In terra, e stucco, in legno, e marmo

Scritto da  Berenice Giovannucci Vigi

Filippo Pozzi, Vergine addolorata; Chiesa di San Paolo a FerraraScultura e scultori a Ferrara, dopo la Devoluzione del 1598, fino all'occupazione napoleonica

Quando nel 1957 è stato pubblicato il libro di Gualtiero Medri su La scultura a Ferrara, frutto della curiosità affettiva rivolta dall'autore alle memorie cittadine del passato, quelle pagine diventano il primo e unico compendio di riferimento critico relativo all'argomento e ancor più, in modo specifico, agli scultori ferraresi e stranieri dei secoli XVII e XVIII, attivi a Ferrara dopo la Devoluzione, fino all'occupazione napoleonica nel giugno del 1796. Il volume di Medri, a volte inevitabilmente generico e lacunoso, veniva a essere la base di partenza più aggiornata per lo studioso che avesse voluto affrontare l'indagine di una realtà d'arte locale ancora tutta da indagare, come era allora la produzione scultorea dei secoli successivi alla Devoluzione estense.


Il silenzio degli storici dell'arte è rimasto poi pressoché totale fino al 1981, fino al mio saggio sulla scultura ferrarese del Seicento, scritto per il catalogo della mostra su La chiesa di San Giovanni Battista e la cultura ferrarese del Seicento.

Né questo silenzio, incomprensibilmente, aveva trovato una pur debole interruzione nella vastità dei pionieristici studi di Eugenio Riccomini sulla scultura di età barocca e del Settecento in Emilia Romagna, pubblicati in Ordine e vaghezza e Vaghezza e furore, editi a Bologna nel 1972 e nel 1977.

Per Riccomini, infatti, Emilia Romagna nel Seicento voleva dire in primis le città di Parma, Modena e Bologna quali "sedi dei monarchi e dei rappresentanti del potere", quali luoghi privilegiati da dove si irradiava tutta la cultura regionale dell'epoca, interpretando invece Ferrara e i territori del Ducato estense, così come l'intera Romagna, quali zone di confine e di sfruttamento in cui raramente in campo artistico avrebbero potuto  trovare esecuzione grandi complessi decorativi scultorei.

Non mi è sembrato comprensibile aver ignorato del tutto in quei volumi, l'attività per esempio del bolognese Filippo Bezzi, capace di lasciare a Ferrara significativi esempi in scultura del diffondersi delle arie innovatrici del barocco romano, o dell'intagliatore Filippo Porri, artista di notevoli qualità interpretative nella realizzazione, in particolare, dei crocifissi.

Così, nel secondo libro già ricordato di Riccomini, l'autore faceva emergere, all'interno dello spazio dedicato al territorio della Legazione estense, la sola personalità di Andrea Ferreri.

Riccomini ha analizzato con senso critico l'attività di questo poliedrico scultore, ma su un numero di opere decisamente insufficienti a dare una consapevole immagine del suo valore artistico e dell'influenza che attraverso di lui, il suo maestro Giuseppe Maria Mazza, continuerà incondizionatamente a esercitare sulla produzione plastica ferrarese di tutto il secolo.

Si deve a Marco Cecchelli, intorno alla metà degli anni Settanta, la prima indagine critica a largo raggio sulla scultura del Settecento a Ferrara, impostata su di una attenta schedatura delle opere ancora esistenti; indagine che ha costituito fino a oggi il punto di riferimento più ?moderno? per lo studio di un argomento della storia dell'arte ferrarese tra i meno noti e i meno esplorati.

Pubblicata in diversi numeri della rivista "La Pianura" (di pertinenza della locale Camera di Commercio), la ricerca del Cecchelli voleva fornire non solo "una visione panoramica, e al tempo stesso unitaria"  dell'attività degli artisti ferraresi settecenteschi, ma anche chiarire il valore dei contributi che da Bologna e dalla vicina terra veneta erano venuti ad arricchire il patrimonio artistico estense.

Filippo Pozzi, San Giovanni; Chiesa di San Paolo a Ferrara.Il lavoro, prima di tutto "di censimento", che l'autore ha cercato allora di avviare, si è presentato assai arduo e per l'estensione territoriale dell'antica legazione e "per la mancanza quasi assoluta di ogni indicazione bibliografica e di documenti d'archivio"; lavoro, quindi, che avrebbe richiesto necessariamente "un ulteriore perfezionamento ed approfondimento".

Nel 1981, come già ricordato, con il Contributo ad una storia della scultura ferrarese del Seicento scritto in occasione della mostra sulla chiesa di San Giovanni Battista chiusa al culto, ho cercato di delineare una traccia d'indagine nel contesto di un argomento che mi appariva limitativo e modesto, oltre che privo di un qualsiasi apporto critico organico, argomento che poi si è rivelato invece fertile e stimolante nella concretezza, anche qualitativa, di opere e di artisti che si andavano rivelando e definendo.

Da quel primo studio, i cui risultati sono apparsi subito quasi del tutto inediti, ne è conseguentemente scaturito un altro che mi ha portato a indagare in modo specifico l'Iconografia del Cristo crocifisso (1982), un tema particolarmente significativo nel contesto più generale della produzione scultorea seicentesca.
Analizzando una serie di crocifissi in cui il Cristo morto è stato rappresentato anche a Ferrara nelle due interpretazioni "barocche", del Cristo triunphans e del Cristo patiens, è stato possibile precisare meglio non solo la produzione devozionale di questa peculiare immagine plastica, ma anche l'originale personalità di alcuni artisti misconosciuti.

Da allora, anche se alcune notizie o alcuni documenti ritrovati sono venuti ad aggiungersi, pubblicati in qualche sporadico saggio, in contesti diversificati, come risultato quasi sempre di un lavoro di ricerca rivolto ad altro, richiamando a volte l'attenzione sul contesto scultura sei-settecentesca, a volte su uno scultore in particolare, niente è stato scritto di organicamente critico su questo argomento.

Quell' "ulteriore perfezionamento ed approfondimento" auspicato dal Cecchelli, in modo specifico riguardo alla scultura settecentesca, e in pratica nelle stesse condizioni di "mancanza quasi assoluta di ogni indicazione bibliografica e di documenti d'archivio", oggi mi è stato possibile tentare nelle pagine di un volume voluto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara e realizzato, con un ricco apparato illustrativo quasi del tutto inedito, da Federico Motta Editore.
Scultura e scultori a Ferrara 1598-1796, in cui ho preso in onsiderazione, quindi, il periodo che va dalla Devoluzione all'arrivo di Napoleone, è un libro che pur nella sua vastità deve essere considerato soltanto un insieme di annotazioni e di rilevanze significative intorno a un argomento molto esteso, ancora in gran parte da esplorare, che ho cercato tuttavia di affrontare nei suoi diversi aspetti in modo approfondito, nella consapevolezza della grande ampiezza e della grande difficoltà di una simile analisi.

Relativamente al XVII secolo, in una città che ben presto aveva visto decadere la propria brillante civiltà politica e culturale, non sono tuttavia mancate le committenze di importanti decorazioni ad affresco e di opere pittoriche, mentre molto più scarne sono state le committenze di decorazioni a stucco o di lavori di scultura in generale; inoltre, le fonti storiche hanno sempre messo in evidenza e lodato le prime, mentre sono quasi sempre state appena rammentate o del tutto ignorate le seconde.

Già alla fine del Cinquecento, a Ferrara è ricordato un solo scultore la cui personalità artistica è sicuramente riconoscibile, il lombardo Francesco Casella che ha lasciato la propria firma e la propria provenienza alla base delle sculture in terracotta scialbata, realizzate per le nicchie delle navate laterali nella chiesa di San Paolo.


Nella stessa  chiesa in cui si possono vedere anche due delle statue più emozionanti tornite in legno poco oltre la metà del Seicento da Filippo Porri: la Vergine addolorata e San Giovanni, immagini plastiche dai caratteri controriformistici ancora neocinquecenteschi, ma improntate a un gusto più estetizzante del sentimento religioso, di ispirazione quasi reniana.

Nonostante la "vita" a lui dedicata da Cesare Cittadella, in cui viene elencato un consistente numero di opere, molte delle quali oggigiorno non più rintracciabili, sono assai frammentarie le notizie biografiche che abbiamo del Porri, il quale sembra aver lavorato esclusivamente con il legno; morto nel 1681 a Ferrara, all'età di 85 anni, l' "intagliatore insigne" è ricordato da Ferrante Borsetti nella sua celebre Historia Almi Ferrariae Gymnasii come "Ferrariensis, Saeculi elapsi Statuarium lignarius, et celeberrimus quidem, cujus plura, pulcherrimaque opera Ferrariae habemus...".

Tra le opere più belle di Filippo Porri, dimostrazione di grande abilità e originalità d'invenzione, vanno ricordate il Lampadario appeso all'arco d'accesso della cappella del SS. Sacramento in Cattedrale, con la resurrezione di Cristo in un turbinio di nuvole e di angioletti disposti a sostenere le lampade votive; i "quadri" in legno di noce ad altorilievo (genere di elaborazione narrativa conforme alle esigenze pietistiche), tenuti dagli storici "in molta estimazione",  raffiguranti le Stimmate di San Francesco e Sant'Antonio con Gesù Bambino, in una cappella della chiesa di San Maurelio; la grande ancona lignea costruita intorno alla venerata immagine della Madonna di San Luca, sul quarto altare a destra di Santa Maria in Vado, con la rappresentazione, di sicura ispirazione pittorica veneto-emiliana, della Gloria di Dio Padre in alto e dell'Adorazione dei pastori in basso.

Si è già accennato all'intensa produzione di Filippo Porri di crocifissi in legno, con l'immagine del Cristo vivo, tra i quali il capolavoro è a mio parere quello oggi nella chiesa di San Carlo, in cui la vitalistica fisicità della forma  plastica, mediata evidentemente da modelli algardiani, è espressa con alta qualità esecutiva.

Tornando alla chiesa di San Paolo, maestoso contenitore di diversi aspetti della scultura seicentesca a  Ferrara, nelle nicchie della quarta cappella a destra, si possono ammirare le sorprendenti statue in stucco, grandi al naturale, dei santi protettori della città San Giorgio e San Maurelio, per le quali il bolognese Filippo Bezzi (morto a Ferrara nel 1704) emerge prestigiosamente dal contesto conformista e devozionale della produzione scultorea locale. Le due bellissime figure, realizzate alla fine del secolo, sembrano non potersi adattare nell'angusto spazio che le contiene e teatralmente si muovono al di fuori della nicchia, in un'atmosfera satura di vento che ne colpisce i panneggi rialzandoli in ampie avvolgenti pieghe.

Al di là dell'originale personalità di artisti come il Bezzi, detto il Giambologna, sulla linea invece di un'accademica adesione a un ideale di "ordine e vaghezza", fondato tutto "sulla simmetria e la proporzione delle parti, da un lato, e, dall'altro, sulla finitezza, sulla piacevolezza delle superfici, della materia, sulla somma gradevolezza delle 'arie di teste' ", che diventerà così esemplare nelle realizzazioni plastiche del bolognese Giuseppe Maria Mazza, anche a Ferrara, di lì a poco, la produzione scultorea locale riprenderà quota, riacquistando dignità e prestigio, in modo particolare nelle opere di Andrea Ferreri, il discepolo prediletto del Mazza stesso che, trasferitosi nella città estense, per tutta la vita rimarrà "imperturbabile seguace" della maniera del maestro.

Andrea Ferreri, Vigilanza; Palazzo Archivescovile a Ferrara.Del Ferreri, nato a Milano nel 1673, le prime puntuali notizie sulla vita e sulle opere ci vengono date, l'artista ancora vivente, da Gian Piero Zanotti, nel contesto della storia della bolognese Accademia  Clementina, di cui lo scultore nel 1709 era stato tra i quaranta fondatori.

Venuto a Ferrara per eseguire le sculture della facciata della chiesa di San Domenico, scrive Cesare Barotti, lo scultore "dopo il qual lavoro altri ne intraprese per diverse persone, e credendo, che mai non gli fosse per mancare l'esercizio della sua professione, qui si fermò. Travagliò in tutte le maniere, in terra, e stucco, in legno, e marmo, e sempre a perfezione, a carne, con leggiadria, e con attitudini, e panneggiamenti veri, e al naturale ridotti: l'aria de' Volti esprimente, e adattata secondo il soggetto: Puttini a meraviglia pastosi, graziosi e vivi".

Molte ancora le opere del Ferreri presenti a Ferrara "in terra, e stucco, in legno, e marmo" di cui la più affascinante è senza dubbio la figura della Vigilanza, a grandezza naturale, posta all'incrocio delle due rampe dello scalone del Palazzo Arcivescovile, quale perno visivo di tutta la scenografica architettura, decorata nel 1720 in collaborazione con il bolognese Filippo Suzzi, a glorificazione del cardinal Ruffo.

Costantemente lodata da tutta la letteratura locale, la giovanissima fanciulla con armatura, lancia in pugno e scudo decorato dal gallo, allegoria di una delle virtù ritenute indispensabili ai re e a chi ha doveri di governo, si atteggia in un movimento sinuoso e ambiguo, lasciandosi fasciare dall'avvolgente rincorrersi delle pieghe del mantello, certo ancora con la morbidezza e l'eleganza della plastica del Mazza, ma con una più consapevole libertà di gusto classicheggiante.

L'impresa per la quale Andrea Ferreri si è distinto magnificamente, insieme ai suoi allievi, sono stati i lavori per l'ammodernamento delle cappelle e degli altari all'interno della cattedrale che, a cominciare dal secondo decennio del Settecento, costituiva il cantiere artistico più importante della città.

Nelle immagini scultoree, in stucco a grandezza naturale, collocate nelle nicchie aperte nelle cappelle e nei pilastri mediani davanti a esse, è stata in parte trasferita la memoria dei santi già venerati negli antichi altari di appartenenza, fatti opprimere dai cardinali Dal Verme e Cerri; si tratta di santi particolarmente cari alla devozione popolare, fondatori di Ordini religiosi, patroni di Collegi e di Corporazioni di Arti e Mestieri.


Fra le tante, fanno eccezione, per essere le uniche realizzate in marmo, le statue di San Gioacchino e di Sant'Anna, eseguite dal Ferreri con particolare maestria esecutiva per l'altare del Transito di san Giuseppe, il quinto nella navata destra.

Costantemente citate dalla letteratura artistica, le sculture dei genitori della Madonna, le cui superfici appaiono "imbiancate col pennello onde accompagnarle con le altre tutte di stucco", armoniosamente inserite nello spazio della nicchia, su basamenti a elementi fitomorfi tipici di Andrea, sembrano voler colloquiare con il fedele, mediante l'inclinazione delle teste dagli occhi  particolarmente vivi, mediante il gesto delle mani, dal movimento declamatorio accompagnato da un largo addensarsi delle pieghe studiate in modo accademicamente classico e ancora influenzato dagli insegnamenti di Giuseppe Mazza.

L'arredo settecentesco della cattedrale è stato poi completato nel 1745 con l'arrivo da Massa Carrara, dove sono stati scolpiti secondo linee formali del più armonioso rococò di ascendenza berniniana dai fratelli Andrea e Ferdinando Vaccà, due Angeli con acquasantiera più alti del naturale, che "tanta entusiastica ammirazione" (come dicono le parole incise alla base) hanno suscitato nel provincialissimo ambiente ferrarese.

Le due figure angeliche, dalla svolazzante fluidità dei panneggi e dalla tornita morbidezza delle membra, sospese su una base di fitte nuvole, nella ariosa sinuosità del passo di danza con cui sembrano voler andare incontro al fedele per porgergli l'acqua santa, quasi in un monito di pietistica sacralità, sorridono di una ieratica consapevolezza paradisiaca.

Dopo la morte di Andrea Ferreri (1744), che da Bologna aveva portato con sè a Ferrara, tra i compagni di Accademia, Filippo Suzzi e Lorenzo Sarti con lui attivi in cattedrale insieme ai fratelli Turchi e al figlio di Andrea, Giuseppe, la città è rimasta priva di una figura di prestigio, capace di mantenere a un certo livello di qualità formale le opere scultoree, sia quelle di committenza pubblica ed ecclesiastica, che quelle di committenza privata.


Sicuramente di grande rilievo è invece l'attività ferrarese di quegli scultori veneti, in particolare padovani e veronesi, ai quali si sono rivolti prestigiosi ordini monastici e nobili famiglie committenti, sollecitati forse dalla riconosciuta abilità marmorea e dalla consapevolezza scenografica di questi artisti, già chiaramente esperti, come sottolinea Camillo Semenzato, in quella ricercata capacità "di rendere concreta la realtà interiore, di materializzare l'ideale, fosse esso riposto in una sfera trascendente o calato nel tumulto dei sensi", comunque conveniente a ogni esteriore espressionismo scultoreo.

Angelo de Putti, Sant'Agostino; Chiesa di San Carlo a Ferrara.Tra i tanti è giunto a Ferrara, nel 1725, il padovano Angelo de Putti per lavorare alla realizzazione delle statue in pietra tenera di Vicenza rappresentanti, con accentuata volumetria e vigoroso chiaroscuro, Sant'Ambrogio, Sant'Agostino, San Carlo Borromeo e Sant'Antonio da porsi nelle nicchie di facciata della chiesa di San Carlo.

Un altro "Scalpellino Padovano", Pietro Benati, è l'autore, nel 1744, dell'altare della Madonna del SS. Rosario nella chiesa di San Domenico in cui si vedono, in marmo bianco a grandezza naturale le figure di San Domenico e di San Vincenzo Ferreri, vigorosamente individualizzate da un vivo naturalismo fisionomico; e sempre di Pietro Benati, realizzati intorno agli anni Ottanta del Settecento, sono i due imponenti altari centrali della chiesa di San Girolamo: l'altare della Madonna del Carmine con le straordinarie statue laterali di San Gioacchino e di Sant'Anna e l'altare dedicato a san Giuseppe e santa Teresa d'Avila in cui il Profeta Elia e il San Giovanni della Croce, in marmo bianco a grandezza naturale, dimostrano una grande maestria nell'evidenziare un realismo insieme illustrativo e devozionale.

Dobbiamo in fine notare la presenza a Ferrara anche degli artisti veronesi, famosi per ciò che potevano offrire di qualitativamente alto nel campo della lavorazione dei materiali lapidei, in cui vantavano una sicura perizia tecnica, quali Pietro Puttini, Carlo Canali, Angelo Sartori e Diomiro Cignaroli, autore quest'ultimo della struggente figura della Penitenza, scolpita in un estatico abbandono di femminile fisicità.
Alla grande famiglia dei Cignaroli, di cui fa parte anche il più celebre pittore Giambettino, appartiene Gaetano che tra il 1784 e il 1786 esegue, con libero dinamismo e disinvoltura spaziale, le statue di marmo dei santi Giorgio, Maurelio, Rocco e Filippo Neri per i quattro angoli del ponte di San Giorgio sul Po di Volano.

Da Berenice Giovannucci Vigi