Lei inizia con il dirci che nel primo volume della sua trilogia dedicata alle povere comunità altopolesane, allora ferraresi, come lo è da sempre la sua cara Porotto, con il ricordarci 'che ognuno vede e sente quel che reca in cuore'; a noi interessa ridire dalle sue stesse parole quello che Ferrara e la sua gente diceva e dice al suo cuore. Lei ci rimanda a sua risposta dall'Eterno a quel 1968, anno della sua scoperta dei frammenti lapidari dei primi statuti comunali di Ferrara, quelli del 1173; ce li mostra 'posti nella pubblica unassailable. His final nine years' research, to be piazza' e ce li dice incisi nel fianco della grandiosa cattedrale e ce ne spiega pure il perché di questa scel ta. Il palazzo comunale era allora il duomo, e il 'popolo l'aveva eretta', non i Marchesella-Adelardi, non il vescovo Landolfo, ma soprattutto il popolo del primo libero comune cittadino che trova in essa il simbolo e la garanzia del suo riscatto irreversibile dalla minorità feudale.
Dalla Domus Dei con un volo da Ippogrifo alato ci fa sostare presso la basilica di San Francesco e qui ci ricorda che le confraternite, rese più consapevoli, delle opere di misericordia, nel Quattrocento, rispetto alle più devozionali del medioevo, emularono addirittura il fastoso duca Borso d'Este. 'Questi', Lei osserva, 'ha appena fatto scrivere e miniare la Bibbia, in termini artistici ed economici, il più bello e ricco libro del
mondo, la confraternita ha a sua volta [all'opposto], più graffiato che scritto questo [il registro delle contabilità benefiche] in termini di fede, di speranza, di carità, anch'esso uno dei più bei libri del Quattrocento ferrarese; rimasto per caso cronaca di fame e di miseria, piccole cose meramente da dimenticare [sua sottile ironia]'.
Più avanti ancora, sotto le arcate del bel San Francesco ci fa conoscere l'altra confraternita, quella di San Sebastiano e di essa ci avverte che 'non vi sono nobili né ricchi borghesi né esercenti professioni intellettuali neppure a livello di notai. Le arti dichiarate sono quelle comuni di pittori, pellipari, ricamatori, tintori, muratori, marangoni, magnani e potrei andare per altre tredici categorie di tale umile gente, sempre a rischio di sopravvivenza.'
Ma per questa umile gente, Lei, Adriano, ha trovato valore e dignità, accanto ad Ercole I d'Este e a Biagio Rossetti, nella sua capitale opera che sfiderà i secoli: 'Artisti a Ferrara in età umanistica e rinascimentale'.
Trova modo, Lei, Maestro, di porre accanto a questa povera gente un sommo umanista: quel Giovanni Aurispa del quale sottolinea 'che fu lontano dall'abilità diplomatica e dal fine senso politico e cortigiano di Guarino Veronese, ma che sentì i vincoli dell'amicizia al punto che gli consentirono di contare a lungo sul favore della corte e gli assicurarono la benevolenza della curia vescovile'.

E così è la sua vita, caro silente interlocutore dall'eternità, alla ricerca di quella verità storica sempre sottoponibile a verifica e mai conclusa. E questo al prezzo di trasferte ogni giorno dell'anno, fra treni e corriere scoordinate, dalla sua sede universitaria di Borgo Scoline a Ferrara, a Modena, agli archivi d'Italia con appena il viatico dei pellegrini poveri di un panino consumato fra le brevi chiusure del mattino e le riaperture pomeridiane. Atti di libera povertà. Da qui tutta la santa rusticità (che gli riconosceva un altro puro di cuore, del tutto a Lui consonante, Luciano Chiappini), di un asceta, di un eremita al massimo aperto alla socialità più generosa e disinteressata del sapere a tutti, piccoli o grandi che fossero.
Da qui il Suo grido, che solo una volta superò i consueti toni bassi: 'Ho eseguito di persona le ricerche, senza furberie, senza galoppini, quanto più capillarmente mi è stato possibile? senza scelte e conclusioni preconcette? non somministro fruscoli né bolle di sapone; offro alla meditazione testimonianze di esperienze umane concretamente vissute da presunti scampoli di società? Il tutto può sembrare ed essere poco. Ad altri meglio dotati e più intraprendenti? alzare monticelli, a me basta aver allargato gli angusti sentieri della conoscenza sin qui avuta dei nostri luoghi.'
Queste parole vanno correlate a quelle che Lei canta nelle pagine introduttive e a un tempo conclusive dell'opus maximum.

Per la sua famiglia, sono certo, abbia fatto e faccia propria nel segreto dell'animo schivo, l'epigrafe che il filologo umanista Remigio Sabbadini premetteva all'edizione critica dell'Epistolario del Guarino, ove riconosceva pari amore e dignità al fratello che rivoltava i solchi del sudato poderetto, come lui, Remigio, con somma dedizione voltava e rivoltava i codici latini e greci della classicità.
Studioso della società in ogni espressione di vita, Lei fu pure indagatore di 'sora nostra Morte Corporale' sulla scia del Canto cosmico universale delle Creature del Poverello d'Assisi.
Da questa Sua ultima spiaggia, in trasparentissima sua autobiografia, Lei ha fatto Sua la disposizione testamentaria di mastro Antonio, un muratore trecentesco ferrarese, il quale disponeva che dopo la sua morte venisse acquisito un cero del prezzo di venti soldi. Lei così lo commenta, da vero, e non ostentato, cristiano. 'Dire che anche qui gli uomini nacquero, soffrirono e fecero soffrire, poi morirono, sarebbe una sintesi scettica e pessimistica, perché c'è una luce di fede e di speranza che proietta l'uomo storico al di là della sua vicenda terrena, che accomuna chi ha avuto beni, onori, potenza o anche solo pane quotidiano, o chi da Dio non ha avuto che il sole e la pioggia. Sono questi testamenti che risvegliano i più poveri alla nostra conoscenza; per quella luce che nel momento del trapasso resta sola agli uni e agli altri: come il cero di mastro Antonio.' Come il suo cero, Maestro Franceschini, al cui nome non mi è permesso aggiungere altra qualifica. Come il suo cero che arde mite e soave, detto con il Pascoli, davanti a una dolce Maria, alla Santa Maria del Presepe, della Natività. Addio, Maestro, in un grazie che trova espressione solo nella preghiera.