Disordinate carte

Scritto da  Gianni Venturi
Filippo de Pisis mentre dipinge Natura morta con pane, formaggio e bottigliaFilippo de Pisis e la tentazione della scrittura

È sempre difficile interrogare le carte, i lavori, i progetti e le speranze affidati al proprio percorso personale e pubblico. Si giunge a un momento della propria vita in cui non resta che affidarsi a ciò che la memoria privilegia e che riserva alla salvezza nel naufragio della storia; quei ricordi che costituiscono l'ossatura e il senso della ricerca, quando essa può dirsi conclusa. Avrei pensato e ho pensato che uno scrittore-pittore come de Pisis non avrebbe potuto mai più essere oggetto di ulteriori riflessioni da parte mia. L'esposizione dei quadri 'feraresi', -vale a dire quelli che Ferrara possiede - mi ha procurato una sola conferma. Quella della grandezza di un pittore di cui ormai la nostra città possiede il meglio della produzione e che può esporre sicuramente consapevole che ormai de Pisis è un classico, ineliminabile dal catalogo degli artisti necessari per spiegare il senso del percorso novecentesco della pittura europea.
Ma fa ancora pensare come la 'vocazione' depisissiana alla pittura sia stata sempre contrastata (o, per meglio dire, accompagnata) da quella altrettanto forte alla letteratura. La leggenda, che non è mai tale, ma si costruisce su elementi reali e a volte banali, di un de Pisis che accanitamente conserva in una lunga fedeltà, trascinando nei suoi inquieti pellegrinaggi, da Ferrara a Roma, a Parigi, a Milano, a Venezia e infine a Villa Fiorita, le lacrime rerum della sua dedizione alla letteratura: scatole, pacchi cartelle che, come scrive Sandro Zanotto, biografo ufficiale e informatissimo della vita e delle opere di de Pisis - basterebbe
ricordare il volume conclusivo della sua ricerca, Filippo de Pisis 'Ogni giorno', edito nel 1996 dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara - presentando un inedito volume, 'cattività veneziana', 1966, scriveva: 'Nell'inquieta esistenza del pittore Filippo de Pisis continuarono a seguirlo ad ogni vagabondaggio cumuli di carte scritte, vere e proprie casse colme dei suoi manoscritti. Sono le disordinate carte rosicchiate dai topi e dalle muffe di mezza Europa che la nipote Bona, alla morte dello zio, raccoglierà assieme dai cassetti e dalle cantine di Ferrara, Parigi e Venezia per salvarle da una probabile distruzione o da una sicura dispersione.' 
Filippo de Pisis, Le cipolle di Socrate, 1927Ecco allora che quelle carte edite non proprio impeccabilmente, almeno fino alle soglie del 2000, confermano una nostalgia per la scrittura che nasce a Ferrara e che ancora nel 1951 permette all'artista di rilasciare questa estrema dichiarazione d'amore alla poesia e alla scrittura: 'Spesso mi è venuto da dire che non amo che i quadri che non ho dipinto. Amo viceversa, lasciatemelo dire, alcune liriche pressocché inedite e che, sono sicuro, troveranno un giorno il loro critico e il loro esegeta', (Filippo de Pisis, Confessioni, Firenze 1996, p.7).
Ma un dubbio, alla luce proprio di questa enorme congerie di materiale, inutilizzato, permane ed è quello della consapevolezza o non della sua qualità scrittoria tale da sentirla irrinunciabile, urgentemente necessaria. Se una ragionevole ipotesi si può avanzare (e quella che ci intriga maggiormente), è proprio il significato della casualità a cui si abbandona negli anni della maturità un così amato e prediletto modo d'espressione; una specie di fatalità che, malgré lui, lo porta a lasciare, quasi relitti o icone di un mondo perduto, i fogli su cui ha annotato il senso della sua scoperta del mondo. Non mi pare nemmeno esatto pensare che la matrice letteraria agisse da poetica interna ai suoi quadri.
È sì una verità. Ma una verità inquieta, quasi sospetta. In questo senso credo sia importante, come ha fatto in queste stesse pagine Ranieri Varese, commentando la scarsità delle immagini pittoriche di Ferrara, sottolineare come il pittore affidasse il suo senso di Ferrara alla natura morta, quasi risposta al provincialismo di una città che lo ha condannato in vita, ricercandone poi avidamente le opere dopo la gloria, una città 'morta' che lui sentiva morta e che aveva, come correlativo oggettivo, la natura morta in cui la vita, proprio perché è natura morta, splende e si afferma nell'ultimo guizzo di bellezza. Altri poeti-pittori o pittori-poeti hanno saputo differenziare la ricerca delle arti sorelle in una sorta di parallela esperienza che non ha voluto né saputo abdicare all'una o all'altra scelta di descrizione dell'io e del mondo. 
Filippo de Pisis, Natura morta -alla dolce patria-, 1932...Penso soprattutto a Savinio, ma anche a Viani, a Bartolini più che al De Chirico di un'esperienza importante, ma conclusa quale è stata quella di Ebdòmero.
In altri termini, credo vi sia stata una specie di determinazione nel lasciare inedito un tale ammasso di esperienze letterarie, quasi un'impossibilità a infrangere il cerchio magico del frammento che è poi la condanna e il fascino di De Pisis scrittore per il quale si potrebbe rovesciare la fortunata equazione di una qualità pittorica che ha bisogno di una quantità rilevante di prove; qui nell'esercizio concreto della scrittura, l'abbandono all'onda effusiva della lirica e la sensuale descrizione dell'io, sono il freno e il limite di un'esperienza che non si ammette, ma che è sostanzialmente finita.
Come già scrissi su questa stessa rivista nel 1996, l'immagine di Ferrara è affidata non tanto e non solo al gran libro 'La città dalle cento meraviglie', ma a quella determinatezza che si nota a ogni pagina di lui, ormai consapevole che il mezzo per narrare Ferrara era quasi esclusivamente la scrittura.
Come scrisse Montale - e dalle memorie risalgo a un mio intervento del 1997, apparso su 'Studi novecenteschi' per de Pisis nel centenario della nascita -quella scrittura non era 'il violon' d'Ingres di de Pisis, bensì una riserva mentale che andava caricandosi di una specie di memoria lirica per cui ciò che non si fa ('amo i quadri che non ho dipinto') significava amare ciò che rimane potenzialità, inedito o abbandono.
La scrittura come possibilità di salvezza al mestiere di pittore perché per de Pisis pittore l'Idea prevale sull'opera eseguita, sull'apparente facilità dell'esecuzione: ciò che il pittore insegue è ciò che sta dietro la pittura e che la poesia o la prosa, sempre coniugata nel frammento lirico o autobiografico, riveste di sensi altri, apre spie inquiete sulla felicità inventiva o sul pascoliano mistero del mondo. 

Filippo de Pisis, Natura morta con pane, formaggio e bottiglia, 1936...Nel 1946, presso la casa editrice il Balcone di Milano esce il volume con tutti i segni della penuria post- bellica, carta cattiva, inchiostro sbavante e refusi di prose e articoli di Filippo de Pisis, sesto della collana 'Testi e documenti d'arte moderna'.
I nomi dei volumi sono importanti, 'La pittura metafisica' di Carlo Carrà, 'I pittori cubisti' di Apollinaire, l' 'Estetica e arte futurista di Boccioni.
De Pisis sceglie nella prima parte in cui è diviso il libro 'Mercoledì 14 novembre 1917', una silloge da 'Prose' e da 'La città dalle 100 meraviglie': ciò che considerava il meglio della sua produzione ferrarese e a cui attribuiva non tanto il significato di una esemplarità dell'arte attraverso la scrittura, ma la scrittura che parla d'arte con i mezzi e con il senso che le sono propri.
Potremmo perciò concludere che per de Pisis Ferrara e la scrittura siano un binomio inestricabile. Non è un caso che proprio le 'Prose' siano illustrate da quel meraviglioso quadro, 'Le oignons de Socrate' (ma in questo libro è citato in italiano, 'Le cipollec di Socrate') che ora risplende nella mostra ferrarese a cui certamente il pittore affida il compito di svelamento o di mise en abyme della scrittura.
I saggi di «prose liriche», si chiamavano così, sono tolti dal volume 'Prose' stampato a Ferrara nel 1919. Piacquero al povero Boine e il libro è a lui dedicato.
Se Ferrara significa dunque la scoperta del mondo attraverso la scrittura, ora assume un senso ciò che mi scrisse Sandro Zanotto in anni lontani commentando i miei primi interventi su de Pisis e offrendomi materiale inedito per le mie ricerche - e questa è forse la direzione che potrebbero oggi prendere nuove ricerche sul pittore e sul suo rapporto con Ferrara- : 'Recentemente è capitata anche la grossa novità di un pacco di kg. 6,600 di vecchi manoscritti arrivati a casa mia. Il mio studio assomiglia a certe rade remote in cui i capricci delle correnti spingono sempre materiali perduti molto lontano. Credevo questi fossero manoscritti di de Pisis, invece è tutta l'opera letteraria della sorella Ernesta, cioè di quella che trovò il cognome de Pisis e pubblicò uno studio su Filippo de Pisis loro antenato. Emerge con sconcertante chiarezza come sia stata lei ad influenzare il fratello negli anni decisivi, soprattutto nelle letture filosofiche, psicologiche, mistiche ed esoteriche. I suoi diari arieggiano quelli di de Pisis, con una vena ossessiva e raziocinante che manca nel fratello. Ho fondati sospetti che 'Il verbo di Bodishattva' sia stato scritto in collaborazione, tra l'altro non avrebbe senso lo pseudonimo Barthelou [è il cognome autoriale con il quale venne pubblicato il libro n.d.r] per Filippo, quando c'era già quello di de Pisis. È morta da poco la povera Ernesta, condannata ad una provincia in cui non poté essere che una 'macchietta' maniaca' Padova 14. XII. 71.
Poteva essere dunque - e in questo la mia tesi collima con quella di Varese - anche de Pisis una 'macchietta' ferrarese ?

Filippo de Pisis, Natura morta davanti alla finestra, 1951.In anni lontani, un grande cultore dell'opera depisissiana, Francesco Guzzinati, a cui mi ha legato non solo il vincolo parentale, ma la passione per l'arte moderna da lui coltivata in maniera colta, severa e intensa, invitò a un dopo cena Ernesta Tibertelli. L'impressione, a me ancor giovane studioso del fratello, fu profonda e duratura.
Non era la macchietta che ci si aspettava o che confusamente si pensava, ma una donna di grande finezza intellettuale: non parlò mai del fratello, nonostante che davanti a lei campeggiasse una opera straordinaria dell'artista, frutto e premio dell'appassionata ricerca di mio suocero. Solo alla fine, porse una fotografia- bellissima - di Filippo con la camicia da russo, quindi nella sua veste di scrittore tolstojano.
Naturalmente la dedica era firmata Ernesta Tibertelli de Pisis.
Filippo de Pisis, Natura morta con calamaio, 1951.Sempre in quegli anni, una grande scrittrice, Paola Masino, che mi onorò della sua amicizia e che coltivò un rapporto speciale con de Pisis, ospitandolo a Roma e a Venezia, i luoghi in cui visse gran parte della sua vita con il compagno Massimo Bontempelli, m'inviò copia di lettere bellissime che lei e Bontempelli scambiarono con 'Pippo'. Un brano di questa lettera, in fondo, giustifica il senso di ciò che l'artista de Pisis provò nei confronti del sogno non risolto della scrittura: 'E non se la prenda per de Pisis. Tutti noi facciamo che accantonare e con fastidio di quanto ha attinenza con ciò che si accantona. Parafrasando Shakespeare che diceva «scrivere è smettere, smettere, smettere» si può sostenere che «vivere è accantonare, accantonare, accantonare» Roma, 18.1.70.
De Pisis ha accantonato la scrittura e ha vissuto con la consapevolezza di accantonare. Semmai, e per fortuna, non ha accantonato la sua pittura.