Quali sono i nuovi "significati" di una città? Quali sono i bisogni che dovrebbero indurre la crescita di una città? E come cresce una città? È necessario che crescita sia crescita delle parti edificate, oppure si può crescere in altro modo? Come si propone di crescere una città come Ferrara?
Nel mondo occidentale, almeno da due secoli in qua, le città si sono ampliate aumentando le costruzioni e seguendo la direzione imposta dallo sviluppo della produzione e delle industrie: la regola ammette molte eccezioni, ma è pur sempre una regola verificabile sperimentalmente quella per cui la Fabbrica sia stato poderoso fattore di ordinamento del territorio.
Di pari importanza, l'altro motivo di ingrandimento delle città è l'incremento della popolazione e lo spostamento dalle campagne. E insieme a essi, la nascita di esigenze, oltre l'abitazione: i nuovi lavori, lo svago, lo sport. L'urbanizzazione ha tenuto costantemente accesi i suoi motori, alimentata da un carburante sempre riconoscibile, più o meno condiviso, imposto da ragioni oggettive (il bisogno di case, in primo luogo), alle quali si rispondeva in modo diverso: talora correttamente, fra illusioni e disillusioni, con l'edilizia pubblica e popolare, talaltra in modo esecrabile, facendosi guidare dagli interessi della rendita fondiaria e della speculazione edilizia.
Da alcuni anni, forse da qualche decennio, l'urbanizzazione ha proseguito il suo cammino, ma come una macchina che abbia rotto i freni scendendo su una strada di montagna. L'urbanizzazione si coniuga ora con il consumo di suolo e con lo spreco.
I dati del censimento agricolo, elaborati da Italia Nostra, attestano che fra il 1990 e il 2000 si sono persi terreni non edificati pari a più di tre milioni di ettari. Un ritmo del tutto inedito nella storia. Un geografo di grande sensibilità, Eugenio Turri, ha chiamato "Megalopoli padana" l'infinito agglomerato urbano che da Cuneo arriva a Pordenone.
Il Nord-Est è un territorio esausto e in particolare nelle province di Padova, Treviso e Venezia si è dissipato tutto lo spazio. Domina il modello della "città diffusa", una città senza centro, senza più bordi, che rosicchia terreno con le sue architetture banali (piazze in lastroni di cemento, stentati alberelli su patetiche aiuole, panchine, una fontana e qualche negozio, un supermercato, qualche ufficio, un po' di case e tanti parcheggi), una città dove vige un'agorà privata e dove le tavernette costruite nei terrapieni sotto la villetta unifamiliare hanno sostituito il rito contadino e operaio dell'osteria in piazza, sotto i portici.
Ferrara sorge in un territorio nevralgico per questo tipo di sviluppo fondato sull'accumulo di quantità, sulla perdita di senso della città. Però, in qualche modo, ne è rimasta parzialmente immune. Le frenesie edificatorie si scatenano a poche decine di chilometri dai suoi confini, ma, almeno sino all'attuazione dell'ultimo P.R.G., è come se fossero tenute a bada.
Ferrara rappresenta un modello alternativo: sia per quello che ha realizzato sia per quello che potrebbe realizzare, portando a compimento il progetto dell'Addizione verde, milleduecento ettari di terreno agricolo dalle Mura fino al Po che entrano nell'ambiente urbano, ne diventano la parte preponderante e si caratterizzano come l'ambito di crescita della città, una città che si sviluppa, diversamente dalle altre che le stanno intorno, acquisendo verde.
A un occhio esterno, e per di più profano (come quello di chi scrive queste note), sembra che la storia di Ferrara, identificata nella sua forma urbana, funga da potente antidoto alle insolenze proposte da un meccanismo di crescita che procede per puro accatastamento di oggetti. Ferrara ha salvaguardato questa misura durante cinquant'anni di crescita. Ha subito violenze e sfregi, di cui reca ancora le ferite (per limitarsi a quelle che cita Bruno Zevi, lo "stupro" piacentiniano al posto del distrutto Palazzo della Ragione e il grattacielo presso la stazione), ma ha salvaguardato una logica di socialità e di qualità che si trasmette dalle piazze e dalle strade del centro storico fino alla gran parte degli insediamenti di edilizia economica realizzati fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta da Vieri Quilici.
Muovendosi alla ricerca di pure campionature si possono citare, come testimonianze di questa ricerca di socialità e di qualità, le parole pronunciate da Piero Bottoni al convegno sull'edilizia artistica ferrarese del 1958, che propone di applicare al centro storico, al suo restauro conservativo e al suo risanamento, gli stessi meccanismi che regolano i piani Ina-Casa (l'intervento di Bottoni è riprodotto nel volume Ferrara. Spazi, orizzonti. 1958: Convegno sull'edilizia artistica ferrarese. Documenti e testimonianze, a cura di Renato Bazzoni e Paolo Ravenna, pagg. 45-49, Neri Pozza 1979).
Bottoni, che ha vasta esperienza di edilizia popolare e di qualità architettonica diffusa, viene poi incaricato dall'Amministrazione comunale di dirigere un Ufficio di conservazione e valorizzazione del centro storico, e in questo ambito promuove una indagine capillare sull'edilizia della città antica, con un rilievo architettonico edificio per edificio, accompagnato da indicazioni puntuali sulle destinazioni d'uso, sul numero dei piani, dei vani e degli abitanti.
Agli occhi di Bottoni, un'espansione della città, pur corretta e guidata dalla mano pubblica, rischia di produrre un danno incalcolabile: svuotare il centro storico, condannandolo al degrado e alla morte. Oggi, su questo tema esiste una diffusa consapevolezza, alimentata dallo spaventoso deperimento sociale di molti centri storici, ridotti a pascolo turistico oltre che a zona di transito per le macchine, e avvolti da cinture periferiche scomposte e ormai scavalcate da quegli aggregati edilizi che si propagano senza limiti fra una città e l'altra, che di fatto sono accorpate in una sconfinata megalopoli.
Ma l'allarme di Bottoni si colloca in un'epoca in cui il fenomeno poteva essere avvistato solo con la preveggenza culturale e civile di cui era dotato l'architetto milanese.
Con un brusco salto, arriviamo al 1978, vent'anni dopo quel celebre convegno, quando, in attesa che cominci un convegno di architetti, due amici schizzano un disegnino su una mappa della città. Sono Antonio Cederna e Paolo Ravenna. Si sono conosciuti nel campo d'internamento di Trevano, in Svizzera sul finire del 1943.
La loro attenzione, su quella piantina, è catturata dall'immensa area che si stende fino al Po e che i duchi estensi chiamavano il Barco. È un lembo di pianura padana, luogo di delizie per gli antichi signori della città, che vi cacciavano lepri e cinghiali e organizzavano giochi a cavallo.
L'area sembra sconfinata, misura milleduecento ettari che d'inverno sono solcati da filari di pioppi coperti da una nebbia leggera, ma in estate si colorano del giallo intenso del grano. Secondo Cederna e Ravenna deve diventare un grande parco urbano-agricolo, il luogo del naturale sviluppo di Ferrara, dalla forma ben definita, agganciato alla città e a disposizione del loisir dei suoi abitanti. Il progetto si sedimenta nel corso del tempo. Intanto acquista un nome, Addizione verde, che recupera termini e concetti dall'Addizione erculea ideata da Biagio Rossetti.
Poco dopo, muove i primi passi sostando in una stazione intermedia, che già da sola basterebbe a rendere Ferrara un caso esemplare in una regione in cui si avvertivano i primi scricchiolii nell'edificio di buona amministrazione del territorio allestito nei decenni precedenti. Quella stazione intermedia è il restauro delle Mura, un tracciato di nove chilometri realizzato nel Quattrocento e che, secondo Bruno Zevi, non è né una semplice fortificazione né una barriera: è un geniale progetto urbanistico, la cornice di un piano regolatore rinascimentale che con bastioni e terrapieni cinge gli edifici della città.
Le condizioni delle Mura sono pietose, ma un restauro sapiente e durato un decennio, fino al 1999, restituisce alla città un patrimonio storico e artistico, la cui natura profonda è anche tessuta di viali alberati, di prati e di piste ciclabili, tutti servizi di cui Ferrara ha bisogno.
Da allora, l'idea dell'Addizione verde ha compiuto molti passi. A corrente alternata e non tutti in avanti. Un progetto voluto dal Comune, fatto di poche, sensatissime e semplici cose - piste ciclabili, qualche ristorante, un campeggio, un agriturismo - è rimasto a languire fino a provocare le dimissioni del consulente esterno. È stata, però, avviata una trattativa con i proprietari dei terreni affinché usufruissero di finanziamenti europei in cambio della trasformazione in biologiche delle culture agricole. All'area è stato dato un nome, il più logico possibile, quello di Giorgio Bassani.
Nonostante l'impegno proclamato di tutti, la politica cittadina stenta a compiere il grande salto, a riconoscere in quel progetto il suo progetto, forse perché ritenuto poco spendibile sul mercato delle immagini o su quello degli immediati ritorni economici per la popolazione. Guardando dall'esterno si ha l'impressione paradossale di dover convincere molti ferraresi dell'importanza di un patrimonio che è lì, brillante sotto i loro occhi, con le sue valenze ambientali e paesaggistiche - un patrimonio che davvero poche altre città possono vantare (ricordava tempo fa Vezio De Lucia, al convegno del 2003 su Giorgio Bassani, che a Napoli qualcuno avvertiva la fatica di dover gestire un parco di centoventi ettari nell'area di Bagnoli).
Un grande slancio potrebbe darlo un altro dei progetti patrocinati intorno al parco: quello di insediarvi il museo nazionale della Shoah, un'opera di architettura contemporanea che dovrebbe ricucire paesaggio e storia di Ferrara. Ma anche in questa vicenda, la politica arranca: approvato con una legge nazionale votata da tutti gli schieramenti, il progetto è finito sotto la scure dei tagli alla legge Finanziaria, poi recuperato, quindi di nuovo cassato, e ora, pare, nuovamente redivivo. Uno sballottamento, uno stiracchiamento fatto di cavilli contabili e di piccoli cabotaggi, che un'idea del genere e una città come Ferrara davvero non meritano