Da una lato dell'Atlantico, i sindacati americani imposero al Congresso di bloccare l'arrivo di lavoratori a buon mercato dall'Europa (in particolare dall'Italia) che facevano concorrenza agli operai locali. Dall'altro, gli agricoltori europei chiesero l'introduzione di dazi sulle importazioni di grano e carne argentina che arrivavano a prezzi con i quali l'agricoltura europea non poteva competere.
Il risultato della paura fu disastroso.
Alla fine della Prima Guerra mondiale, quando la ricostruzione avrebbe avuto bisogno di mercati aperti, il mondo si trovò segmentato da dazi e tariffe. Ma ormai il clima aperto della fine dell'Ottocento era tramontato. La risposta alla crisi degli anni Venti non fu la riapertura dei mercati, ma un'ulteriore chiusura. L'illusione di ciascun Paese di poter uscire dalla crisi a spese degli altri fallì e quei fallimenti furono una delle cause, forse la principale, del crollo dei regimi democratici che ne seguì.
Anche oggi la paura suggerisce di rispondere alla globalizzazione cercando, invano, di proteggerci. Protezione dalle persone e dalle merci a buon mercato che arrivano nei nostri Paesi, e protezione delle nostre imprese dalla concorrenza. Dazi e politica industriale - una definizione elegante che in realtà significa aiuti di Stato alle imprese - sono diventati termini comuni nelle discussioni sul futuro dell'Europa.
Ancora una volta, ci si illude che la via per sopravvivere alla concorrenza di India e Cina sia chiudere i mercati e affidarsi allo Stato e alla capacità dei governanti di scommettere su progetti vincenti, di finanziare aziende che diventino "campioni europei" (a qualcuno basterebbero "nazionali".)
La Francia ha creato un'Agenzia pubblica per l'innovazione, dotandola di 6 miliardi di euro. Il Commissario europeo per l'industria, Gunter Verheugen, ripete che quando è in gioco la creazione di uno di questi campioni, la burocrazia di Bruxelles deve avere un occhio di riguardo nell'applicare le regole antitrust.
Nelle trattative sull'apertura dei mercati agricoli la Francia chiede protezione per i propri agricoltori, senza rendersi conto che, se solo l'Europa aprisse le proprie frontiere alla carne argentina, quel Paese potrebbe in breve tempo rimborsare i titoli obbligazionari in cui molte famiglie europee hanno investito i loro risparmi, perdendoli.
Forse, ma dovrei dire spero, queste illusioni non ci condurranno, come negli anni Venti, alla fine delle democrazie, ma certamente accelereranno il nostro impoverimento.
Non riusciremo a chiudere le frontiere, ma se lo facessimo ci auto-escluderemmo dalle opportunità offerte da due miliardi di persone, indiani e cinesi soprattutto, che si accingono a uscire dalla povertà e hanno bisogno di tutto, e certamente di molti dei prodotti e dei servizi che le nostre imprese possono offrire loro. Mi colpisce quanto più aperta e coraggiosa fosse l'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta. Forse perché la fine della prima globalizzazione e il ricordo della chiusura dell'America ai nostri emigranti scottava ancora.
C'era, sì, molta impresa pubblica, ma non sussidiata dallo Stato, almeno fino agli anni Settanta, quando irruppe la politica. E soprattutto vi era una generazione di imprenditori coraggiosi, che sfidavano mercati lontani e non si limitavano a cercare protezione in nicchie ben protette, dall'energia, ai telefoni, alle autostrade.
All'inizio degli anni Cinquanta, l'Italia era un paese povero: il reddito pro-capite era solo un terzo che nel paese più ricco, gli Stati Uniti. All'inizio degli anni Settanta, l'italiano medio aveva raggiunto il settanta per cento del reddito americano.
Se oggi riusciremo a evitare il declino, sarà perchè non ci saremo arresi alla paura e avremo ritrovato in noi stessi almeno un po' dell'entusiasmo che ci aveva accompagnato in quegli anni.
Di quell'Italia Franco Cingano fu uno degli esempi migliori.
Diventato amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana nel 1967, capì subito che la rete delle sedi e rappresentanze della Comit nel mondo era uno dei fattori determinanti del nostro miracolo economico.
Si trattava, infatti, di un "miracolo" trainato dalle esportazioni, ma su quei mercati lontani i nostri imprenditori non sarebbero mai arrivati senza l'aiuto del direttore della sede locale della Banca Commerciale Italiana: fosse a Tokyo, a Mosca o in America Latina, dove la Comit operava attraverso la controllata Sudameris.
L'umanità di Cingano gli aveva fatto anche comprendere che è sempre e solo questione di uomini, che il successo dipendeva dalla qualità delle persone alle quali erano affidati quegli uffici lontani, e che per assicurarsi che in ogni sede vi fosse la persona più adatta, per incoraggiarla in Paesi lontani e spesso difficili, l'unico modo era andarli a trovare spesso. E così viaggiò incessantemente, lui che mal sopportava anche i viaggi a Roma e sognava solo Padova, Ferrara, Venezia, le Dolomiti.
Oggi, quando più di allora avremmo bisogno di essere presenti su quei mercati lontani, ci ritroviamo con banchieri provinciali, che considerano Roma il centro del pianeta perché lì ha sede un'istituzione che li protegge, e pensano che il mondo finisca a Bordighera.
Cingano capì anche, e molto presto, che il futuro dell'Italia non era nell'impresa pubblica, nonostante la Comit fosse posseduta dall'Iri e all'Iri avessero lavorato molte persone che stimava, primo fra tutti il suo più grande amico, Bruno Visentini. Verso gli imprenditori, soprattutto quelli che si erano fatti da sé, nutriva ammirazione e curiosità. Erano persone per lo più poco istruite.
Una volta, in un incontro con Arnoldo Mondadori, al culmine della sua fortuna, e un Angelo Rizzoli alle prime difficoltà, Raffaele Mattioli disse: "Vedi Rizzoli, Mondadori si è dovuto fermare alla quinta elementare; tu invece sei arrivato al diploma. È questo il tuo guaio."
Ma alla scarsa istruzione suppliva intelligenza, curiosità, amore per le cose belle, istinto per le persone di valore.
Neppure Rina Brion, un'imprenditrice che Franco Cingano fu il primo a capire, aveva studiato: e tuttavia già negli anni Sessanta aveva intuito che il modo per sopravvivere alla concorrenza di Paesi a basso costo era valorizzare i propri prodotti con il design, affidandosi agli architetti migliori: lei si affidò a Carlo Scarpa. In un'Italia in cui la televisione di Stato era considerata cosa normale, Cingano capì presto che l'idea di Mario Formenton di portare la Mondadori nel mercato televisivo era vincente e lo appoggiò dal primo giorno.
Lo stesso fece con Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari, quando decisero di sfidare il "Corriere" fondando "Repubblica": non era scontato, a Milano, per un banchiere che aveva i padroni del giornale milanese tra i propri miglior clienti, trovare il coraggio di appoggiare un concorrente, per di più romano.
Per scovare le persone di valore non bisogna avere pregiudizi.
E Cingano non ne ebbe mai: ammirava Angelo Moratti, il petroliere, che forse sarà stato meno raffinato di altri che frequentavano la Comit, ma si era fatto da sé, in un mercato difficile, dove il peso dell'industria pubblica era predominate. Lo stesso per Lino Zanussi, verso il quale nutriva la simpatia della comune origine veneta.
La consuetudine con questi imprenditori non si fermava agli affari. Con molti, quelli che ho ricordato, ma anche Leopoldo Pirelli, Carlo De Benedetti e il più austero mondo torinese, da Gianluigi Gabetti all'Avvocato, vi fu spesso complicità, un sentire comune verso i libri, le cose belle, i nostri pittori degli anni Cinquanta, i film francesi di Michelle Morgan. Ma i momenti migliori, quelli dei sogni e dei progetti comuni, rimanevano le giornate trascorse lontano da Milano, sulle Dolomiti.
In un ritratto affettuoso e intelligente, Fulvio Coltorti, il direttore dell'ufficio studi di Mediobanca, ricorda un passaggio di uno scritto di Franco Cingano:
"A me piace camminare alto, sopra il margine del bosco, sopra i duemila metri, dove si incontra meno gente, attraverso percorsi sconosciuti o cercandone nuovi, di norma accompagnato da pochi amici. Ritrovo veramente serenità e riposo lungo gli itinerari che sono ormai tracciati nella mia memoria: su queste montagne che hanno inciso ricordi familiari, di rapporti umani, di tante vicende della vita."
(Franco Cingano, ?Luoghi delle nostre radici?, Atlante, giugno 1988.)
Lo stesso fece con Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari, quando decisero di sfidare il "Corriere" fondando "Repubblica": non era scontato, a Milano, per un banchiere che aveva i padroni del giornale milanese tra i propri miglior clienti, trovare il coraggio di appoggiare un concorrente, per di più romano.
Per scovare le persone di valore non bisogna avere pregiudizi.
E Cingano non ne ebbe mai: ammirava Angelo Moratti, il petroliere, che forse sarà stato meno raffinato di altri che frequentavano la Comit, ma si era fatto da sé, in un mercato difficile, dove il peso dell'industria pubblica era predominate. Lo stesso per Lino Zanussi, verso il quale nutriva la simpatia della comune origine veneta.
La consuetudine con questi imprenditori non si fermava agli affari. Con molti, quelli che ho ricordato, ma anche Leopoldo Pirelli, Carlo De Benedetti e il più austero mondo torinese, da Gianluigi Gabetti all'Avvocato, vi fu spesso complicità, un sentire comune verso i libri, le cose belle, i nostri pittori degli anni Cinquanta, i film francesi di Michelle Morgan. Ma i momenti migliori, quelli dei sogni e dei progetti comuni, rimanevano le giornate trascorse lontano da Milano, sulle Dolomiti.
In un ritratto affettuoso e intelligente, Fulvio Coltorti, il direttore dell'ufficio studi di Mediobanca, ricorda un passaggio di uno scritto di Franco Cingano:
"A me piace camminare alto, sopra il margine del bosco, sopra i duemila metri, dove si incontra meno gente, attraverso percorsi sconosciuti o cercandone nuovi, di norma accompagnato da pochi amici. Ritrovo veramente serenità e riposo lungo gli itinerari che sono ormai tracciati nella mia memoria: su queste montagne che hanno inciso ricordi familiari, di rapporti umani, di tante vicende della vita."
(Franco Cingano, ?Luoghi delle nostre radici?, Atlante, giugno 1988.)
FRANCESCO CINGANO: UNA CARRIRERA ESEMPLARE
Francesco Cingano nacque a Bondeno il 28 settembre 1922.
Dopo la laurea in giurisprudenza, il suo incontro con la banca fu in un certo senso casuale: pensava alla carriera professionale o a quella accademica, ma su suggerimento di Bruno Visentini, fece domanda di assunzione alla Banca Commerciale Italiana a seguito di un incontro che la banca aveva organizzato per entrare in contatto con i migliori neolaureati.
La sua carriera bancaria si avviò nella filiale di Padova, dalla quale fu trasferito a Milano nel 1947, al servizio filiali italiane, sotto la guida dell'amministratore delegato Corrado Franzi. In quell'epoca nacque il sodalizio con Raffaele Mattioli, il "banchiere umanista" che del giovane Cingano apprezzava sia le doti tecniche sia la cultura classica, che lo aveva portato a scrivere saggi per riviste come Belfagor, Stato Moderno e Il Mondo.
La sua carriera in Comit culminò con la nomina ad amminiustratore delegato nel 1967, dopo essere stato vice direttore di sede di Torino, direttore di sede a Udine, a Casablanca (in Marocco) e a Milano, e direttore centrale. mantenne la carica di amministratore delegato per 21 anni, fino al 1988.
Alla fine di quell'anno fu chiamato da Enrico Cuccia alla presidenza di Mediobanca, della quale era stato consigliere e membro del comitato esecutivo dal 1973.
La nuova carica comportò per lui anche l'assunzione della vice presidenza delle Assicurazioni Generali e la presidenza dell'Istituto Europeo di Oncologia, un'istituzione di ricerca e di cura voluta da Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca.
L'attività di Francesco Cingano alla guida della Banca Commerciale Italiana si è connotata, in una prima fase, per la resistenza all'invadenza della politica nell'attività bancaria, che aveva portato alle dimissioni di Raffaele Mattioli dalla presidenza, e la strenua difesa dell'indipendenza operativa dell'Istituto.
Un'indipendenza Cingano difendeva anche attraverso una precisa strategia di rafforzamento patrimoniale: dal 1967 al 1987, l'attivo totale della Banca Commerciale Italiana aumentò di 20 volte, ma patrimonio netto di più di sessanta.
Un successo ottenuto sia attraverso la quotazione in Borsa del titolo Comit, avvenuta nel 1970 sotto gli auspici di Mediobanca, che permise di raccogliere dagli oltre 50 mila soci il capitale che l'IRI negava, sia da una politica operativa tesa a privilegiare più la redditività che l'aumento delle dimensioni aziendali.
Come presidente di Mediobanca, Cingano gestì il più delicato periodo di trasformazione dell'economia italiana, con l'apertura dei mercati dei capitali, la crisi valutaria del 1992, la deregolamentazione del settore bancario e la privatizzazione di molti istituti di credito.
Si dimise dall'incarico il 7 aprile 2003, un mese prima della morte.