In senso generico, la manifattura dei pesci non è che la lavorazione manuale degli stessi per favorirne la conservazione. È un'industria antichissima e assai conosciuta come la pesca, sì che la notorietà di Comacchio poggia ab immemorabili sull'una e sull'altra: le hanno celebrate liriche di illustri poeti, diari di viaggiatori, relazioni scientifiche, documentari e film.
Lodovico Ariosto e Torquato Tasso, accanto all'ammirata bellezza dell'immensa distesa d'acqua delle valli attorno alla città, cantano l'armonia del loro labirintico disporsi e la meraviglia del principio che ne presiede la fertilità; Teofilo Folengo, che ha avuto modo di ammirare l'abbondanza delle pesche in occasione del soggiorno a Pomposa nell'anno monastico 1521-22, mette le anguille salate tra le cose peculiari di cui Comacchio abbonda e "sparpaglia dappertutto", come fa Cervia con i salumi; lo scienziato Lazzaro Spallanzani segue le anguille dal loro ingresso nelle valli, dove trovano "un nido il più confacente, il più delizioso", alla traduzione a Comacchio "per marinarle"; i numerosi viaggiatori che giungono a Comacchio nel Settecento e nell'Ottocento rimangono impressionati dalla singolarità della città, "sprofondata quasi interamente in una laguna", e ancor più dall'abbondanza delle pesche e dalla grande quantità di anguille marinate e salate per conservarle più agevolmente.
Di tutti i pesci sorti differenti:
Chi scaglioso, chi molle e chi col pelo;
E saran più che non le stelle in cielo,
che, secondo i versi di Ariosto, le valli producono, il più noto è l'anguilla e nella fabbrica, ove l'attendono la cottura, la marinatura, la salagione o l'essiccazione, conclude la propria avventura iniziata nel lontano Mar dei Sargassi.
È all'osservazione attenta e rigorosa che Giovan Francesco Bonaveri, protomedico a Comacchio nei primi decenni del Settecento, invia agli Accademici dell'Istituto di Bologna, cui si deve la descrizione del frenetico lavorio della fabricatura dei pesci; a essa, nella seconda metà dell'Ottocento, si aggiungeranno le pagine di Jean Jacques Coste e di Ludwig Jacobi. Quello da essi descritto è un operare che procede presso che immodificato nei secoli e che tale si protrarrà fino agli anni Cinquanta del secolo passato, quando le grandi bonifiche idrauliche ridurranno a poco più di 10.000 ettari la laguna e la pesca cesserà di essere l'unica industria di Comacchio.
Forse la marinatura è il frutto delle trasformazioni succedutesi nel tempo di una salsa di pesci marinati in uso in età romana: il garum. Infatti, una libra di garo è richiesta tra le esazioni che un capitolare (715) del re longobardo Liutprando impone ai mercanti comacchiesi quando risalgono il Po. Sulle barche dei comacchiesi c'erano pure altre merci: sale in abbondanza?e pepe e olio. È ovvio che soltanto il sale e il pesce marinato sono di produzione locale.
Fin quasi alla fine dell'Ottocento, la fabricazione e mani fattura dei pesci rimase un'attività a sé stante rispetto alla conduzione delle valli e alla pesca; era praticata presso che in regime di privativa dai cosiddetti fabricatori i cui interessi erano protetti da minuziose e severe gride che si ripetono sostanzialmente identiche nel tempo, pur nel variare dei reggimenti politici, e che troviamo, da ultimo, replicate nella c. d. legge Galli, la quale ha mantenuto il suo impero fin quasi a oggi, fatta salva la decadenza di disposizioni limitative della libertà imprenditoriale, ma con la piena vigenza del divieto di ammarinare pesce fuori di Comacchio.
Nessuno "ardisca, né presuma sotto qualsivoglia pretesto [...] - tuona un editto del 1749 - di friggere, e far friggere, e fabricare per rivendere pesce cotto, salato, sì di valle come di mare o in altre forme marinarlo [...], ordinando che simile fabricazione di pesci [...] non si possa fare se non nella Città di Comacchio; [...] nelle stesse pene incorrino anche coloro che venderanno pesce di qualsivoglia sorte [...] per cucinarlo, salarlo e marinarlo, fuorché a quelli che in Comacchio faranno questo negozio".
La protezione giunge addirittura a proibire "a qualsivoglia persona comacchiese, tanto alli uomini che alle donne il [...] poter escire da questa città [Comacchio] per portarsi al servizio della fabbricazione dei pesci suddetti, ma debbono restare in detta Città al detto servizio [...] compresi principalmente quelli che fabbricano zangole, botti e barili".
A questi ultimi, poi, è inibita la vendita di zangole botti e barili e "ogni altra cosa atta alla fabricatura medesima".
Mesola e il suo territorio si sottraggono a simile disciplina; a tal'effetto il duca di Modena, cui le valli appartengono, chiede di "potere estrarre da questa Città di Comacchio sempre annualmente li operari necessari per la Cucina e Imbarilatura delle Anguille e Pesci" che si pescano nelle sue valli; in numero non superiore ai trenta e alle condizioni dettate dal chirografo papale, "affine et effetto che non sia tramandata fuori [...] l'arte di cucinare dette anguille e Pesce all'uso di Comacchio". Il permesso è legato al pagamento a favore di Comacchio di scudi cinquanta "da distribuire a sollievo dei poveri e miserabili".
La protezione dei fabricatori è in stretta relazione con la repressione della pesca di frodo: la libertà di cuocere e marinare o altrimenti confezionare le anguille avrebbe di fatto incrementato il furto, stante la sicura utilizzazione e il più comodo ricetto del pesce rubato anche per l'impossibilità di effettiva vigilanza su stabilimenti numerosi e lontani. Non solo, il proliferare delle fabbriche di pesce fuori Comacchio avrebbe portato a porre in commercio un "marinato" che con quello tipico di Comacchio, conosciuto e apprezzato per le speciali caratteristiche di lavorazione, di qualità, di gusto, ha ben poco a che fare.
Gli stabilimenti dei fabricatori sono sparsi all'interno della città; non è possibile porli altrove: Comacchio non ha territorio di terra ed è completamente circondata dall'acqua. Una semplice osservazione delle mappe catastali della città del 1809, 1817, 1835, 1877 e 1883 consente di individuarli: hanno fin sulle sponde dei canali "gli edifici e i magazzini per la cottura, in modo che le barchette vi s'introducano all'uopo de' trasporti".
Nel 1853, le fabbriche da pesce sono ventuno. A far tempo dalla prima affittanza, dopo la retrocessione delle valli dallo Stato al Comune, comincia il graduale "concentramento dell'esercizio di marinatura dei pesci nelle Fabbriche dei Signori Affittuari delle valli", che si conclude nel 1888 allorché, durante l'affitto a Luigi Bellini (1884 ? 1890), "tutta la fabbricatura rimane concentrata in una sola mano e in un sol luogo": la "cucina" del "grandioso stabilimento per la marinatura dell'anguilla" che Luigi Bellini ha costruito in prossimità del ponte dei Trepponti, nelle aree cortilive del suo palazzo.
Questa "fabbrica [...] dove si marina è un ampio locale adatto a tutto il lavoro. Nella cucina stanno disposte in ordine da un solo lato e su una sola linea dodici focaie susseguenti, che sono dodici grandi focolai senza mappa, larghi due metri ed alti più che altrettanto, con sponde laterali, alle quali, a un terzo della altezza e attraverso a tutta la larghezza, si raccomanda una graticola, specie di greppia a grossi quadrelli di ferro su cui, come sugli alari, si accatastano l'un sopra l'altro i ciocchi che hanno ad ardere. Ai lati frontali esterni delle sponde si appiccicano perpendicolari due spiediere, due liste di ferro che portano diciassette rampini a curva, ognuno dei quali è destinato a sostenere uno spiedo delle anguille che si vanno a cuocere. Tra l'una focaia e l'altra è una nicchia per le donne che hanno da cuocere le anguille e che girano gli spiedi a mano".
E l'opificio di Luigi Bellini resta la "Fabbrica delle Valli di Comacchio" fino al 1905, quando la ditta Bonaiuto Vitali e C., concessionaria - acquirente di tutto il pesce pescabile nelle Valli di Comacchio, realizza il complesso industriale dietro "le loggie dei Cappuccini", ove riunisce la sede amministrativa della società, la casa padronale, la marinatura con la sala dei fuochi, quella degli spiedi, la sala degli aceti... e il mercato di vendita del pesce fresco.
La scelta del luogo è obbligata: è l'unico terreno disponibile, tutt'attorno è acqua; è, pur così ai margini, facile da raggiungere grazie alla rete dei canali che circondano e intersecano l'abitato e lo uniscono alle valli.
Con lievi varianti, la nostra sala dei fuochi ripete la "cucina" dei Bellini; il numero dei camini, dodici, è lo stesso. Sono disposti in ordine sul lato orientale della sala e su una sola linea, distribuiti in cinque coppie alle quali si aggiungono il primo e l'ultimo. Ogni coppia è intervallata da una nicchia, così che il primo e l'ultimo si trovano tra due nicchie le quali pertanto assommano a otto.
Ogni camino ha una luce di circa due metri per due; due muri di lunghezza inferiore al metro ne formano le fiancate le quali si staccano perpendicolarmente dalla parete della sala e delimitano la bocca del focolare, chiusa superiormente da un architrave leggermente arcuato e di spessore variabile, che si riduce gradualmente dal centro agli estremi. Sovrasta ciascun focolare la parte inferiore della canna del camino, la cappa in forma piramidale per raccogliere il fumo e le esalazioni e avviarle alla canna.
Sul tetto della sala, due grandi lucernari aspirano il fumo e i vapori che si sviluppano dalla cottura delle anguille. Sul piano dei camini, proprio sotto gli spiedi, c'è [c'era] una canaletta entro la quale cola il grasso che cola dal pesce durante la cottura; l'olio di colatura confluisce in una pozzetta centrale dalla quale sarà raccolto per il riuso.
Infine, allineati lungo la parete opposta ai fuochi, stanno gli spiedatori: infilzano incrociati, in lunghi e acuminati ferri, i rocchi di anguille preparati dai tagliatori, badando bene che lo spiedo colga in mezzo la spina che trapassa. Evidenziano all'esterno la sala dei fuochi dodici fumaioli costruiti con mattoni a vista e alti circa tre metri e mezzo, corrispondenti ai dodici camini.
Il restauro ha interessato anche la fossa prossima alla sala; qui arrivavano, e arrivano, le barche cariche di anguille da cuocere; sulla piazzola di fondo della fossa stanno i tagliatori che decapitano le anguille e ne recidono la coda ? testa e coda, res sacra miseris, erano distribuite ai poveri; le tagliano poi in due o tre rocchi secondo la grossezza.
Tutto nella riaperta fabbrica avviene come nei lontani tempi: mancano soltanto i barili e le zangole di legno. Completata la cottura, il pesce è posto con una certa razionalità e per successivi strati in scatole di latta; infine, è irrorato con una speciale mistura di aceto e sale, versata in quantità tale da imbevere tutto il contenuto. Completano l'operazione la positura di alcune foglie d'alloro - "la foglia dell'orgoglio" - e la chiusura della scatola.
Nella semplicità della cucina c'è posto per ricordare il viaggio di due concittadini che dalla piccola e isolata Comacchio si recano a Vienna, dove i grandi del tempo, riuniti a congresso (1815), discutono dell'assetto da dare all'Europa sconvolta dalla bufera napoleonica. Il motivo della missione è l'eterna questione delle valli: si teme che i grandi ne mettano in discussione l'acquisto fatto nel 1797.
Ad captandam benevolentiam dei nuovi potenti i due ambasciatori portano con sé ben 12 barili ripieni di grossissima anguilla: otto per l'imperatore Francesco e quattro per il principe di Metternich; li presentano a Schönbrunn avvolti in carta d'oro, gli uni, in carta d'argento, gli altri. E cosa di più caro e di più emblematico potevano portare in dono, se non il frutto delle fatiche e delle speranze di una comunità che da millenni "lavorava" l'acqua delle sue valli, riuscendo a trasformarle "in una fabbrica di sostanze alimentari, in un vero apparato di coltivazione del mare"?