1933-2003. Ferrara e il suo grande ritorno.

Scritto da  Andrea Emiliani

Pittura murale staccata di Nicolò dell'Abate, con scene tratte dall'Orlando Furioso.Mostre, musei e collezionismo negli anni della riscoperta critica del singolare rinascimento estense.

Si ragiona molto, di questi anni, sulle finalità e sui metodi e naturalmente anche sui risultati - tanto estetici che economici - delle esposizioni d'arte (le mostre, come ormai quasi tutti le chiamano). Negli ultimi decenni,  queste occasioni si sono ulteriormente specializzate e hanno consolidato almeno in teoria la loro funzione  divulgativa e il loro ruolo educativo. Con il passare degli anni assistiamo a una consistente, fatale riduzione di  certi eroici prestiti di opere d'arte che qualità e fragilità congiunte già consiglierebbero di evitare di chiedere ai  rispettivi musei.

Numerose sono state le mostre che hanno giovato nei decenni al turismo locale e anche  nazionale, altre che all'avanzamento positivo della ricerca storica ed artistica.
Non si può negare però che, specie recentemente, molte iniziative di questo genere si siano spesso travestite in soggetti puramente effimeri oppure di bottega: e che l'andazzo che confonde i fini principali dell'estetica con  altri di livello soltanto illustrativo prosegua - e anzi venga accrescendosi - in modo preoccupante. Parlare di una  seria 'economia della cultura' in certe occasioni è blasfemo, si tratta di una fitta serie di occasioni di bassa  speculazione ossia di riconoscibili interessi mercantili.


Fortunatamente, in altri casi prevale la correttezza del progetto culturale e di attenzione all'originalità dei dipinti. Ma ne parleremo più diffusamente tra poco. Ora, in questa stagione nella quale specie la Cassa di Risparmio e la  sua Fondazione si sono seriamente impegnate in una collaborazione ragionevole, è forse opportuno riflettere  prima sulle origini del fenomeno sociale e culturale. Uno dei nostri più cari maestri, Francis Haskell, prima di  morire ci ha lasciato - quasi in testamento - un suo importante saggio in proposito di mostre.

Ho già scritto su questa stessa rivista sulla falsariga del suo dettato estremo, ma non mi stanco di ricordare quel  suo saluto pieno di saggezza e di amicizia verso l'arte italiana.
Solo un professionista della storia artistica e degli artisti qual era Haskell, dotato di forti propensioni di metodo  storico e anche ideologico, ma guidato da un significativo apprezzamento della realtà, poteva identificare le  disegnare le radici che stanno all'origine del modello spesso eccezionale che identifica l'inizio di una possibile,  moderna opinione artistica nell'Inghilterra già nel secondo decennio dell'Ottocento.

Pittura murale staccata di Nicolò dell'Abate, con scene tratte dall'Orlando Furioso.Un mondo intero, quello  dell'arte nelle collezioni private e nei musei pubblici della Gran Bretagna, messo in ardente voluttà di conoscere  il suo così enorme patrimonio, si gettò sollecito e quasi tumultuoso verso il futuro. Quel desiderio di conoscenza  e di precisione identificativa, e l'uso ammirevole di una connoisseurship intesa come metodo e prassi unite,  costituiva in realtà un propellente di eccezionale modernità intellettuale. Il confronto è una ragione che sostiene  di fatto molta parte del collezionismo e delle sue parabole di mira.

Del resto, anche nel mondo italiano più lontano l'esposizione di materiali artistici - specie di proprietà privata - aveva una sua particolare frequenza. Nel Pantheon di Roma l'uso di organizzare mostre da parte degli stessi artisti era frequente, e ancora nei primi anni dell'Ottocento in questo luogo grandioso ottenevano pubblica  visibilità opere d'arte particolari, per esempio i dipinti commissionati da qualche chiesa oppure da collezionisti di valore di opere.

Qui il pubblico romano poteva conoscere, ad esempio, e mettere a confronto i grandi dipinti  destinati alla chiesa di San Giovanni in Canale di Piacenza, raffiguranti l'Adorazione dei Magi di Vincenzo Camuccini e la Salita al Calvario del piacentino Gaspare Landi. In quest'ultimo caso, l'esposizione a confronto aveva il suo significato in quanto i due artisti maggiori del momento in Italia - d'altronde molto amici e perfino dirimpettai - avevano il più grande interesse a eccitare una conoscenza congiunta delle loro opere che divenivano presto famose.

In altre occasioni, legate spesso al calendario liturgico e alle sue massime festività, la consuetudine bolognese  era quella di dare esposizione sotto i portici, opportunamente adornati, ai capolavori più importanti delle  collezioni appartenenti alle famiglie senatoriali che risiedevano nei palazzi senatoriali vicini. C'è da riconoscere  che in questo genere di esposizione (dotato anche di un piccolo catalogo) si rifletteva anche il confronto istituito  tra famiglie che avevano assunto in taluni casi anche il patronato di qualche chiesa (gara davvero gloriosa)  oppure limitato a una sola cappella.

L'assunzione delle spese di costruzione o di decorazione delle opere  pittoriche che ornavano un altare da parte di qualche famiglia eminente era parte consistente dell'impegno di  mondana devozione che si istituiva ai piani alti dei ceti cittadini. Il cosiddetto 'patronato' d'altare o di cappella  metteva in relazione oppure in gara ricche famiglie e un clero desideroso di dimostrare il suo virtuoso contatto  con la società abbiente.

Ercole de'Roberti, S. Giovanni Battista, Berlino, Neue Gemäldegalerie.Per quel che riguarda Ferrara e la sua incomparabile figura storica, la Cassa di Risparmio, una volta di più, ha voluto incoraggiare e potenziare nel 1996 la ricostruzione della complessa vicenda del suo collezionismo: un  fenomeno unico, come sospeso nel tempo e quasi congelato nell'età moderna, per divenire poi nuovamente  dinamico dopo l'unificazione italiana. E fu una mostra, da noi fantasiosamente intitolata la Leggenda del  Collezionismo, che nel 1996 suggerì anche un metodo che fosse adatto a proporre modificazioni sul modello  museografico essenzialmente diacronico e un po' monotono della Pinacoteca di Palazzo dei Diamanti.

La vicenda è abbastanza nota: la letterale eliminazione di una della maggiori città e civiltà del mondo politico e  culturale europeo, perpetrata dalla Chiesa di Roma sulla base d'una devoluzione equivoca come quella messa in  piedi da Clemente VIII nel 1598, ridusse presto a un'immagine immobile e insieme bellissima la città di Ferrara: una specie di enorme still life urbanistico, un insediamento famoso, irrigidito e silenzioso, in posa per quasi tre  secoli.

Questa città anestetizzata, entrata per giunta dopo qualche decennio nel dissesto totale dell'orrenda guerra  dei Trent'Anni, altro non riuscì a fare se non arretrare nel suo passato, quasi si immergesse lentamente dentro le  mobili sabbie del Po, o meglio tra i ghiacci invernali di solitarie condense destinate a non sciogliersi e a rivelare  il loro contenuto, se non dopo decenni e secoli.

La storia di Ferrara moderna sarà infatti simile a quella riemersa  da uno scongelamento graduale, lento, e i suoi protagonisti ritorneranno ad affiorare alla luce del giorno come  l'uomo del Similaun, riconquistando la sua grandissima personalità e i tratti fisionomici più marcati.
Per ottenere questo fu necessario agire con la forza della critica e della conoscenza storica onde rimettere in  movimento il flusso d'una secolare posterità.

 

 

Giovanni Belllini, Incostanza (o Melancolia); Gallerie dell'Accademia a Venezia.La riemersione graduale dell'arte della Ferrara estense procede à rebours, e cioè cammina all'indietro - dalla Rinascenza verso il primo Umanesimo - poiché il punto centrale della gloria estense e della sua esaltazione era stato fissato da Alfonso I nell'aurea età di Tiziano, dell'ultimo Bellini e di Dosso Dossi: che è anche la stagione dalla quale prende inizio quella singolarissima dinamica storica che si identifica nell'azione spesso segreta del  collezionismo privato, e nel percorso così spesso 'carsico' e cioè semi sommerso, imprevedibile, che il  collezionismo persegue.

Il furto delle decorazioni dei Camerini perpetrato dagli Aldobrandini, il vuoto scoperto  da don Cesare d'Este in quelle stanze violate che qualche atroce sospetto gli aveva consigliato di controllare  sveltamente, alle prime ore del giorno seguente la soffiata, è come il colpo di pistola che segna l'inizio della  formazione dei possessi artistici romani, dei massicci collezionismi cardinalizi oggi ancora preservati dalla  manomorta del fidecommesso: Borghese, Spada, Colonna, Barberini, Doria- Pamphilj, e poi Sciarra, Corsini,  Albani e molte altre ancora.

I capolavori dei Camerini di Alfonso ritorneranno a fiorire trent'anni più tardi, nella  stagione del neovenetismo romano del 1630 e avranno a testimone addirittura Nicolas Poussin.
Ma per quanto riguarda l'età di Lionello, di Borso e di Ercole, che erano più lontane, e che arretrano nel cuore del XV secolo, occorrerà attendere che sia la ricerca, risvegliata dal lavoro d'archivio e dal recupero d'una così consistente lontananza estetica, a raggiungere territori e testimonianze sempre più vaste.

Attendere, dunque, che rinasca Schifanoia da sotto gli intonaci, si riaprano portoni inchiodati dalla ruggine, si spalanchino finestre di  polverose sacrestie e si dia nuovo accesso a saloni nobiliari colmi di tavole: le quali, accatastate e immobili -  nome e cognome oppure soprannome artigiano - tra le righe delle carte del Baruffaldi o del Barotti, si muovono  lentamente e riprendono forza e fisionomia alla luce del procedimento critico. Dopo il Baruffaldi o il Barotti, dal Laderchi in poi è Adolfo Venturi che si assume ogni vero compito con la forza e lo spirito di Ludovico Antonio Muratori: immaginato ancora vivo, al lume d'una antica lucerna, calato nei sotterranei estensi come il conte di Montecristo e che chiedeva proprio al Venturi - favoleggiava sorridendo Roberto Longhi - di voler proseguire la sua stessa opera nell'esaltante, fisico flusso del crescere, del maturare della storia.

 

L'età di Jacob Burckhardt,  una storia altrettanto avventurosa che non quella dell'età dell'oro, iniziava a popolare le nuove prospettive  europee alimentate allora dal museo, si scioglieva dai ceppi di scena sul palcoscenico di quell'eloquente,  magnifico protagonista che diveniva il tempo romantico. La prima esposizione d'arte ferrarese promossa e  organizzata dal Venturi a Burlington House segna il punto, anno 1894, dove si incontrano la volontà di  conoscenza anglosassone e l'altrettanto ferma volontà di metodo storico italiano.

Sir Auden Chamberlain, che era lo stesso ministro degli Esteri che qualche anno più tardi avrebbe riempito della sua malinconica fisionomia e del suo chapeau-melon, nonché del suo ombrello, le immagini fotografiche dei giornali nelle ore della fatale crisi anglo-germanica e dell'incontro di Monaco, non era riuscito a contenere  tempestivamente ? si direbbe ? l'ardore della consorte Lady Ivy verso l'arte italiana. Dai desideri della signora,  nel 1930, era nata una gigantesca esposizione della rinascenza italiana, alla quale il capo del governo italiano, Mussolini, con una sensibilità del tutto moderna nel campo delle comunicazioni, non fece mancare un apporto spropositato di capolavori.

Giovanni Bellini, Prudenza (o Vanità); Gallerie dell'Accademia a Venezia. E ciò rigettando ogni parere negativo del Re Vittorio Emanuele III e delle autorità delle Belle Arti. Il successo straordinario di questa esposizione che esponeva capolavori italiani da Duccio al Novecento contribuì a risollevare il dittatore dal peso che l'opinione pubblica inglese e francese aveva gettato su di lui dopo la morte di Giacomo Matteotti (1924).

Qualche anno più tardi, nel 1935, anche le 'inique sanzioni' dichiarate dalla Nazioni Unite per l'impresa italiana di Etiopia furono ammorbidite a loro volta grazie a una seconda, spettacolare mostra parigina forte di quasi 500 capolavori e dedicata, nel Petit Palais sugli Champs Elysées, all'arte italiana Dai Primitivi al Novecento.

La rassegna fu completata da una esposizione d'arte  contemporanea italiana. In questo ultimo caso, il successo fu un po' meno sonante (in fondo i francesi non  molleranno mai facilmente sul livello qualitativo italiano e in proposito d'arte contemporanea). Anche alcune  nostre voci già fedeli al regime, come quella di Margherita Sarfatti, erano passate a una critica piuttosto  aggressiva, e senza più concessioni possibili.

 

Nonostante un paio di grandi iniziative fiorentine (il Barocco a Palazzo Strozzi nel 1922, e il Settecento in Palazzo Pitti nel '27) e dopo la crisi economica mondiale, soltanto ora poteva aver inizio un'attività di tutela  artistica che riprendesse a far riferimento alla buona legge decretata dal governo Giolitti già nel 1909, merito di Luigi Rava, di Giovanni Rosadi e molto anche di Corrado Ricci, nuovo direttore generale.

Un convegno promosso da Daniel Wildenstein a Parigi, appunto nell'anno 1930, resta a documentare quanto vivace fosse ormai il dibattito sul museo e sulla sua funzione sociale in Europa e negli Stati Uniti. Era in corso il  rinnovamento del vecchio servizio pubblico settecentesco, il museo di Antonio Canova e di Quatremére de  Quincy.
L'abbiamo già ricordato su queste pagine qualche mese fa. Fu allora che ebbe origine anche in Italia una  sequenza di mostre che esibirono una discreta, consistente fortuna anche nel mettere in relazione vicenda storica  e genio locale, spirito del territorio e virtù creative delle comunità.

Si direbbe anzi che il primo impulso italiano fosse quello di lavorare storicamente e con ragione critica sul modello che si potrebbe definire  dell'incardinazione, ovvero dell'arte 'diffusa', fiorita sul suo territorio, come si dirà più tardi. Quanto all'arte  ferrarese, quasi sulla spinta di un così lungo recupero critico, e sulla base della coincidenza di numerose  circostanze affiorate in quegli anni, quali la ricorrenza delle celebrazioni ariostee, il nuovo lavoro di scoperta  dell'Etruria padana e di Spina, e soprattutto dopo il ritorno di Nino Barbantini da Venezia, trovò modo di  allestire la splendida esposizione dedicata al Rinascimento che nel 1933 corrispose naturalmente anche  all'appoggio politico di personalità come quella, centrale al sistema in atto dei rapporti tra Ferrara, Roma e  Venezia, di Italo Balbo.

Giovanni Bellini, Perseveranza (o Lussuria); Gallerie dell'Accademia a Venezia.Seguirono presto cantieri analoghi nel settentrione, e citando soltanto a memoria, vien fatto di ricordare il Correggio a Parma nel '34, e di allinearlo con la Pittura Riminese del Trecento di Cesare Brandi a Rimini  (1935), e via di seguito, con la Pittura Bresciana del Cinquecento (1936), la Pittura Romagnola del  Rinascimento a Forlì (1937), per non dire infine della fortunata serie veneziana dei Tiziano, Veronese, Tintoretto ecc. e delle esposizioni a venire di Firenze o di Bologna ecc., che incontrarono però sul loro cammino  l'emanazione delle leggi razziali e la stessa nuova guerra mondiale.

 

Tuttavia, il modello espositivo ferrarese che  era stato allestito, e per due annate di seguito, in Palazzo dei Diamanti aveva segnato l'abbrivio più straordinario,  se visto in capo al profondo lavoro di scavo indirizzato alle origini della civiltà degli Este. Il modello critico,  l'itinerario della moderna odeporica della comunicazione critica, seguì in prevalenza il dettato portato  dall'indubitabile intelligenza di Bernard Berenson e messo a punto nei suoi Pittori Italiani settentrionali , edito  nel 1897.

Ed è proprio in questa prevalente direzione che sono orientati i colpi delle sapienti batterie attribuzionistiche e conoscitive messe in piedi nella sua simultanea Officina Ferrarese da un Roberto Longhi, che il 1 dicembre del '34 con una famosa prolusione, dedicata alla pittura felsinea dal Trecento a Giorgio Morandi, iniziava il suo insegnamento nell'Università di Bologna.

Questa è una nuova storia che incrocerà l'arte ferrarese ritornata in vita con la tradizione estense moderna, e che si illuminerà d'ora in avanti attraverso le pagine di Giorgio Bassani e, più vicini al maestro, Alberto Graziani, un  genio bruciato dalla guerra, e Francesco Arcangeli.

Lo studio di quest'ultimo dedicato al Bastianino, che la  Cassa di Risparmio ha edito nel 1962, è una della più raffinate interpretazioni che il manierismo non solo  ferrarese, ma settentrionale e italiano, abbia conseguito nel corso del recupero storico del quale abbiamo tante  volte - e ora ancora - ragionato. Parlo del restauro dell'abside della Cattedrale con il grande e terribile Giudizio  Finale, anni 1998-2000. Raramente un'interpretazione critica esercitata per giunta, allora, in naturale distanza  ottica e prospettica ha saputo trovare conferma e anzi ulteriore verità quanto questa mirabile dettata da Arcangeli  ormai più che quarant'anni or sono, da anni irreperibile per lo studio e la lettura.

Giovanni Bellini, Maldicenza (o Invidia); Gellerie dell'Accademia a Venezia.Non so se si possa istituire e raffigurare in termini ragionevoli la diversa fisionomia critica e il differente sforzo organizzativo della mostra che Nino Barbantini spalancò davanti all'orbace di Italo Balbo, reale patrocinatore della rinascenza di Ferrara, e agli Accademici d'Italia ostinati nella ricerca come il Senatore Adolfo Venturi; e la  grande esposizione che solo un anno fa ha portato le Muse estensi a percorrere non solo le strade della pianura di  Eridano, ma che le ha convinte addirittura a tentare autostrade e grandi vie d'acqua del nord Europeo: e a mostrare la meraviglia del 'singolare Rinascimento' nato e nutrito dall'arte di Ferrara tra le mura del Palais des Beaux-Arts di Bruxelles.

 

 

Se si viene tentati dal brillìo, dal lucido profilo delle diversità, è perché tra di loro,  insieme al vivo senso della qualità delle scelte, viene invece emergendo il valore di ciò che tecniche, modernità  conoscitiva, e livello di scienza ci sospingono a tentare ogni volta che tentiamo di allestire un'esposizione degna  del suo assunto iniziale e programmatico. Certe dubbiosità di ragion pratica, di condizione fisica, di opportunità  manutentive e, infine, anche di rarità clamorose, propendono ormai per frenare, assottigliare, ridurre, conservare  tra le perle ormai immobili del museo.

Sono dubbiosità comprensibili e preoccupanti: proprio come il tempo ha  voluto spennare allo scopo di fare mostre la trepida corona di meraviglie che, da decenni e decenni, attraversava l'Europa, e ornava padiglioni, saloni, palazzi ornati come anche sale disadorne e tuttavia gonfie di echi e di  riflessi, di voci, di forme e di dipinti che nella nostra vita abbiamo più volte visto e rivisto, e nuovamente  ammirato, opere d'arte a noi carissime installarsi per attivare un'ulteriore apparizione.
Per esercitare infinite,  nuove attrazioni.

'Petit pan de mur jaune', mormoravo da giovane ripensando a ciò che Marcel Proust aveva suggerito a Bergotte  nel suo scrutare febbrile ed estremo la meravigliosa Veduta di Delft di Vermeer, esposta appunto in una sala del  Louvre nell'ambito d'una mostra del 1927. Le mostre facevano il loro ingresso nella grande letteratura.
La nostra generazione, dopo la fine della guerra, ha accumulato per la prima volta nella storia della società  numerose e sovrapposto occasioni di vedere e di rivedere ancora, e di incontrare esposti sotto diverse luci, con varie intenzioni emotive e soprattutto con determinate, incisive volontà critiche, taluni dipinti molto espressivi, oppure di buona taglia visiva, o addirittura capolavori assoluti destinati così a colpirci in numerose occasioni.

Benvenuto Tisi, detto Garofalo, La leggenda della vestale Claudia Quinta; Palazzo Barberini a Roma.Dopo tanti e rinnovati incontri, si matura anche entro di noi la sensazione di essere ricchi e dinamici viaggiatori collezionisti di immagini e insieme tagliatori di teste, raccoglitori di occhiate ripetute a sorpresa , figli di  cataloghi sempre più pesanti. Interpreti forse d'una sociologia di intersezioni inarrestabili: che avvertiamo  tuttavia essersi portate, chissà come e chissà perché, sul passo estremo.

 

C'è da infatti da immaginare che tra poco, e di colpo, molti tra essi scompariranno dall'immagine ripetuta di questo 'museo dei musei' che la velocità dei prestiti, dei viaggi, degli specialisti di imballaggio, dei responsabili  di accrochage, hanno finito per creare nel silenzio che accompagna ogni mostra: ovvero esposizione, rassegna.
Il 'Rinascimento singolare' del quale parliamo ha avuto dunque due stagioni forti, nel 1934 e nel 2003 anche a Ferrara, anzi proprio a Ferrara.

Il primo, ebbe il carattere naturale di un 'risorgimento' che, sbattute in faccia al passato le porte della città del silenzio, prese il ritmo e il fervore di un'officina critica e di poesia. Il secondo e  ultimo, singolare anche di nome, celebrandosi a Bruxelles sotto l'egida dell'Unione Europea, ha avanzato e  offerto i suoi caratteri alla costruzione costituzionale del vecchio continente. È evidente che la prima edizione  della mostra ferrarese fu superata, solo pochi mesi più tardi, dal flusso consistente della parola critica di Longhi,  dalla crescita ammirevole delle attribuzioni e delle conoscenze.

La nuova inedita edizione dei nostri anni è stata  anche lei confortata, trascorso mezzo secolo, da un sorprendente numero di capolavori: nonché di opere d'arte  allo stato - per così dire - brado. Certo, il confronto tra le due mostre, quella del '33 e la più recente del 2003- 2004, può portarci a consistenti constatazioni di qualità: e nello stesso tempo, forse, aprire alla nostra vista il  fatto ormai innegabile che queste rassegne, certo per il logorìo materiale e anche mentale al quale sono ormai  giunte, nascono sì da un progetto, ma poi vengono formate dal regime alterno delle concessioni di prestito.

Alcuni grandi musei di tutto il mondo inviano segnali angosciosi che avvertono di aver raggiunto il  chilometraggio non più superabile con nuovi prestiti e nuovi trasferimenti. Altri, si dicono stanchi di essere  cambiati per una ditta di exportimport.
E il problema cresce a dismisura.
Certo la mostra del Rinascimento in Palazzo dei Diamanti, basata sempre sulla piattaforma scientifica berensoniana, aveva incontrato ricchezze degne di un magnifico ritorno alla storia.

 

Benvenuto Tisi, detto Garofalo, La trasformazione di Pico in Picchio; Palazzo Barberini a Roma.Basterebbe pensare al Ritratto di Francesco d'Este, il capolavoro di Roger van der Weiden dal Metropolitan di New York; oppure al formidabile gruppo di Cosmè Tura costituito dalla Pietà incomparabile del Louvre, il Ritratto Duveen, la Pietà del Kunstisthorisches di Vienna e, prima d'ogni altra cosa, le ante d'organo di Ferrara con la favolosa  Annunciazione.

E come dimenticare, di Ercole, il prosciugato Battista di Berlino? E di Pisanello, la Principessa del Louvre?  Questi capolavori abitano tutti i manuali d'ogni storia dell'arte, constatarne l'assenza nell'ultima occasione è un  po' come interrompere il respiro durante una corsa.
Ma anche nell'edizione di Bruxelles, a riflettere bene, come di seguito in quella di Ferrara, la ricchezza delle opere e la sopravvenuta, eccezionale floridità dei problemi interpretativi, è , ad apertura di libro ossia di  catalogo, sempre sorprendente.

Come splendido esempio si può rinviare il visitatore alla base del monumento di  Ercole I progettata dal disegno di Ercole, nonché alle rievocazioni dall' Orlando Furioso e dalla Gerusalemme,  opera di Nicolò dell'Abate oppure di Lanfranco, del Tiarini, di Giuseppe Maria Crespi? E poi i rapporti tra  Ferrara e Bologna messi a punto con le tempere restaurate e mai viste prima di Lorenzo Costa a San Giacomo  Maggiore, per non dire della documentazione aggiunta ai capolavori dei Camerini di Alfonso, i Ritratti di  Tiziano e gli enigmatici, avventurosi Paesaggi dello Scarsellino.

Regnava, infine, su questo paradiso estense, la magnifica ricostruzione del Camerino d'alabastro con le sculture  di Antonio Lombardo, il dono vero e proprio che l'edizione odierna del 'grande ritorno estense' ha voluto fare all'Europa e anche al Castello di Ferrara, anch'egli richiamato in vita da questa sonante occasione. Il tempo, è vero, erode lentamente le possibilità delle mostre, ma tra i suoi sussulti pieni di volontà interpretativa e di  speranza critica, è sufficiente un episodio come questo a portare altro e nuovo alimento all'antica invenzione del  'paragone': il più esaltante strumento di conoscenza che la mostra prepara e predispone all'opera.

L'opera d'arte  è un'intersezione tra tempo e spazio: rigidamente tutelata dal museo, ammirevolmente dinamica nell'ordito delle mostre. Queste ultime, tuttavia, stanno esaurendo le riserve di autonomia e di trasferimento che sono state loro  assegnate in un calcolo anche troppo ottimistico. Il museo dovrà presto inventarsi altri inediti strumenti e insieme una nuova vitalità.