Mele (e fanciulle) mal sorvegliate

Scritto da  Claudio Cazzola

Guido Marussig, Giardino Gavassini, ora Parco Pareschi.Fortuna ferrarese di un verso ovidiano.

 

Non si è ancora affievolita l'eco della splendida mostra allestita a Bruxelles dall'ottobre 2003 al gennaio 2004, replicata successivamente con lusinghiero successo nella nostra città, di quel Rinascimento singolare che ha contraddistinto la civiltà estense.
Tale evento, preceduto di poco e per così dire preparato dalle celebrazioni per il quinto centenario delle nozze fra Lucrezia Borgia e Alfonso I, ha contribuito a illuminare Ferrara nel circuito dei centri europei di cultura.
Ora, l'intervento di Carlo Bassi, pubblicato sull'ultimo numero di questa rivista e dedicato a Ferruccio De Lupis, invita a riprendere in mano un filo di codesta nostra storia locale, attivando quell'esercizio della memoria che, sola, costituisce l'antidoto alla perdita di autocoscienza per noi uomini, come singoli e come collettività.


Si tratta dell'illustrazione di un prezioso manufatto progettato, scritto ed edito dal fecondo intellettuale ferrarese nel 1921, sul cui frontespizio si legge AB INSOMNI NON CUSTODITA DRACONE-FERRARA.

Non vi è dubbio che, come afferma l'autore, il motto sia il risultato di una «citazione classica», ma più interessante per ora è il fatto che la formula appartenga allo stemma araldico di Ippolito II  d'Este (1509-1572), figlio di Alfonso I, fratello del duca Ercole II ed elevato alla porpora cardinalizia nel 1539.

Questo personaggio, avviato alla carriera ecclesiastica secondo la destinazione feroce del secondogenito contro la propria indole sfrenata, ambiziosa, sempre insoddisfatta di sé, acquista nel 1549, in via Monte Giordano, a Roma, un palazzo (oggi palazzo Taverna), sulla cui facciata fa collocare uno stemma araldico da tempo scomparso (come mi informa cortesemente Giuseppe Inzerillo) e pur tuttavia descrivibile nel modo seguente: «L'"impresa" del cardinale Ippolito era rappresentata da un'aquila bianca che tiene fra gli artigli i pomi delle Esperidi con la scritta ab insomni non custodita dracone.

L'aquila non viene custodita da chicchessia e pertanto è la sola tutrice dei suoi tesori che vengono gelosamente conservati, ovvero essa, libera com'è da vigilanza di sorta, può dispensare a tutti i suoi doni: questi i possibili significati. Non è neppure escluso che si tratti di un'impresa d'amore» (Luciano Chiappini, Gli Estensi. Mille anni di storia, Corbo, Ferrara, 2001, p.306).

Se il contesto mitologico che rinvia a una delle fatiche di Ercole è ben individuato, occorre fare un passo in più per rintracciare la fonte classica della citazione e assumere, quindi, dalla medesima, eventuali altre informazioni che possano illuminare meglio quello che, sempre secondo Carlo Bassi, «ha un sapore criptico ed ermetico alla
comprensione».

L'autore latino che, accanto a Virgilio duca segnore e maestro, gode di un ininterrotto successo dall'antichità al Rinascimento è Ovidio, poeta di età augustea, autore, fra altre opere, del poema in versi esametri intitolato Metamorfosi.

Il progetto della composizione, in quindici libri, prevede la trattazione della storia del mondo letta attraverso il continuo divenire degli esseri viventi, la cui trasformazione (la metamorfosi appunto) garantisce la continuità della vita sulla terra, dal Chaos originario al principato di Cesare Augusto.

Ora, nel libro nono viene narrata, fra altre vicende, la conclusione della vita terrena dell'eroe greco Eracle (primo nome Alcide, il "forte": Ercole per i Romani), figlio di Zeus e di Alcmena, moglie di Anfitrione, re di Tebe: dopo aver compiuto le celebri fatiche - dodici per la vulgata, ma il numero varia secondo le fonti - egli sta ritornando a casa vittorioso, ma la moglie Deianira, resa gelosa da una diceria sulla presunta infedeltà del marito, invia al medesimo una veste avvelenata dal sangue del centauro Nesso; indossata la tunica, l'eroe, impazzito dal dolore, prepara a se stesso la pira, ma, una volta morto, viene assunto sull'Olimpo dal padre e reso, così, immortale.

Guido Marussig, La Porta degli Angeli.Durante il sacrificio di sé, Eracle ricorda tutti i benefici apportati all'umanità attraverso le proprie imprese, delle quali vediamo ora il punto che ci interessa:

Ergo ego foedantem peregrino templa cruore
Busirin domui saevoque alimenta parentis
Antaeo eripui nec me pastoris Hiberi
Forma triplex, nec forma triplex tua, Cerbere, movit?
Vosne, manus, validi pressistis cornua tauri?
Vestrum opus Elis habet, vestrum Stymphalides undae
Partheniumque nemus; vestra virtute relatus
Thermodontiaco caelatus balteus auro
Pomaque ab insomni concustodita dracone;
Nec mihi Centauri potuere resistere, nec mi
Arcadiae vastator aper;
nec profuit hydrae
Crescere per damnum
geminasque resumere
vires.

«Non sono forse stato io - protesta l'eroe - a neutralizzare Busiride che inquinava gli spazi sacri dei templi con il sangue degli stranieri? Non ho forse tolto al terribile Anteo la forza materna che lo sosteneva?

Non ho forse vinto il tricorpore pastore di Iberia e i tuoi tre, o Cerbero, altrettanti corpi?

Non ho forse insieme con voi, mani mie, domato le corna dell'indomabile toro, portate a termine con voi le imprese di Elide, della palude Stinfalia, del bosco di Partenio?

Non è forse per vostro merito che fu catturata la cintura cesellata in oro del Termodonte, conquistate pure le mele permanentemente sorvegliate dal serpente che non dorme mai?

Non è forse a me che non riuscirono a far fronte i Centauri ed il cinghiale saccheggiatore dell'Arcadia?

 

E che grazie a me non servì a nulla all'idra ricrescere sempre dalle ferite ricevute raddoppiando le proprie forze?»: come si vede, siamo di fronte a un grandioso, pur nella incompletezza della presente citazione, apparato mitologico, che è parte integrante della formazione della persona dotta nei secoli della nostra storia, frettolosamente liquidato a volte sotto l'etichetta di inutile nozionismo, quando invece, se studiato correttamente, può diventare un itinerario di crescita interiore grazie alla individuazione, gradino per gradino, dei monstra che nutriamo dentro di noi.
Per esempio, Busiride è il nome di un feroce re egiziano, uso a sacrificare alla propria sete di sangue qualunque straniero passasse per il suo paese; Anteo è un gigante figlio della terra, invincibile finchè avesse i piedi a contatto con la madre, ed Eracle lo vince sollevandolo; l'eroe si impossessa poi delle mandrie di Gerione, rozzo pastore dai tre corpi abitante l'isola di Erizia oltre le coste occidentali della Spagna, e riesce a trarre fuori dall'Ade il cane Cerbero dalle tre teste; cattura pure il toro fatto uscire dal mare dal dio Poseidone a Creta, trasportandolo a Micene; e poi altre imprese, come la conquista della cintura d'oro di Ippolita, regina delle Amazzoni, e la vittoria sull'idra di Lerna, un mostro di nove, cento o diecimila teste, secondo le fonti, sempre capace di ricrescere nelle ferite a essa inferte.

Concentriamoci adesso sul v. 190, che recita, come abbiamo letto, pomaque ab insomni concustodita dracone, cioè mele (poma) permanentemente sorvegliate (concustodita) da un serpente che non dorme mai (ab insomni - dracone): Gea, la dea madre Terra, regala ad Era per il suo matrimonio con Zeus delle mele d'oro, tre secondo la versione comune, che vengono affidate ad altrettante fanciulle Esperidi in un luogo remoto verso Occidente (individuato in genere nelle Isole di Capo Verde) e custodite dal drago senza ciglia Ladone: mele che Eracle, con la collaborazione di Atlante, riesce a sottrarre.

Ora, dalla tradizione classica sappiamo che in questa località magica e segreta si trova il letto nuziale della coppia regale Zeus-Era, connotato dalla protezione aurea della dea dell'amore, Afrodite, ivi testimoniata dalle mele d'oro (come non ricordare il giudizio di Paride?).

 

Guido Marussig, Il chiostro di San Benedetto.A questo punto, può diventare più chiaro il contesto dell'impresa del cardinale, le cui ben note avventure galanti potrebbero benissimo riverberarsi nella riuscita penetrazione di Eracle nel talamo sacro per antonomasia.

Codesta ipotesi di lettura trova non piccola conferma nella variante testuale adottata dal cardinale, ripresa pari pari anche da De Lupis, secondo la quale la forma dotta concustodita (i filologi la chiamano lectio difficilior) viene riscritta, semplificata, come non custodita (che sarebbe la lectio facilior), tenuto conto della normale mancanza di discontinuità fra le singole parole nei manoscritti.

E, infatti, la tradizione del testo di Ovidio si divide in due davanti a questo luogo, una parte dei testimoni riportando l'una lezione e una parte l'altra: e, dato più interessante, tutte le prime edizioni a stampa delle Metamorfosi registrano non custodita - così la editio Romana del 1471, la Veneta del 1486 e, soprattutto, così legge il grande Aldo Manuzio (editio Aldina, 1502), autorità suprema in Ferrara, come dimostrano i suoi rapporti con la Corte Estense, con Lucrezia Borgia, con la famiglia Strozzi.

Allora l'interpretazione del testo cambia e non poco: le mele risultano mal sorvegliate, nonostante il serpente custode non dorma mai (e dietro questa immagine mitologica potrebbe nascondersi benissimo, parlando del cardinale Ippolito II, un padre o, forse meglio, un marito geloso).

Quanto alla scelta dell'eroe, Eracle-Alcide-Ercole è argomento encomiastico e propagandistico per eccellenza presso la corte estense, a cominciare dal duca Ercole I. Il nostro cardinale, raffinatissimo amante, oltre che di altri soggetti, pure di arte classica - villa di Tivoli docet - avrà, con la scelta di tale stemma, voluto riallacciarsi all'antico preteso capostipite della gens estense attraverso il nome, riprodotto fra l'altro dal fratello Ercole II. 

L'aquila bianca di casa d'Este potrebbe essere un'illustre epifania metamorfica del cardinale mentre egli si appropria - quale novello Eracle - di preziosissimi frutti aurei mal sorvegliati da un guardiano pur insonne.

Sotto tale prospettiva potrebbe svelarsi di più il pudico accenno («Non è neppure escluso che si tratti di un'impresa d'amore») di Luciano Chiappini sopra ricordato.

Che Ferrara in particolare sia un luogo ovidiano per eccellenza è dimostrato anche dalla pubblicazione, nel 1570, di una traduzione del poema delle Metamorfosi da parte di Fabio Marretti, con dedica ad Alfonso II, in ottava rima, un'opera che fra l'altro presenta interessanti intrecci di ispirazione e di contenuto con la Gerusalemme Liberata del Tasso, datata 1580.

E De Lupis? Cosa ha a che fare il raffinato estetizzante dannunziano con tutto questo? Tentiamo una possibile risposta, leggendo preliminarmente un passo delle sue Memorie, edite nel 1990 per cura della Cassa di Risparmio di Ferrara: «[...] intanto Ferrara si trastulla nella scia del suo passato sereno.

Nelle sue strade, trasportata da lenti buoi, odora ancora la ben pettinata canapa, che s'ammassa nei magazzini, ricavati dai refettori di abbandonati conventi, mantenendo vivo il fasto di una tradizionale agricoltura: nelle scuderie padronali nitriscono i cavalli e sembrano chiamare i bianchi destrieri, che nelle notti lunari trasportano, in una berlina dorata, la bella Marfisa, con accanto la morte, per le vie deserte di Ferrara.» [da "Ultimi sprazzi di vita serena", in Ferruccio Luppis, La Diga. Pettegolezzi umani e diplomatici. Memorie 1880-1959, p. 83]

Guido Marussig, La Cattedrale.Avanza pian piano una visione della città estense: non quella che è, bensì quella che fu, quella che nel riposo immobile della morte secolare ha potuto conservare, intatta, la sua mitica bellezza.

Questa chiave di lettura può essere confermata agevolmente dalla consultazione del volume medesimo AB INSOMNI NON CUSTODITA DRACONE - FERRARA, copia del quale, amorevolmente conservata presso la Direzione della Cassa di Risparmio medesima, ho potuto compulsare grazie alla disponibilità di Andrea Nascimbeni «Il mio cuore batte per te, Ferrara, quando primavera ritorna, come quello di un padre accanto al figlio che muore; non perché in te si continui la vita, Ferrara, ma perché non ti abbandoni la morte, che soffonde il tuo silenzio di tragica beltà.» si legge a pagina 107 (col titolo Primavera, dalla sezione Le stagioni), un chiaro disegno interpretativo che sembra rovesciare del tutto il significato 'vitalistico' dell'impresa del cardinale Ippolito, modello palmare del frontespizio.

Ferrara - e non più i pomi aurei, né tanto meno fanciulle nubili e non - resta in eterno distesa nel sonno, sfuggita addirittura al controllo dell'essere mitico che avrebbe dovuto proteggerne l'esistenza, ed in tal modo paradossalmente viva.

Come risulta dichiarato alla pagina 11, sotto il titolo Via dei Piopponi (dalla sezione Le
vie): «E il più acuto anelito della tua vita possente, Ferrara, volse, con l'aquila d'Este là dove corre il tuo fiume, lasciando pioppi in segno di superbi palagi, pioppi a simbolo della tua piana infinita ».

E proprio nella sua città ancora oggi lo possiamo immaginare, con la nostra fantasia, Ferruccio Luppis, sdegnoso nella sua raffinata aristocrazia, mentre sosta solitario nel salone d'onore di Casa Romei, ove, sotto il pregiato soffitto ligneo a losanghe al centro del fregio a grottesche dei lati minori, contempla e adotta per sé l'impresa del
Cardinale attraversata dal cartiglio riportante il motto ovidiano: ab insomni non custodita dracone.

Pioppi. In un pioppo, in un salice e in un olmo, secondo il racconto mitico, vengono da Zeus trasformate (una metamorfosi!) le tre Esperidi, a continuare sotto altra forma un pianto senza fine per la perdita irreversibile del loro prezioso,  unico privilegio.