Al di là di quelle che appaiono le punte più avanzate, i romanzi di Pazzi e Marani, e un singolare pamphlet, quello di Testa, vanno ricordati almeno alcuni romanzi che hanno a che fare con Ferrara.
Giuseppe Pederiali, con Camilla e i vizi apparenti, Garzanti, 2004, ripropone le indagini della poliziotta Camilla Cagliostri ambientate in una Ferrara che come la Modena del precedente romanzo Camilla nella nebbia, diventa la protagonista assoluta di vizi privati e pubbliche virtù.
Certo l'autore che conosce assai bene l'ambiente ferrarese e la sua "aura" di pettegolezzi, rancori e veleni, gioca su un thriller nemmeno troppo coperto a cui fa da coro una città in cui si riconoscono tra i personaggi gli abitanti con le loro piccole e grandi tessere d'identità.
Ma molto spesso il gioco rimane incastrato in una cronaca asfittica dove le regole del noir si confondono con altre trame di romanzo (di Ferrara, di un ceto sociale, di una vita privata dove le certezze dell'investigatore diventano debolezze di vita e di mestiere) per cui se si dovesse trovare un centro, quest'ultimo non va ricercato nell'assassinio della ricca discendente di una nobile famiglia ferrarese, Andrea Venturi, per mano della figlia dodicenne Fosca, quanto nel corrotto ambiente che sta alle spalle di quella società ferrarese che qui viene descritta come imputridita e dedita a giochi pericolosi.
Sono, semmai, certe improvvise aperture paesaggistiche, certi trasalimenti di una vita antica ancora rintracciabile nei paesi o in certi angoli di Ferrara che nobilitano una scrittura non sempre al meglio di ciò a cui Pederiali ci aveva abituato.
L'ambientazione, la lunga conoscenza e fedeltà a temi ferraresi, il suo misurarsi con la Storia e le storie rendono il libro di Gianna Vancini, Testimone d'amore, Este Edition, 2004, una gradevole sorpresa. Le vicende familiari che si svolgono in un arco di tempo di cento anni, dal 1854 al secondo dopoguerra, sono legate da un testimone d'amore che altro non è che la riproduzione della Madonna della seggiola di Raffaello e, accanto e assieme al vissuto quotidiano, lo svolgersi della grande Storia con i paralleli avvenimenti tratti da una storia "emiliana" che vanno dalle vicende d'amore tra Carlo III di Borbone e Argia, e il riflesso ferrarese degli avvenimenti atroci che portarono al secondo conflitto mondiale.
Si riconosce alla Vancini la capacità di tramare la cronaca entro e a contatto con il tempo storico, per cui memoria privata e memoria pubblica strettamente intrecciate producono un interessante risultato narrativo.
Il successo di critica e di pubblico che ha salutato Conclave non ha prodotto un allentamento della tensione narrativa nei due ultimi romanzi di Roberto Pazzi, questo di cui si tratta e L'erede. Ma è ne Il Signore degli occhi, Frassinelli, 2004, che va riconosciuta una delle prove più alte di questo scrittore che non esita a rivendicare le sue radici culturali ferraresi anche quando di Ferrara non c'è traccia, se non in un modo di porsi di fronte alla scrittura secondo quel modello metafisico e visionario di cui abbiamo avuto tante prove nella tradizione, appunto, ferrarese.
Il signore degli occhi affronta un tema di estrema complessità, non solo formale ma tematica, investendo nelle sue prime radici epifaniche il concetto di potere, di salvezza e di amore; vale a dire, le sorgenti da cui deriva questa sfida di riproporre in un momento storico che predilige la storia come racconto di eventi, di fatti, il gran dilemma romantico di scendere alla riscoperta dell'insondabilità dell'animo umano attraverso la meditazione metafisica espressa da una narrazione che accomuna visionarietà e riflessione, il tempo e la storia, delitto e castigo, la terribile tentazione del potere e la riflessione sulle conseguenze di esso.
Non è qui necessario accertarsi se il romanzo assolve interamente a questo immane compito: quello che appare convincente e veramente nuovo è l'assunto da cui Pazzi è partito e la sfida che lancia alle prometeiche lusinghe del romanzo, riconducendolo a quel suo iniziale costituirsi di luogo in cui si dibattono le idee, in cui si danno risposte alla vita e alla storia.
Enrico Magnoni, potentissimo presidente e capo del governo italiano, affronta, in una crisi esistenziale che lo porta alla soglia del suicidio, provocata da una visita al museo del Cairo dove vede le mummie incorrotte dei grandi Faraoni, il proprio destino.
Decide quindi di abbandonare il mondo e di ritirarsi nel convento di Sant'Ulrich, scelto per lui dal papa, seguendo la rigida regola dei cistercensi per affrontare e risolvere il problema e la conoscenza della morte. Ma, ed è l'invenzione narrativa più affascinante, affida alle pagine di un diario il racconto della sua nuova esistenza in attesa dell'incontro con Dio.
Ecco, dunque, un'altra delle sfide affrontate da Pazzi: far raccontare dallo stesso protagonista, che è un uomo di potere, la sua conversione o la sua mancata conversione che solo alla fine del romanzo si saprà e che qui naturalmente va taciuta.
Dal modello che chiaramente si ispira a un notissimo uomo politico, il quale ha fatto del suo mandato una scelta di vita, appoggiandosi all'immenso potere mediatico che gli viene dalle sue televisioni, l'occhio del mondo, lo scrittore racconta una conversione che non avviene attraverso ciò che gli occhi vedono (e questi occhi hanno conservato la capacità di guardare negli altri per catturarli a un disegno di potenza che, comunque, per chi esercita quello sguardo, è ritenuto portatore di benessere e di fratellanza), ma rispecchiandosi in un mondo, quello delle montagne, del convento, della vita fantastica che scorre in quel luogo isolato che è l'esatto contrario dello sguardo televisivo.
E con una visionarietà già sperimentata nelle prove più riuscite dello scrittore - dall'esercito in volo di Cercando l'imperatore, alla tremenda pagina sulla corruzione degli affreschi della Sistina in Conclave-, frate Agostino (il nome assunto nel suo ritiro) racconta le voci che suadentemente lo chiamano al di là della porta della sua cella o i fuochi (chiara metafora dello sguardo) che come nella infernale e dantesca città di Dite si rispondono inquietanti dalla montagna al convento; o le voci della purezza del bambino Daniele che con la candela accesa fuori dalla porta conosce il mondo dalle parole del frate.
Il veleno del potere, però, non rispetta il luogo santo. Il male si annida fuori e dentro di esso. Dopo che l'ascetico frate Dionigi gli insegna a vedere dentro di sé e lo rende cosciente signore degli occhi, il mondo irrompe travolgendo le ultime resistenze di quel buzzatiano Deserto dei Tartari che è il convento-fortezza. E Agostino conoscerà la nuova luce affidando la sua scoperta al diario che giorno per giorno brucerà: "Perché ora sono diventato la carta su cui scrivo la mia vita. Non mi serve più quella delle pagine che fra poco brucerò. La carta non passerà per dove io invece riuscirò a passare."
La linea interpretativa che qui si propone non è l'unica tra molte che Pazzi affronta, a volte risolvendo, a volte facendo cadere il tema, ma è quella che più si attaglia a una prova così chiaramente sperimentale nel suo rifarsi non alle possibilità della forma, bensì alle radici del romanzo coniugato con la felice ossessione pazziana del Tempo.
L'inconsueta trama del nuovo romanzo, L'interprete, Bompiani, 2004, di Diego Marani, autore di cui sono noti Nuova grammatica finlandese, premio Grinzane Cavour 2000, e L'ultimo dei Voistiachi, Premio Campiello-Selezione Giuria dei Letterati 2002, entrambi pubblicati da Bompiani, affonda la sua primitiva intuizione in un mix letterario e cinematografico di notevole spessore e qualità.
Se un residuo di una ferraresità molto lontana potesse rintracciarsi in questo romanzo, la si potrebbe riscontrare nell'aura metafisica che incombe, minacciosa, in tutto il libro, quasi il leit-motiv di un tempo avvelenato e di un paesaggio malato che rappresentano il più riuscito momento stilistico del romanzo.
La storia angosciosa e angosciante di Félix Bellamy si svolge in un tempo sospeso e in uno spazio apparentemente "reale", quale sarebbe quello suscitato dalle avventure del protagonista da Ginevra a Tallinn, dove la realtà sfuma attraverso mille percorsi tematici e stilistici diversi in un incubo onirico (ma forse reale).
Il funzionario che per un caso si trova di fronte all'interprete che gli avvelenerà la mente nella ricerca di una lingua primigenia, la lingua dei delfini, o meglio di una ur-lingua antecedente all'umanità e forse alla stessa torre di Babele, ci viene presentato attraverso il maestoso rimando alle Metamorfosi kafkiane.
Il passaggio dalla natura umana a quella animale e al suono di una lingua che per uscire da una strozza di dantesca memoria ha bisogno di una metamorfosi che imbestia l'interprete, ha dei momenti di grande e cupa bellezza, così come il tentativo di curarsi del protagonista nella clinica del dottor Barnung, a Monaco di Baviera, si apre sotto il segno del Thomas Mann della Montagna incantata, vale a dire il testo più inquietante e sublime mai scritto sul concetto di "malattia".
Marani è un autore colto, di solide letture e di occhio pronto a trarre anche da altri mezzi non solo linguistici l'ispirazione; ma non si tratta tanto di un d'après, vale a dire di una reinterpretazione di un tema offerto o da Kafka o da Mann o anche da Goethe, bensì di un nuovo modo di trattare la lingua e piegarla a descrivere, attraverso l'uso dei maestri, una sua concreta e individuale consapevolezza.
Ad esempio, quanto del personaggio di Burke, il ricco tedesco alla ricerca di una giustificazione della sua ricchezza che non può cancellare l'atroce senso di colpa del padre ucciso nei bombardamenti di Amburgo, potrebbe ascendere al modello del Faust goethiano, specie nella proposta tentante di un aiuto interessato, proprio perché dannato, offerta a Bellamy nella sua angosciata ricerca del traduttore.
Certo non sempre l'uso spregiudicato dei modelli riesce del tutto convincente come avviene per certi rimandi figurativi agli inferni metamorfici di Bosch o a certi paesaggi da fine del mondo che appaiono dettati da suggestioni certamente ascrivibili a Blade Runner; altre volte, il modello sembra non aderire allo svolgimento del racconto come ad esempio nel viaggio alla Bonnie and Clyde intrapreso dal protagonista assieme a Magda, interprete e prostituta.
Nel panorama dei romanzi italiani mi sembra un poco riduttiva l'etichetta di thriller visionario applicata al romanzo che ha diverse e più complesse ambizioni, prima fra tutte, la qualità di una lingua senza sbavature e capace di ricordarsi che nel melting pot linguistico contemporaneo la difesa di uno strumento narrativo così sottilmente indagato è agli occhi di lettori non offuscati dalle novità il senso più vero della solidità di questo romanzo.
Gian Pietro Testa, una delle teste pensanti del nostro milieu culturale ferrarese con Lettera semiseria di un comunista al Signor Dio Ill.mo, T editore, 2004 - piccolo libro di mole, ma non di contenuto - affronta uno degli argomenti più brucianti del dibattito contemporaneo, in un tempo che non vede la fine degli orrori e delle guerre combattute nel nome di un dio vendicativo e crudele: un dio padre che pretende dai propri figli l'obbedienza fino al martirio e alla strage.
Naturalmente il pensiero ricorre agli scrittori di pamphlets, primo fra tutti l'inarrivabile Swift della Modesta proposta, ma in realtà il libro di Testa è percorso da quella implacabile vena di scrittore moralista che in tempi meno corrivi e superficiali rappresentava uno dei prodotti più affascinanti della nostra letteratura.
È ancora vivo il ricordo di un libretto del 1959, curato per Garzanti da Alberto Moravia e Elemire Zolla, I moralisti moderni e proprio dalla introduzione di Moravia si può prendere le mosse per parlare di questo libro. Scrive Moravia (e siamo nel 1959), che il moralismo è scomparso perché "non ci può essere moralismo senza un'idea dell'uomo ossia senza un umanesimo purchessia" e, se si leggono le pagine desolate di Testa sulla fine di quell'idea dell'uomo e sui valori dell'umanesimo, si potrà capire che questa lettera interrogativa al dio degli eserciti e delle guerre è ancora una volta non tanto una professione di ateismo di cui apparentemente la lettera prende le mosse, ma una ricerca di assoluto, di una religiosità perduta e di quel dio-uomo che qui non è presente, il Cristo.
È come se l'amarezza di sentirsi traditi da un ente che, se pur negato, fa parte di noi, della nostra educazione cattolica, potesse essere esorcizzata da una lettera-confessione che tenta di sondare l'abisso delle contraddizioni in cui l'uomo cala la sua idea di Dio.
Lo stile s'intesse di tutta quella sana e ormai perduta retorica del dire e dello scrivere che trapassa dall'umorismo e dalla satira come categorie stilistiche, agli scatti impotenti di chi crede ancora nel valore formativo della Utopia, quella utopia come forma di pensiero che, nonostante tutto, sogna un mondo migliore in cui collocare "tutti gli esseri che in vita hanno patito, hanno servito gli altri, si sono sacrificati pensando di poter giungere a una società migliore, più giusta".