La follia della scrittura contro la follia reale nascosta e rimossa, il racconto di un'educazione sentimentale che è nello stesso tempo la romantica e brutale esperienza di un protagonista che è la stessa autrice, l'identificazione della realtà come malattia e nello stesso tempo il rifugio nel mondo della scrittura visionaria forse più reale della stessa vita; infine, quando la "realtà che è più folle dell'invenzione" lascia trapelare il riconoscimento di alcuni personaggi, la corsa all'identificazione suggerisce Testi "è del tutto inutile, essendo quei personaggi altrettanto prototipi dell'anima".
Queste sono le premesse del romanzo che si presenta ed esibisce tutto il solido armamentario delle più accreditate teorie critiche che lo sprovveduto e "idiota" (nel senso dostoievskijano) protagonista Angelo Maria Rondinò (e il nome stesso è emblema di una rivisitazione calviniana tra coloro che vivono sugli alberi e non accettano la realtà) nella sua affannosa ricerca di trovare il bandolo di un romanzo di "successo", capace, nell'idea iniziale, di rappresentare attraverso le avventure di animali che si comportano come gli uomini, di descrivere il caos della vita contemporanea nelle umanissime vicende del tacchino Ugo Poniatowsky innamorato della gallinella , la "petite enfante" Olga viscontessa di Mortemart.
Ma nonostante l'affannosa consultazione del testo che insegna a scrivere un romanzo di successo, l'ispirazione tarda a presentarsi, forse obnubilata e cacciata dalla dose giornaliera di Tavor che il Rondinò consuma.
Comincia allora la lunga e defatigante ricerca della "parola" che mondi possa aprirgli: il Professore, la frequentazione degli ambienti à la mode letteraria, un ballo dei sapienti dove ogni lettore cercherà e troverà il clone reale di una grottesca parata della Kultur tra gli anni Settanta e il presente, la deflagrante e non voluta, muscolosa e assolutamente impari presenza della contemporaneità a fronte della storia d'amore tra il tacchino e la gallinella.
Il ricorso al Tavor si fa più frequente e l'ironia cede allora a pagine commoventi in cui il dolore dell'estraneità dal mondo si fa compartecipazione al destino di tutti. Angelo corre verso la sua "felicità chimica", preoccupato che "una bava di vento non venisse a snebbiargli il cervello: cervello chiuso, oppresso, ronzante."
Poi l'alcol e il Tavor rimettono Rondinò in quello stato di felicità innaturale (come del resto è innaturale la felicità inventiva dello scrittore di fronte al mondo) in cui "le strade danzavano nel vuoto, le case sbucavano dall'acqua in un silenzio pieno di echi, saltavano i sigilli dei sogni come se l'improvvisa mano del vento ne schiudesse le porte serrate". Non va naturalmente svelata la fine del romanzo di "successo" né la fine della parallela vicenda esistenziale di Angelo Maria Rondinò scrittore di animali".
A una lettura attenta (e in questo caso compartecipe, poiché se è vero che è dannoso o meglio deludente per il critico conoscere l'autore, tutti gli autori, che sono cosa da poco di fronte alla scrittura, la frequentazione di chi scrive con lo scrittore in questo caso ha rivelato più cose di quelle che rilucono come gibigianne nello specchio incantato delle parole) il nuovo romanzo di Elettra Testi appare come un eroico tentativo, che si è realizzato, non solo di sconfiggere la nevrosi ma di testimoniare l'inquieta, turpe e terrorizzante necessità di vivere in questa contemporaneità che si può sconfiggere e accettare solo non eludendola, ma affrontandola con le parole della poesia e il senso etico che si nasconde nel loro bozzolo: un romanzo di "successo" si realizza nella consapevolezza del vivere e di poterlo descrivere. Diego Marani nel suo nuovo romanzo, Il compagno di scuola, Bompiani, Milano, 2005, affronta, per la prima volta dopo i successi dei primi tre romanzi tutti ruotanti sulle trappole, gli inganni, e il fascino delle lingue, di una lingua, della babilonia delle lingue e della lotta, a volte mortale, di adeguare la lingua al pensiero, forse anche alla vita, le sue radici ferraresi, in una specie di intermittenze del cuore che gli fanno rievocare gli anni del liceo, a Ferrara, e del suo compagno di scuola, perduto e ritrovato.
Si può intraprendere la lettura di questo romanzo come testimonianza di una realtà cronachistica, incentrata sugli avvenimenti reali che hanno riavvicinato l'autore al compagno di scuola; lettura che è stata fatta alla presentazione ferrarese del romanzo.
Al di là di queste premesse ferraresi, i lettori di questo interessante tentativo di rappresentare una stagione d'antan che coinvolge o ha coinvolto non solo il microcosmo polveroso e asfittico del vecchio Liceo classico Ariosto di Ferrara richiedono anche la testimonianza d'autore del tentativo generoso utopico e spesso fallimentare di una vita nova, nel senso che Dante dava a questo fondamentale momento dell'esistenza, (una "rubrica" che si trova "in quella parte del libro della mia memoria" in cui si registrano gli inizi consapevoli della vita: vita giovanile e vita rinnovata).
Marani la dà, in parte, con una sincerità delusa e a tratti dolente quasi a sottolineare lo spreco di un tesoro prezioso, il passaggio della presa di coscienza dalla giovinezza alla maturità, dovuto a due cause; l'utopia dei giovani e l'insipienza, o meglio, arroganza, dei relitti di un'educazione ripetitiva, lontana dalle reali esigenze dei tempi e incapace di rinnovarsi.
Eppure di fronte alla sgangherata superbia mentale degli insegnanti e alla confusa reazione degli allievi perduti nella ricerca ottusamente utopica delle ragioni e degli scopi a cui sono chiamati, Marani malvolentieri ma nettamente condanna entrambi i due antinomici sistemi di apprendimento e d'insegnamento, per vagheggiare un impossibile e forse pericoloso sogno di una cultura che si allontana dalla vita e legata a quel "non so che", "il dolce che ne distilla", affidata alla declinazione, quasi un mantra, dell'aoristo di bàino (e per chi non lo ricordasse, una delle trappole in cui si voleva far cadere l'allievo richiedendone la declinazione senza specificazione; in traduzione, andai): "Dei sistemi che ci divisero, delle ideologie che ci esaltarono, delle paure che ci angosciarono, delle false verità che ci propinarono, delle donne che ci appassionarono, oggi tutto quel che resta è il silenzio del ricordo, il canto eterno dell'aoristo di bàino, che senza più sapere cosa voglia dire instancabilmente ripeto come una vana preghiera."
È proprio sul "silenzio del ricordo" che, credo, il libro debba far riflettere.
Un ricordo non è silenzio proprio perché pone in movimento la memoria ovvero la consapevolezza razionale del recupero di una facoltà che è umana e solo umana e alla memoria è affidata anche la conseguente capacità di scelta e di vita, in quanto solo ciò che possiamo ricordare (in questo, seguendo l'esempio sommo di Proust) la memoria da involontaria, prendendo coscienza di sé, fa sì che i nomi diventino cose e il passato serva a illuminare il presente e a costruire un futuro.
Una via che proprio il più grande scrittore ferrarese, e tra i più grandi della contemporaneità, Bassani, ha saputo descrivere nel suo Dietro la porta, forse il meno felice, ma sicuramente il più "moderno" tra i romanzi bassaniani.
Come in questo, anche nel romanzo di Marani l'ambiente è lo stesso, il liceo Ariosto, una classe, i compagni e il compagno di scuola. Non credo di presumere molto, se indico nella prova bassaniana una delle radici fondanti del progetto di Marani, ma a differenza di Bassani il nuovo scrittore ferrarese allontana in una specie di sogno (o incubo?) quella esperienza conclusiva della fine della giovinezza (non si chiamava allora esame di maturità?), richiedendo allo specchio del ricordo solo un'instabile e sfocata istantanea di una vita che non si sapeva né poteva adeguare alla presa di coscienza di una realtà travolta dagli inadeguati insegnamenti, ma anche alle utopie giovanili.
Non è "colpa" dei giovani, seppure di quei giovani esemplati in una classe, per quanto discriminata e tenuta ai margini dell'insegnamento à la page, se l'autore conclude la sua recherche con le parole finali del libro riportate più sopra. Mi sembra ovvio, allora, che il libro vada letto eliminandone la diretta presa "ferrarese" per poter meglio distinguere tra autore e personaggio che dice "io" nel romanzo.
Ho troppa stima per un così fedele seguace delle possibilità della parola narrativa per credere che Marani si sia limitato a una specie di cronachistica e diaristica resa dei conti con quel momento suo privato, ma credo al contrario che il personaggio che agisce rivelandosi come Diego Marani personaggio voglia, come del resto accade per ogni autore, che la sua esperienza diventi un modello di una situazione. In questo senso, la pessimistica conclusione del racconto può, a seconda dell'interpretazione, essere valutata in modi assai distanti e controversi; sicuramente in questa presente lettura influisce una coeva esperienza di un (allora) giovane insegnante ormai fuggito da Ferrara e che stava tentando le vie impervie di un rinnovamento del sapere che solo la città scelta per i suoi studi poteva dare, ma che verificava la presa di consapevolezza del rinnovamento in quei giovani dell'Ariosto che annualmente esaminava e che trovava "maturi" e consapevoli delle proprie scelte e delle proprie responsabilità.
La scrittura di questo romanzo è al solito, abilissima e dotata di una sprezzatura notevole; le prove di essa si manifestano nel linguaggio dimesso e sottotono usato per esprimere una realtà provinciale e complessa, dimidiata tra i grandi amori e le grandi speranze e d'altra parte in urto con i riti e i miti di una polverosa incapacità di rinnovamento.
Spiccano tra i personaggi il felliniano ciclista del paese o il nonno con la saggezza antica affidata alle cure dell'orto o il revival dei miti di quel tempo: i cantanti, le balere, le spiagge romagnole, il tirar tardi, il gruppo di amici non ancora diventato branco come spesso accade nella realtà d'oggi, ma tutto, situazione e personaggi, allontanati in una bruma melanconica che alla fine propone il ricordo nel suo aspetto più amaro quasi a suggerire che delle grandi illusioni, al massimo, non si può recuperare se non un'amicizia fondata nel segno di una complicità che si pretende testimonianza alla dura realtà del presente.Andrea Pagani nel suo Capriole di un comico. Libro delle anime, anno 1701. Con una postfazione di Wu Ming 2, Pendragon Edizioni, Bologna, 2004, costruisce su materiali d'archivio una vicenda di soprusi e di vendette consumate ai danni di un giovane comico dell'arte, figlio naturale dell'avvocato Cesare Miti di nobile famiglia originaria di Imola, vicenda legale che si trascina dal 1701 al 1728 per reclamare un'eredità contesa e sconfessata.
La postfazione di Wu Ming 2, uno dei componenti la misteriosa (almeno nel nome) cooperativa di scrittori da cui stanno emergendo voci individuali dopo il lavoro comune premiato col successo di Q, indica come il lavoro del Pagani riesca a "intervenire sui buchi della vicenda [storica] con un rammendo che non la rende soltanto più compatta, ma anche più avvincente".
In questa lettura del, presumo, giovane scrittore Wu Ming 2 si sottolinea dunque l'intervento autoriale come capacità di concludere una vicenda "vera" secondo la realtà implicita nella stessa scrittura.
In altri termini, come accade per molta letteratura contemporanea, attenta alle possibilità della scrittura e del segno formale come esperienza reale alla stessa stregua della storia, il "falso" o il "vero" non hanno più ragion d'essere e le conclusioni a cui giunge nel finale il racconto, affidate alla notevolissima capacità di ricostruire il dettato settecentesco fingendosi scritte da quel Gabriele Miti di cui possediamo "originali" documenti d'archivio è, seppur falso d'autore, reale quanto il documento d'archivio di cui imita lo stile e l'andamento.
Pagani, che è scrittore molto colto, nella postilla finale per confondereancor più le acque ringrazia coloro verso i quali ha un debito di riconoscenza che rigorosamente in ordine alfabetico vanno da Ludovico Ariosto a Giuseppe Ungaretti attraverso Lucio Dalla e Debussy, Don De Lillo, Caravaggio e Proust, per citarne alcuni, ma dal catalogo manca come (forse) volontaria assenza colui al quale più è debitore lo scrittore, quell'esorcizzato Manzoni che spunta da ogni dove, sia nel plot della storia sia nell'uso di alcuni strumenti, tecnici, starei per dire, che dopo un ingiusto abbandono stanno tornando di moda.
La ricerca di Lorenzo Mazzi alias Pompilio Miti, trae lo spunto dal ritrovamento di un manoscritto, anzi di più manoscritti, (quello d'archivio che testimonia la realtà dello spunto narrativo, quello che Lorenzo-Pompilio scrive per narrare la sua ricerca e che gli viene trafugato, e altri, rubati dal protagonista nel palazzo imolese dell'odiato zio Gabriele Miti).
Una tale abbondanza di prove mi sembra vada ricollegata al topos del manoscritto ritrovato da cui parte il romanzo manzoniano con le pagine a sua volta stilisticamente rifatte della prosa barocca dell'Anonimo; ma, ancora la ribellione contro l'ingiustizia della storia è il movente che spinge Lorenzo, novello Renzo Tramaglino però dotato di cultura, a "cercare di abbattere il muro di favori e imbrogli che i baroni e i conti e gli arcivescovi hanno eretto contro il popolo".
Dunque si potrebbe ipotizzare di trovarci di fronte a un romanzo che unisce la storia all'invenzione e una ricerca di giustizia umana che non è, come per Manzoni, segnata dalla Provvidenza, ma si affida alla cultura o meglio alla scrittura, allo stesso tempo soggetto e oggetto di inappartenenza, ma anche di riscatto. Lorenzo sa che aver ricevuto quella cultura strumento d'oppressione, gli permetterà di dedicarsi alla "attesa e alla scrittura, operazioni entrambe solitarie che impongono concentrazione silenzio lucidità".
La novità del racconto di Pagani sta in questa lucida coscienza della scrittura come arma, l'unica, di chiarificazione del caos della vita e degli avvenimenti e nella scelta del mestiere di vivere (con l'amato e sottinteso Pavese) che il suo personaggio esemplifica attraverso la scelta del suo mestiere di attore "un'arte che è stata da sempre dentro di me, che mi ha scelto": dall'attesa alla poesia alla scrittura al teatro.
Se ripeness is all, se la maturità è tutto come da Shakespeare giunge a Pavese attraverso Matthiessen, il giovane Lorenzo compie la sua educazione di vita attraverso l'acquisizione della coscienza di sé. E il racconto si svolge con un curioso e accattivante ritmo narrativo: dalla abilissima stilizzazione delle lettere d'archivio che s'alternano al racconto e al commento dell'io narrante, alla ritmica formalizzazione, quasi da poème en prose, degli avvenimenti più importanti.
Una stesura governata dal ritmo narrativo anche visibile nella spaziatura del periodo in una specie di canto libero non interrotto dai segni diacronici ovvero dai segni d'interpunzione. La lettura mentale oltre che quella fonica detta il ritmo della pagina.
Un'operazione rischiosa che a volte riesce e altre volte no ma che comunque rivela una tecnica quasi sempre matura e interessante. Più debole lo svolgimento tematico con i recuperi anche di modelli mutuati ad esempio da Kubrick nell'episodio meno riuscito e francamente un poco grottesco, quello della lobotomia della giovane vittima sacrificale; altre volte più avvincenti come le descrizioni delle città.
Una Bologna vitale, vivace e operosa, una Ferrara soffocata dal peso di un clima che nella sua pesantezza fisica riproduce lo sfacelo indotto dalla devoluzione; e ancora la Venezia del carnevale o l'immobile bassura di Imola e dei borghi. Quell'idea di movimento che Pagani, uno scrittore che ha molte frecce al suo arco, così descrive: "...tutto questo - commenta Lorenzo giunto alla fine dei misteri che intende svelare - ha formato in me nuove ambizioni e nuovi sogni, una nuova sensibilità, un senso del tempo vago e fuggevole, l'idea del movimento delle stagioni, l'impressione che quando incroci la storia di un uomo o di una donna , per un giorno, magari per un attimo, quella storia diventa anche la tua".