolò la pietra dalla bocca del pozzo»; la narrazione è congelata un attimo prima che venga fatto abbeverare il bestiame. Il pittore ha voluto mettere in evidenza il momento dell'incontro tra i due giovani, l'istante in cui i due si scambiano il primo sguardo.
L'insieme ci viene presentato come la traduzione pittorica di una scena pastorale, genere tanto di moda nelle rappresentazioni teatrali del Cinquecento ferrarese. Grande è l'attenzione nel riprodurre una serie di strumenti musicali ricercati, già illustrati da Camilla Cavicchi in un interessante articolo comparso su questa rivista (n. 17, dicembre 2002).
Un aulicismo di questo genere sembra motivato dalla consapevolezza di vedere riconosciuti da parte del pubblico gli strumenti raffigurati, si è quindi legittimati a confermare una committenza colta e raffinata come quella ducale.
Vittorio Sgarbi ha ipotizzato una somiglianza del primo pastore sulla sinistra e di quello inginocchiato a destra, rispettivamente con Lionello e Alfonso I; tale congettura non può che risultare affascinante. I due duchi verrebbero, così, accostati a Giacobbe, simbolo dell'uomo dotato di forza e astuzia, ma rispettoso in ogni circostanza della volontà divina.
Concludiamo con il ritorno alla Natura che opera lo Scarsellino, le cui opere in mostra sono fuori dagli estremi cronologici proposti solo in termini di datazione, non certo per il loro contenuto. I due quadri dello Scarsellino, di proprietà della Fondazione, mi sono particolarmente cari in quanto fu proprio osservando una loro riproduzione che fui incuriosita dalla presenza di un bambino nero, elemento anomalo a cui non riuscivo ad associare nessuna lettura iconografica conosciuta.
Alla curiosità sono seguite prima le ricerche - iniziate con un prezioso consulto con Maria Angela Novelli, l'autorità indiscussa in materia di Scarsellino - e poi, fortunatamente, la risoluzione dell'enigma che accompagnava i dipinti. Chi voglia una trattazione ampia e approfondita, potrà fare riferimento alla pubblicazione stesa dalla scrivente e da Maria Angela Novelli, recentemente pubblicata per la Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara.
I dipinti fanno parte di una serie che conta fino a oggi sei pezzi, tale insieme è stato riunito nella sua contiguità per la prima volta nella mostra di Mantova. Ippolito Scarsella si cimentò in un'impresa che potremmo definire unica; egli ricevette, infatti, dalla famiglia dei Nigrisoli, la commissione di tradurre pittoricamente le fantastiche origine della loro casata.
Questo singolare caso di "epica domestica" vede come protagonista il piccolo Nigersol, principe di Timbuctù, superstite di una strage che estinse la famiglia reale di cui faceva parte. Egli, insieme alla madre e allo zio, fuggì prima in Sicilia, poi a Napoli e quindi a Ferrara. La memoria di questi eventi è conservata in un manoscritto dell'Archiginnasio di Bologna, datato 1614. Seguendo questa traccia lo Scarsellino scelse di enfatizzare l'elemento della conversione dedicandole addirittura tre episodi; tale scelta risulta logica per chi come i Nigrisoli avevano goduto dell'elevazione a "famiglia nobile di prim'ordine" da parte di papa Clemente VIII.
La narrazione pittorica si apre con Il congedo da Tombut (Ro Ferrarese, Ferrara, Fondazione Cavallini-Sgarbi), nel quale i nostri protagonisti danno l'addio alla loro città, le cui mitiche ricchezze erano state illustrate nella prima metà del Cinquecento da Leone Africano.
Scarsellino, raffigurando la veduta della città africana secondo la tradizone paesistica del Cinquecento ferrarese, di chiara influenza fiamminga, fonde a questo elemento una forte attenzione per la resa naturalistica della vegetazione, mutando in padano ciò che aveva appreso dalla scuola veneta. Segue La partenza dall'Africa (Napoli, Museo Capodimonte) nella quale viene rappresentata la precipitosa fuga di Nigersol e i suoi.
Ne La conversione (Ferrara, Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara, in deposito presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara), lo Scarsellino mette in atto un vero stratagemma pittorico per enfatizzare la conversione del principino. Perturba l'idilliaco paesaggio con il sopraggiungere di due draghi, metafora del male e del paganesimo. Il piccolo Nigersol viene letteralmente strappato alla sua condizione che per nascita lo avrebbe voluto pagano; a tale risultato collaborano valorosamente lo zio insieme al leone, vivo emblema di famiglia, e il monaco che con le sue preghiere ha invocato una risoluzione miracolosa. Ed è proprio il religioso a sancire la conversione alla religione cattolica di Nigersol con Il battesimo (Napoli, Museo Capodimonte) che gli impone. Segue Il commiato dall'eremita (Ferrara, Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara, in deposito presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara) in cui Nigersol indossa la veste bianca del battesimo.
La narrazione si chiude con Il nuovo regno di Nigersol (Napoli, Museo Capodimonte, depositi), in cui è trascorso un discreto lasso di tempo e il principe è diventato un ragazzino. Lo zio di Nigersol attira l'attenzione dei suoi compagni su di un possente castello in costruzione, di chiara impronta estense, al cui ingresso è affisso lo stemma dei Nigrisoli.
Il recupero delle tele da parte della Fondazione, ha reso possibile il ritorno dei quadri nel contesto in cui furono concepiti, ove fortunatamente sono ancora presenti elementi che si sono dimostrati riconducibili al loro significato. Ci auguriamo pertanto di poter avere a disposizione altre preziose occasioni per recuperare frammenti della nostra storia pittorica.