
La Comacchio di cui sto parlando non esiste più: la 'rivoluzione' conseguente le grandi bonifiche idrauliche del secolo appena passato l'ha spazzata via in gran parte.

Su questo colore sociale sono state scritte pagine di facile e fastidiosa letteratura che non andava al di là dei soliti luoghi comuni, tanto cari all'incultura di visitatori frettolosi che trovano in guide improvvisate pane per i loro denti.
All'opposto, le belle descrizioni della laguna, l'ingegnosità delle opere che ne presiedono la compiutezza dell'apparecchio idraulico, la magnificenza delle pesche, hanno ravvolta Comacchio in un alone poetico, talvolta in rappresentazioni estetizzanti e retoriche, fuori dalla realtà.

L'oggetto è la vita di ogni giorno, assai più delle pretese documentaristiche e della presentazione epidermica del folclore.
Un lungo carteggio tra l'Istituto Luce e l'Azienda delle Valli Comunali di Comacchio documenta la realizzazione del film.
La corrispondenza inizia nel novembre 1938 allorché una lettera dell'agenzia di Firenze dell'Istituto chiede informazioni sul 'periodo più adatto per effettuare uan ripresa cinematografica delle scene della pesca e della marinatura delle anguille'.

Questo primo documentario era stato voluto e pagato dal Comune di Comacchio, che proprio in quell'anno, nel grande complesso industriale di Via Mazzini, acquistato nel 1933, aveva riunito la sede amministrativa delle valli e la 'fabbricatura dei pesci', da sempre condotta da privati.

Il Comacchio di Cerchio si inserisce in questo clima propagandistico-pubblicitario, tanto che al chiudersi del 1940 l'Istituto Luce informa l'Azienda Valli che la ripresa, prevista nei giorni immediatamente a venire, sarà fatta a sue spese: basta l'assicurazione dell'assistenza e dell'aiuto dell'Azienda.

Nel settembre 1941, una lettera della direzione generale dell'Istituto Luce comunica che a breve 'entrerà in lavorazione un nostro cortometraggio su Comacchio, le sue valli, la pesca delle anguille[...]Un film inteso a far meglio conoscere al pubblico la suggestiva bellezza di Comacchio e della sua industria'.
Allo scopo si reca personalmente a Comacchio il regista ferrarese Giorgio Ferroni (1908 - 1981), legato da amicizia con Alberto Felletti Spadazzi, colto, onnipotente commissario prefettizio che amministra l'azienda delle valli.

In tutta la corrispondenza intercorsa Fernando Cerchio non è mai nominato.
La lavorazione del cortometraggio inizia nel novembre del 1941: accanto alle riprese dal vero nel film non mancano quelle 'ricostruite'. Per esempio, l'esterno e l'interno del casone di valle sono girati in città, all'interno di una misera casa in fondo alla strada di S. Pietro.

È probabile che queste riprese siano state girate nell'aprile del 1942, dopo la sospensione del dicembre. Lo arguiamo dalla lettera dell'Istituto Luce dello stesso mese, nella quale si chiedono informazioni sulle prevedibili condizioni di marea 'nello specchio d'acqua ove venne, a suo tempo, costruito il lavoriero', e nel contempo si domanda la messa a

Comacchio viene presentato alla Mostra di Venezia. Dalla stessa città, nel giugno di quell'anno, una lettera della Direzione del Documentario porta accluso un assegno di 200 lire 'da far pervenire alle guardie vallive[...]a titolo di gartifica per l'assistenza prestata durante le riprese del documentario Comacchio'.
Cerchio apre il suo capolavoro coi riflessi della luce dell'alba sulle valli, con lo specchiarsi

Quella mostrata è povera gente vestita di miseri panni, con gli zoccoli ai piedi. Qualcuno è avvolto in un tabarro nero. Sono volti scarnificati, bruciati dal sole; le donne hanno il viso incorniciato dal fazzoletto nero. Si contano su poche dita della mano gli uomini con in testa il cappello; i più portano il berretto: il copricapo dei plebei.
Anche la religione fa parte della totalità del luogo Comacchio: il suono delle campane delle chiese inaugura il primo e il secondo giorno del 'viaggio' di Cerchio; all'interno della casa di valle, così come nella 'sala dei fuochi', non manca l'immagine della Madonna del Popolo, S. Maria in Aula Regia, la protettrice di Comacchio e dello stabilimento vallivo.

I 'casoni' di valle, dove i vallanti stavano ininterrottamente da settembre a marzo, un tempo lontani e sperduti nell'immensità dello specchio lacustre, oggi si raggiungono agevolmente. Come mostra il Comacchio 1991 di Cesare Bornazzini fanno parte del grande 'museo delle valli' e sono oggetto di visite belle, interessanti in una natura a 'colori'.
Non perché sia a colori il film, ma perché, visti i casoni oggi, pare impossibile immaginare la dolorosa e faticosa esistenza di uomini che per secoli hanno vissuto in quelle case, lontani per giorni e mesi dal consorzio umano, prigionieri in un carcere d'acqua ed elementi atmosferici.

La curiosità dei visitatori è soddisfatta dalle guide che narrano del colore sociale della Comacchio dei tempi di Cerchio.
Quella che raccontano è una storia che sa di archeologia, tanto è culturalmente lontana anche se cronologicamente vicina: sono passati solo pochi decenni. E tutti, guide e visitatori, a recriminare la 'distruzione di un ambiente incomparabile', la bellezza senza confronto di un paradiso terrestre.
La bonifica ha segnato un trapasso di civiltà, un prima e un dopo che i due film ben documentano: la Comacchio di ieri, bella, misera, isolata, strapiena di bambini che corrono per i ponti, e la Comacchio di oggi, un po' meno bella, ricca e intersecata da numerose e veloci strade, col suo ridente litorale, non più plaga acquitrinosa dove regnavano il deserto, la miseria e le zanzare; dove purtroppo pare che Attila abbia imperversato un po' troppo.

L'acqua ha ripreso a dominare il cuore degli uomini: con la corsa sfrenata alla coltivazione delle vongole; con l'assegnazione di parte delle residue valli a cooperative di pescatori; con l'entusiasmo gioioso col quale era stato accolto il recupero della sala dei fuochi nel vecchio complesso dell'Azienda delle Valli, ultima testimonianza della più che millenaria industria della manifattura dei pesci.
L'antico e inestinguibile amore per l'acqua si può quotidianamente cogliere alla porta di S. Pietro. Dalle prime luci dell'alba a sera inoltrata, in qualsiasi stagione, un gruppo di anziani conversa e chiacchiera appoggiato alla spalletta del ponte, o all'ombra di un rudimentale capanno, costruito sull'argine del canale che guarda la valle Fattibello, l'unica rimasta a lambire la città.

Raccontano e raccontano.
E mentre sfogliano le pagine del loro libro di memorie, gli occhi fuggono veloci a scrutare la valle.