Il banchiere illuminato

Scritto da  Francesco Giavazzi

Francesco Cingano al suo tavolo di lavoro alla Banca Commerciale Italiana, nel 1979.Ricordo di Franco Cingano, uomo di banca e di cultura.

 

La paura è una reazione comune e purtroppo sempre più frequente ai fenomeni prodotti dalla globalizzazione: i flussi migratori dall'Africa e dall'Europa dell'est, l'arrivo sui nostri mercati di merci di qualità  sempre migliore e a  prezzi stracciati, il venir meno delle distanze, che ha avvicinato in modo brutale la  ricchezza dell'Occidente alla povertà della più parte del mondo.

Non è la prima volta che succede. Accadde così  anche ai tempi della prima globalizzazione, tra la fine dell'Ottocento e il primo decennio del secolo scorso. Quel  primo episodio di globalizzazione, anche allora prodotto del progresso tecnologico - il telegrafo e le grandi navi  di linea transatlantiche - suscitò presto due reazioni che ne determinarono la fine precoce.


Da una lato dell'Atlantico, i sindacati americani imposero al Congresso di bloccare l'arrivo di lavoratori a buon mercato dall'Europa (in particolare dall'Italia) che facevano concorrenza agli operai locali. Dall'altro, gli  agricoltori europei chiesero l'introduzione di dazi sulle importazioni di grano e carne argentina che arrivavano a prezzi con i quali l'agricoltura europea non poteva competere.
Il risultato della paura fu disastroso.

Francesco Cingano e Antonio Monti (a destra), amministratori delegati della Banca Commerciale Italiana, colloquio con Innocenzo Monti (capo contabile) nel 1980.Alla fine della Prima Guerra mondiale, quando la ricostruzione avrebbe avuto bisogno di mercati aperti, il mondo si trovò segmentato da dazi e tariffe. Ma ormai il clima aperto della fine dell'Ottocento era tramontato. La risposta alla crisi degli anni Venti non fu la riapertura dei mercati, ma un'ulteriore chiusura. L'illusione di ciascun Paese di poter uscire dalla crisi a spese degli altri fallì e quei fallimenti furono una delle cause, forse la  principale, del crollo dei regimi democratici che ne seguì.

Anche oggi la paura suggerisce di rispondere alla globalizzazione cercando, invano, di proteggerci. Protezione dalle persone e dalle merci a buon mercato che arrivano nei nostri Paesi, e protezione delle nostre imprese dalla concorrenza. Dazi e politica industriale - una definizione elegante che in realtà significa aiuti di Stato alle imprese - sono diventati termini comuni nelle discussioni sul futuro dell'Europa.

Ancora una volta, ci si illude che la via per sopravvivere alla concorrenza di India e Cina sia chiudere i mercati e affidarsi allo Stato e alla capacità dei governanti di scommettere su progetti vincenti, di finanziare aziende che  diventino "campioni europei" (a qualcuno basterebbero "nazionali".)

La Francia ha creato un'Agenzia pubblica per l'innovazione, dotandola di 6 miliardi di euro. Il Commissario europeo per l'industria, Gunter Verheugen, ripete che quando è in gioco la creazione di uno di questi campioni, la burocrazia di Bruxelles deve avere un occhio di riguardo nell'applicare le regole antitrust.

Nelle trattative sull'apertura dei mercati agricoli la Francia chiede protezione per i propri agricoltori, senza rendersi conto che, se solo l'Europa aprisse le proprie frontiere alla carne argentina, quel Paese potrebbe in breve  tempo rimborsare i titoli obbligazionari in cui molte famiglie europee hanno investito i loro risparmi, perdendoli.

Galileo Cattabriga, Margherite sul Po, 1955.Forse, ma dovrei dire spero, queste illusioni non ci condurranno, come negli anni Venti, alla fine delle  democrazie, ma certamente accelereranno il nostro impoverimento.
Non riusciremo a chiudere le frontiere, ma se lo facessimo ci auto-escluderemmo dalle opportunità offerte da  due miliardi di persone, indiani e cinesi soprattutto, che si accingono a uscire dalla povertà e hanno bisogno di  tutto, e certamente di molti dei prodotti e dei servizi che le nostre imprese possono offrire loro. Mi colpisce  quanto più aperta e coraggiosa fosse l'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta. Forse perché la fine della prima  globalizzazione e il ricordo della chiusura dell'America ai nostri emigranti scottava ancora.

C'era, sì, molta impresa pubblica, ma non sussidiata dallo Stato, almeno fino agli anni Settanta, quando irruppe  la politica. E soprattutto vi era una generazione di imprenditori coraggiosi, che sfidavano mercati lontani e non si  limitavano a cercare protezione in nicchie ben protette, dall'energia, ai telefoni, alle autostrade.
All'inizio degli anni Cinquanta, l'Italia era un paese povero: il reddito pro-capite era solo un terzo che nel paese  più ricco, gli Stati Uniti. All'inizio degli anni Settanta, l'italiano medio aveva raggiunto il settanta per cento del  reddito americano.

Se oggi riusciremo a evitare il declino, sarà perchè non ci saremo arresi alla paura e avremo ritrovato in noi  stessi almeno un po' dell'entusiasmo che ci aveva accompagnato in quegli anni.
Di quell'Italia Franco Cingano fu uno degli esempi migliori.
Diventato amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana nel 1967, capì subito che la rete delle sedi  e rappresentanze della Comit nel mondo era uno dei fattori determinanti del nostro miracolo economico.

Francesco Cingano riceve il Premio al merito per l'iniziativa locale 'Alessandro Masi e Gaetano Recchi' (Fondatori della Cassa di Risparmio di Ferrara).Si  trattava, infatti, di un "miracolo" trainato dalle esportazioni, ma su quei mercati lontani i nostri imprenditori non  sarebbero mai arrivati senza l'aiuto del direttore della sede locale della Banca Commerciale Italiana: fosse a  Tokyo, a Mosca o in America Latina, dove la Comit operava attraverso la controllata Sudameris.

L'umanità di Cingano gli aveva fatto anche comprendere che è sempre e solo questione di uomini, che il  successo dipendeva dalla qualità delle persone alle quali erano affidati quegli uffici lontani, e che per assicurarsi che in ogni sede vi fosse la persona più adatta, per incoraggiarla in Paesi lontani e spesso difficili, l'unico modo era andarli a trovare spesso. E così viaggiò incessantemente, lui che mal sopportava anche i viaggi a Roma e sognava solo Padova, Ferrara, Venezia, le Dolomiti.

Oggi, quando più di allora avremmo bisogno di essere presenti su quei mercati lontani, ci ritroviamo con  banchieri provinciali, che considerano Roma il centro del pianeta perché lì ha sede un'istituzione che li protegge, e pensano che il mondo finisca a Bordighera.

Cingano capì anche, e molto presto, che il futuro dell'Italia non era nell'impresa pubblica, nonostante la Comit  fosse posseduta dall'Iri e all'Iri avessero lavorato molte persone che stimava, primo fra tutti il suo più grande  amico, Bruno Visentini. Verso gli imprenditori, soprattutto quelli che si erano fatti da sé, nutriva ammirazione e  curiosità. Erano persone per lo più poco istruite.

Una volta, in un incontro con Arnoldo Mondadori, al culmine della sua fortuna, e un Angelo Rizzoli alle prime  difficoltà, Raffaele Mattioli disse: "Vedi Rizzoli, Mondadori si è dovuto fermare alla quinta elementare; tu  invece sei arrivato al diploma. È questo il tuo guaio."
Ma alla scarsa istruzione suppliva intelligenza, curiosità, amore per le cose belle, istinto per le persone di valore.

Neppure Rina Brion, un'imprenditrice che Franco Cingano fu il primo a capire, aveva studiato: e tuttavia già  negli anni Sessanta aveva intuito che il modo per sopravvivere alla concorrenza di Paesi a basso costo era valorizzare i propri prodotti con il design, affidandosi agli architetti migliori: lei si affidò a Carlo Scarpa. In  un'Italia in cui la televisione di Stato era considerata cosa normale, Cingano capì presto che l'idea di Mario Formenton di portare la Mondadori nel mercato televisivo era vincente e lo appoggiò dal primo giorno.

Paesaggio della Diamantina.Lo stesso  fece con Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari, quando decisero di sfidare il "Corriere" fondando "Repubblica":  non era scontato, a Milano, per un banchiere che aveva i padroni del giornale milanese tra i propri miglior  clienti, trovare il coraggio di appoggiare un concorrente, per di più romano.

Per scovare le persone di valore non bisogna avere pregiudizi.
E Cingano non ne ebbe mai: ammirava Angelo Moratti, il petroliere, che forse sarà stato meno raffinato di altri  che frequentavano la Comit, ma si era fatto da sé, in un mercato difficile, dove il peso dell'industria pubblica era  predominate. Lo stesso per Lino Zanussi, verso il quale nutriva la simpatia della comune origine veneta.

La consuetudine con questi imprenditori non si fermava agli affari. Con molti, quelli che ho ricordato, ma anche  Leopoldo Pirelli, Carlo De Benedetti e il più austero mondo torinese, da Gianluigi Gabetti all'Avvocato, vi fu  spesso complicità, un sentire comune verso i libri, le cose belle, i nostri pittori degli anni Cinquanta, i film  francesi di Michelle Morgan. Ma i momenti migliori, quelli dei sogni e dei progetti comuni, rimanevano le  giornate trascorse lontano da Milano, sulle Dolomiti.

In un ritratto affettuoso e intelligente, Fulvio Coltorti, il direttore dell'ufficio studi di Mediobanca, ricorda un passaggio di uno scritto di Franco Cingano:
"A me piace camminare alto, sopra il margine del bosco, sopra i duemila metri, dove si incontra meno gente,  attraverso percorsi sconosciuti o cercandone nuovi, di norma accompagnato da pochi amici. Ritrovo veramente  serenità e riposo lungo gli itinerari che sono ormai tracciati nella mia memoria: su queste montagne che hanno  inciso ricordi familiari, di rapporti umani, di tante vicende della vita."
(Franco Cingano, ?Luoghi delle nostre radici?, Atlante, giugno 1988.)

Lo stesso  fece con Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari, quando decisero di sfidare il "Corriere" fondando "Repubblica":  non era scontato, a Milano, per un banchiere che aveva i padroni del giornale milanese tra i propri miglior  clienti, trovare il coraggio di appoggiare un concorrente, per di più romano.

Per scovare le persone di valore non bisogna avere pregiudizi.
E Cingano non ne ebbe mai: ammirava Angelo Moratti, il petroliere, che forse sarà stato meno raffinato di altri  che frequentavano la Comit, ma si era fatto da sé, in un mercato difficile, dove il peso dell'industria pubblica era  predominate. Lo stesso per Lino Zanussi, verso il quale nutriva la simpatia della comune origine veneta.

La consuetudine con questi imprenditori non si fermava agli affari. Con molti, quelli che ho ricordato, ma anche  Leopoldo Pirelli, Carlo De Benedetti e il più austero mondo torinese, da Gianluigi Gabetti all'Avvocato, vi fu  spesso complicità, un sentire comune verso i libri, le cose belle, i nostri pittori degli anni Cinquanta, i film  francesi di Michelle Morgan. Ma i momenti migliori, quelli dei sogni e dei progetti comuni, rimanevano le  giornate trascorse lontano da Milano, sulle Dolomiti.

In un ritratto affettuoso e intelligente, Fulvio Coltorti, il direttore dell'ufficio studi di Mediobanca, ricorda un passaggio di uno scritto di Franco Cingano:
"A me piace camminare alto, sopra il margine del bosco, sopra i duemila metri, dove si incontra meno gente,  attraverso percorsi sconosciuti o cercandone nuovi, di norma accompagnato da pochi amici. Ritrovo veramente  serenità e riposo lungo gli itinerari che sono ormai tracciati nella mia memoria: su queste montagne che hanno  inciso ricordi familiari, di rapporti umani, di tante vicende della vita."
(Franco Cingano, ?Luoghi delle nostre radici?, Atlante, giugno 1988.)

FRANCESCO CINGANO: UNA CARRIRERA ESEMPLARE

Francesco Cingano nacque a Bondeno il 28 settembre 1922.

Dopo la laurea in giurisprudenza, il suo incontro con la banca fu in un certo senso casuale: pensava alla carriera professionale o a quella accademica, ma su suggerimento di Bruno Visentini, fece domanda di assunzione alla Banca Commerciale Italiana a seguito di un incontro che la banca aveva organizzato per entrare in contatto con i migliori neolaureati.

La sua carriera bancaria si avviò nella filiale di Padova, dalla quale fu trasferito a Milano nel 1947, al servizio filiali italiane, sotto la  guida dell'amministratore delegato Corrado Franzi. In quell'epoca nacque il sodalizio con Raffaele Mattioli, il "banchiere umanista" che  del giovane Cingano apprezzava sia le doti tecniche sia la cultura classica, che lo aveva portato a scrivere saggi per riviste come Belfagor, Stato Moderno e Il Mondo.

La sua carriera in Comit culminò con la nomina ad amminiustratore delegato nel 1967, dopo essere stato vice direttore di sede di Torino, direttore di sede a Udine, a Casablanca (in Marocco) e a Milano, e direttore centrale. mantenne la carica di amministratore delegato per 21  anni, fino al 1988.

Alla fine di quell'anno fu chiamato da Enrico Cuccia alla presidenza di Mediobanca, della quale era stato consigliere e membro del  comitato esecutivo dal 1973.


La nuova carica comportò per lui anche l'assunzione della vice presidenza delle Assicurazioni Generali e la presidenza dell'Istituto Europeo di Oncologia, un'istituzione di ricerca e di cura voluta da Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca.

L'attività di Francesco Cingano alla guida della Banca Commerciale Italiana si è connotata, in una prima fase, per la resistenza  all'invadenza della politica nell'attività bancaria, che aveva portato alle dimissioni di Raffaele Mattioli dalla presidenza, e la strenua  difesa dell'indipendenza operativa dell'Istituto.

Un'indipendenza Cingano difendeva anche attraverso una precisa strategia di rafforzamento patrimoniale: dal 1967 al 1987, l'attivo totale  della Banca Commerciale Italiana aumentò di 20 volte, ma patrimonio netto di più di sessanta.

Un successo ottenuto sia attraverso la  quotazione in Borsa del titolo Comit, avvenuta nel 1970 sotto gli auspici di Mediobanca, che permise di raccogliere dagli oltre 50 mila  soci il capitale che l'IRI negava, sia da una politica operativa tesa a privilegiare più la redditività che l'aumento delle dimensioni aziendali.

Come presidente di Mediobanca, Cingano gestì il più delicato periodo di trasformazione dell'economia italiana, con l'apertura dei mercati dei capitali, la crisi valutaria del 1992, la deregolamentazione del settore bancario e la privatizzazione di molti istituti di  credito.

Si dimise dall'incarico il 7 aprile 2003, un mese prima della morte.