I due giovani avevano appena incrociato gli sguardi e tanto era bastato per far scoppiare la passione nei loro cuori. Ma come fare per potersi avvicinare? Lo strumento, non proprio disinteressata per la verità, fu la fantesca che propose ad Alvise, a fronte di una ricompensa, di favorire un incontro con la giovane dama. Il passo fu breve e colmato in batter di ciglia, e l'incendio divampò! Furono tre anni di amore delirante e bramoso; Maria, la nutrice, paraninfa prezzolata, governava i tempi, i modi, i luoghi dove i due giovani si consumavano nelle schermaglie d'amore. Tirinella era un fiore in pieno rigoglio, bruciante di passione, come ci tramandano alcuni suoi versi, redatti in volgare, ritrovati nel Grande Archivio di Napoli, ed era pronta a tutto pur di avere il bell'Alvise. Il marito legittimo, Pietro di Capua, era troppo preso dai lacciuoli della politica, dai doveri verso la corona ed il Seggio, di cui era autorevole esponente, per rendersi conto di quanto accadeva e, del resto, la sua età non spingeva a privilegiare la passione. Tuttavia, come sempre, l'amore trova dei possenti ostacoli e, difficilmente, può pascersi in eterno. Il 4 gennaio 1424, Pietro era a corte, e Tirinella, insieme ai quattro figliastri, era nel salone del palazzo di famiglia, intenta, così almeno sembrava, ad ascoltare la storia di Tristano ed Isotta, letta da uno dei giovani uomini. Mentre, al bagliore del fuoco del camino, si dipanavano le vicende dei due amanti, nella luce della porta del salone apparve la nutrice e, rapidissima, fece cenno con gli occhi annunzianti la venuta di Alvise; un fugace sguardo fu l'ordine che Tirinella impartì alla cameriera: il veneziano doveva essere scortato nella camera da letto. Nel contempo, abbracciò i quattro giovani, con fare materno, quasi a far cerchio sul libro perché si ascoltasse, con maggiore attenzione, il resoconto letterario dello sfortunato amore descritto nella saga.
Ma uno dei figli notò, con la coda dell'occhio, un'ombra furtiva nel corridoio. Subito dopo la giovane addusse una tormentosa emicrania che la costringeva a letto e, lestissima, si accomiatò. Il figliastro con urla scomposte riferì agli altri fratelli quanto aveva intravisto e, aggiunse, che sotto quel tetto veniva fatto a pezzi l'onore di loro tutti. Tosto furono riuniti i servi e, armi in pugno, raggiunsero la stanza della matrigna. Una gragnuola di colpi si abbatté sull'uscio e alcuni, urlando, ingiungevano di aprire, i due sobbalzarono dal letto, e lei, senza perdere il sangue freddo, gridò tutto il suo sdegno per la tentata intrusione, ordinando che l'assedio fosse prontamente tolto.
Ma, per tutta risposta, quelli presero un'ascia per aprirsi un varco nella pesante quercia; a quel punto, Alvise capì che avrebbe dovuto difendere il loro amore: si vestì del giaco e impugnò la spada, Tirinella aprì la porta e si frappose, discinta e furente come un'Erinni, fra l'amato e gli assalitori. Questi lo schernirono perché, dissero, si copriva con il corpo di una donna. Allora, nel volgere di pochi secondi, la tragedia si compì; il combattimento si risolse in una furia di colpi che si abbatté sui due amanti che furono più volte trafitti. In particolare, fu dilaniato, orribile messaggio, il ventre di lei, quindi i due corpi trascinati nell'immondizia sotto le mura di San Giovanni a Carbonara, dove accorsero, numerosi, i napoletani. I due sfortunati innamorati vagano, insieme ad altri compagni di sventura, con le loro anime errabonde in cerca di pace.
La cronaca dell'evento, come ci è raccontato da Benedetto Croce, venne fatta da Giovanni Aurispa, umanista siciliano giramondo, a Niccolò d'Ancona, illustre giurista ferrarese, perché, singolare coincidenza, era avvenuta solo sedici mesi prima un altro evento che aveva sconvolto la città emiliana, la condanna a morte di Laura, detta Parisina, Malatesta, moglie di Nicolò d'Este, da quest'ultimo accusata di tenere una relazione con il figlio naturale Ugo.
Una passione all'ombra del Vesuvio
Scritto da Antonio Roberto Lucidi
Tirinella, come Parisina: tragica figura di amante rinascimentale
Frammiste alle nere rocce piroclastiche vomitate, sin dalla notte dei tempi, dal Vesuvio, al mare blu cobalto e al cielo azzurrino, la città di Napoli ha visto consumarsi vicende che hanno lasciato tracce vermiglie, ai più, sconosciute. La nostra civiltà ha celebrato resoconti di amori tragici (per tutti quello, sublimamente rimandatoci dall'Alighieri, di Paolo e Francesca) che ben rappresentano l'ordito di un tessuto connettivo comune, l'amour passion come insegna Stendhal. Val la pena di provare a tracciare il secco resoconto di una storia, apparentemente minima, che ancora si racconta a mezza bocca e che sconvolse i sonni dei nostri avi.
Nel 1421, il giovane veneziano, bello e nobile, Alvise Dandolo, commerciante di tessuti, già viveva da qualche tempo a Napoli. In un tardo pomeriggio di quell'anno, aveva incrociato, fugacemente, lo sguardo di una leggiadra, giovanissima dama che tornava, come si conviene, in compagnia della fantesca, dalla messa vespertina sentita nella splendida chiesa di San Giovanni a Carbonara. La donna era Caterina (per gli intimi Tirinella) Capece, moglie quindicenne, maritata al nobile, ultracinquantenne, Pietro di Capua. Quest'ultimo, già padre di quattro figli maschi, conviventi e aitanti giovani, era uno dei nobili che rappresentavano il Sedile di Porta Capuana, uno dei cinque, e sicuramente il più importante, della città. Il matrimonio sanciva l'alleanza fra due grandi famiglie del Sedile, e Pietro era tenuto in gran considerazione, a corte, dalla regina Giovanna così come lo era stato dal suo predecessore Ladislao.
Frammiste alle nere rocce piroclastiche vomitate, sin dalla notte dei tempi, dal Vesuvio, al mare blu cobalto e al cielo azzurrino, la città di Napoli ha visto consumarsi vicende che hanno lasciato tracce vermiglie, ai più, sconosciute. La nostra civiltà ha celebrato resoconti di amori tragici (per tutti quello, sublimamente rimandatoci dall'Alighieri, di Paolo e Francesca) che ben rappresentano l'ordito di un tessuto connettivo comune, l'amour passion come insegna Stendhal. Val la pena di provare a tracciare il secco resoconto di una storia, apparentemente minima, che ancora si racconta a mezza bocca e che sconvolse i sonni dei nostri avi.
Nel 1421, il giovane veneziano, bello e nobile, Alvise Dandolo, commerciante di tessuti, già viveva da qualche tempo a Napoli. In un tardo pomeriggio di quell'anno, aveva incrociato, fugacemente, lo sguardo di una leggiadra, giovanissima dama che tornava, come si conviene, in compagnia della fantesca, dalla messa vespertina sentita nella splendida chiesa di San Giovanni a Carbonara. La donna era Caterina (per gli intimi Tirinella) Capece, moglie quindicenne, maritata al nobile, ultracinquantenne, Pietro di Capua. Quest'ultimo, già padre di quattro figli maschi, conviventi e aitanti giovani, era uno dei nobili che rappresentavano il Sedile di Porta Capuana, uno dei cinque, e sicuramente il più importante, della città. Il matrimonio sanciva l'alleanza fra due grandi famiglie del Sedile, e Pietro era tenuto in gran considerazione, a corte, dalla regina Giovanna così come lo era stato dal suo predecessore Ladislao.
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Num. 24