Le inaudite meraviglie

Scritto da  Ranieri Varese
Filippo de Pisis, Villa Fiorita (natura morta con pere), 1953.Filippo de Pisis e la rappresentazione di Ferrara 

Il rapporto di de Pisis con Ferrara è, credo, da meglio vedere ma, ovviamente non eludibile, lo è anche il collegato tema del legame della città con il pittore: sarà più esatto anzi affiancare, senza sostituirlo, al termine Ferrara quello di ferraresi. Esiste una corrispondenza fra de Pisis e Ferrara e una sua dipendenza nei confronti dei ferraresi. Esiste poi il tema del rapporto inverso, quello dei ferraresi con lui.
È naturalmente difficile e sbagliato ridurre a formule e a schemi una realtà complessa e sempre sfuggente; proviamo tuttavia a individuare alcuni punti di riferimento. Uno scrittore ferrarese, Roberto Pazzi, ha già parlato, pensando a Ferrara, del rapporto che ogni artista ha con il luogo dove è nato e vissuto.
'La comunità cittadina della provincia, soprattutto, dove il numero dei predestinati alle arti non può che essere esiguo, non ama chi sente sfuggire al consenso e alla replica del suo gusto, delle sue scelte, delle sue ritualità, chi è estraneo al suo anelito all'introspezione, al bisogno di confermarsi uguale ai compagni di viaggio, pago delle opportunità offerte dall'ambiente dove si è nati'.

In primo luogo, mi pare di potere dire che esiste una conoscenza da parte di de Pisis della città, un modo particolare di conoscenza, che egli rende pubblico per potere essere accettato dai propri concittadini. Per ottenere il riconoscimento che vuole e che pensa gli spetti, che anche noi crediamo gli sia dovuto, si farà storico e custode delle memorie locali. Donerà al Museo di Faenza la propria collezione di ceramica graffita: un modo di additare, nell'unica sede allora possibile, una gloria ferrarese. Regalerà l'erbario, ove sono raccolte le specie regionali, alla Università di Padova. Anche in questo caso, come per Faenza, costruisce una occasione per fare conoscere, attraverso di lui, Ferrara, le sue raccolte, i suoi pregi.
Si pone come necessario mediatore per la ricognizione della città. Lo impegna l'esercizio della miniatura, un'arte poco studiata, se non da specialisti: l'Hermann aveva pubblicato nel 1900 un famoso saggio su quella estense. Dedica il proprio tempo a ricerche storiche ed erudite, ad autori poco noti, dal Sarti al Dielay al Bastarolo. La sua tesi di laurea verterà sulla pittura ferrarese, dagli inizi sino al Quattrocento.
Tutto questo indica una considerazione non trionfalistica della storia della città. Non si confonde nel mito estense, non si annega nel gorgo enfatizzato del XVI secolo, ma preferisce temi laterali, ambiti poco noti, ricerche che vogliono sommessa pazienza piuttosto che brillanti narratori. È il rifiuto della gloria di Ercole d'Este e di Garofalo per fare emergere momenti ignorati. Ma questo non poteva piacere ai suoi concittadini i quali, invece, concorrevano tutti per identificare e fare identificare Ferrara con il fulgore dell'aquila bianca estense e che trovavano una ?bizzaria?, la quale si affiancava alle molte altre che rimproveravano al pittore, quell'indagare episodi ritenuti trascurabili. 
Da Roma, nel 1923, de Pisis scriverà ad Agnelli: 'Qui in un corso di conferenze ho cercato di glorificare Ferrara, la Ferrara della Rinascenza[...] I Ferraresi dicono che 'non ò equilibrio' e che sono 'un pazzoide' e 'uno sciocc', io lavoro nell'ombra per ora, per poi porre luce in varie cose'.
'Ferrara poi, la pentagona città dove son nato, è davvero un terreno fertile di dilettevoli meraviglie per l'uomo sagace. 'Chi à visto Siviglia, à visto meraviglia', dice un vecchio adagio spagnolo, ma chi à visto Ferrara à visto anche di più'.
'Illusione! Resteranno però ad attrarre la mia doviziosa ed acuta curiosità le inaudite meraviglie di questa città'. 'Bandiera italica, strano fiore medianico, eppure tanto gustosamente locale, che direbbe, nel vederti, l'abate Manini Ferranti o Ercole Sarti pittore detto il Muto di Ficarolo? o Giovan Antonio detto il Dielay? miei vecchi amici, morti da secoli? '.
Fa propria la convinzione, che è del suo tempo, del pri mato della rinascenza, ma ne scavalca i momenti topici, e la sua attenzione scorre dagli affreschi di Sant'Antonio in Polesine alle sculture di palazzo Camerini, del canoviano Marco Casagrande.
'Le sue mani sono grassoccie, lattiginate, e portano piccole gemme rare. Ha i capelli tagliati a zazzera, come quelli di un paggio medievale. I suoi occhi bruni sono leggermente falcati, l'iride è d'acqua marina, la bocca è un delizioso frutto piccino di un rosso innaturale. Essa degusta deliziosamente a occhi stretti la tua sorpresa, il tuo leggero imbarazzo, ha arrovesciata una mano su un fianco (tu noti che i suoi fianchi ànno già una squisita rotondità) sembra dirti: 'Ebbene, babbeo, non ti decidi? '. Tu forse pensi ad una piccola Erodiade curiosa vista in un affresco trecentesco in un misterioso convento di Benedettine costrutto sulle antiche ghiaie del Po, e un tempo ricchissimo'.

'La strada consolante' è via Piopponi, ma non è la 'via trionfale' percorsa dai cortei rinascimentali che dalla porta della città si avviavano al castello: 'da una tetra finestra vedevo contro l'azzurro tropicale del cielo il timpano candido di questo palazzo. Le figure canoviane in esso scolpite sembravano muoversi a pena con gesti leggiadri e un po' lassi. Io pensai (certo con una punturina in cuore) alle belle statue greche in marmo cipollino e mi sentii pesare il respiro. È forse in ricordo di quell'attimo di estasi ch'io, quando non so dove andare a passeggiare mi ritrovo in questa strada solenne? ' Le testimonianze del rinascimento lo attirano quando sono divenute rovine e ruderi: 'La gran via dla giara, nell'albe nebbiose, nei fondi meriggi, in cui bala la vecia, con le sue case scolorite, i suoi palazzi patrizi, i suoi interni verdi, corre corre verso la delizia di Ludovico il Moro (oggi sembra un rudero della nostra fulgida Rinascenza) corre verso il rosso arco di pietra eretto da un Giudice dei Savi'.
Oltre trenta sono i titoli di testi di de Pisis, omaggio dell'autore, conservati nella Biblioteca Ariostea. È il conte Filippo Tibertelli de Pisis ferrarese che vuole essere presente nel luogo che conserva la memoria della città e di chi vi ha intellettualmente operato. Rivendica la sua ferraresità: 'La città che mi ha dato i natali', nella quale vive, alle cui istituzioni partecipa.
'Ai suoi piedi [della Vergine] io in ginocchio a mani giunte indossando la veste di confratello della S.S. Stimmate (antica e gloriosa confraternita di Ferrara alla quale ò l'onore di appartenere)'. Cavaliere: 'In realtà il titolo mi compete come patrizio ferrarese e pisano, ma non voglio che si confonda con quello di cavaliere della corona d'Italia'.

Tenta perfino, goffamente, di rendere omaggio al fascismo vittorioso, ma lo fa senza una ragione politica, per essere eguale agli altri, scriverà: 'Oggi le cose sono ben mutate. Il motore, la luce, il movimento, il marmo e l'acqua, il ferro e l'acciaio, la sterilità del cuore umano che tende a un nuovo ellenismo politico e sportivo, tendono a relegare la pittura, la bonne peinture, fra le cose inutili'. 'Da qualche tempo, nei limpidi cieli delle mie Nature morte marine dipingo (un legger frego nervoso) uno, due, tre aeroplani. Aviazione italiana'.
È una non richiesta captatio benevolentiae; corrisponde all'amore che Tonio Kröger ha per Hans Hansen e Ingeborg Holm: 'Chi ha, pensava, occhi così azzurri, chi riesce a vivere come te, così in ordine e in felice armonia con tutto e tutti? [...]Essere come te. Non faceva alcun tentativo di diventare come Hans Hansen, e forse quei desideri non erano poi tanto seri. Ma ambiva di tutto cuore, così com'era, di essere amato da lui, lottava per il suo amore, a modo suo[...]'.
A Parigi, nel 1926, concede un'intervista che scatenò una polemica massiccia sul 'Corriere Padano' di Ferrara. Dall'articolo del giornale francese pareva che Gigi si fosse espresso con ironia sul fascismo. 'Mi mossi [parla il fratello Pietro] in sua difesa per contentare la mamma. Per fortuna Italo Balbo, il vecchio compagno di scuola e di giuochi, intervenne garantendo che Gigi non s'era mai occupato di politica[...]'.
È chiarissima una lettera di Donato Zaccarini a Gualtiero Medri, pubblicata da Gianni Venturi e datata 1918: '[...]Di de Pisis potrei scriverti molto, ma per non essere prolisso ti dirò che dopo le molte 'figure' fatte, tanto da rendersi assai spesso ridicolo, ha appreso ad essere un po' meno 'gesuita'. Ti dirò per darti qualche esempio che ha manifestato più volte, ed a parecchie persone, il desiderio di essere nominato socio della Dep. di Storia Patria, carica del resto insignificante, ed ha ottenuto sempre l'effetto di allontanarsi dalla possibilità di entrare in quel consesso. Ultimamente furono portati in Consiglio Comunale parecchi nomi per la scelta di un membro mancante a comporre la 'Commissione Comunale di Belle Arti'. Mi sembra di averti scritto che fui nominato io stesso. Mi scrivono da Ferrara che qualcheduno fece il suo nome ottenendo un successo di ilarità, tanto basta per farti comprendere quanto poco criterio abbia dimostrato de Pisis in parecchie occasioni nelle quali avrebbe invece potuto farsi onore'.

Credo però opportuno smettere di continuare a fare emergere le ancora molte citazioni che è possibile estrarre dai testi e che riguardano una relazione indubbia e ininterrotta. Penso che insistere in tale ricerca possa portare a errori e fraintendimenti. È una imposta zione corrosa dal contingente, dall'aneddoto; non restituisce, se non con eccessiva parzialità e a frammenti, la soluzione culturale che de Pisis ha assunto e che sostanzia, al di là di ogni effimero episodio, un tema che è diacronico nell'opera del pittore.
Esiste un luogo comune (a mio parere mai reale, se non per quelli che vi hanno creduto) che ancora oggi viene riproposto e che era largamente diffuso negli anni in cui visse de Pisis: Ferrara città del silenzio, città morta, città dei morti. De Pisis lo fa suo, vi crede profondamente. È inutile citare i molti, dal De Brosses al De Leris, da Carducci a D'Annunzio, che hanno contribuito a costruire questa immagine. Basti Corrado Covoni, amico e sodale di de Pisis (S. Canotto, 1996); i versi: 'vecchia città morta' 'Era là lontana e magnifica' 'col castello rosso nell'acqua / in cui si specchiava / la luna di calcina dell''orologio', corrispondono a parole e a convinzioni dello stesso de Pisis, il quale, non a caso, sceglie come epigrafe per la sua 'Città dalle cento meraviglie', un versetto di Geremia: 'facta est quasi vidua omnia gentium'..
Rarissimi sono i quadri di de Pisis che rappresentano Ferrara. Ne conosco solo uno in collezione Bona de Pisis, 'Piazza Ariostea'; anche alla mostra ferrarese non ve n'è alcuno. Lo stesso dipinto che egli donò alla città, 'Alla dolce patria', 1932, Civica Galleria d'Arte Moderna, è una natura morta, non un altro soggetto.
È possibile partire da questo per alcune sintetiche riflessioni e proposte ? 
La pittura di de Pisis è fascinosamente monocorde, non ha evoluzioni. Le tante nature morte hanno una loro storia interna, ma non vi è né modifica né superamento. Non è un giudizio negativo, basti pensare alla pittura di Morandi. Egualmente splendida, ma chiusa in una dimensione immutabile, priva di sviluppo come egli pensa sia la città, è la serie delle nature morte dipinte da de Pisis: una continua variazione sullo stesso tema. In ogni istante, il pittore è, volutamente e dichiaratamente, narratore di se stesso e di Ferrara. A un certo momento della sua storia, sceglie, se pure con rimpianti ed escur sioni, di essere pittore e non letterato, di esprimersi per immagini non per parole, ma non mutano i temi né abbandona quello di Ferrara immutabile e 'nobile' 'senza torri e senza alture'. Non esistono rappresentazioni di Ferrara, ma molte ve ne sono delle città che egli ha abitato e frequentato: Roma, Milano, Parigi, Venezia. Non è quindi la ripulsa a raffigurare momenti urbani che motiva tale assenza, altre saranno le ragioni da ricercare.
Perché manca Ferrara ? È davvero assente o piuttosto non è stata riconosciuta ? Credo esista un problema di identificazione. È banale, ma forse non inutile, ricordare che il linguaggio figurativo ha le stesse possibilità di sensi e di significati di quello verbale. L'unico limite è il grado di possesso di chi lo utilizza.
Non dobbiamo farci fuorviare da troppo facili iconografie. La mimesi, la restituzione ha due aspetti. Quello più semplice ed esterno della immagine che riconosciamo per la aderenza, più o meno riproduttiva, a un modello esistente, che possiamo direttamente controllare e verificare.
L'altro, più difficile, ma più vero, è la resa della essenza non effimera di quanto si vuole raffigurare; la ricreazione, in termini formali, di una identità. Non la copia di quanto già esiste: non è un problema di iconografia, ma di cultura e di comprensione. Non si tratta di dipendenza e traduzione da un'altra realtà, ma di costruirne una autonoma che abbia, a sua costituzione, le caratteristiche essenziali della situazione intellettuale che vogliamo indicare. Se tale assunto è, come so, praticabile e possibile, allora il legame e il rapporto con la città va cercato dove unicamente può essere ritrovato: non in scelte iconografiche, ma formali. Ferrara, per de Pisis, è città morta, in dissoluzione: i dipinti che compiutamente esprimono tale consapevolezza sono quelli di natura morta. 'Una bella natura morta, ripiena di quel segreto spirito che sa di eterno'.
Nelle nature morte vi è la sofferta rappresentazione di quella che de Pisis riteneva la essenza della dolorosamente amata Ferrara. La natura morta è vanitas, richiamo alla fragilità, alla morte, al silenzio, al disfacimento: tutte qualità che segnano la 'città pentagona', la rendono seducente ed elusiva. Appare in questo modo anche una precisa corrispondenza delle immagini con le notazioni verbalmente espresse. Ferrara, amata e proprio per questo incompresa, viene ridotta alla sua aura non contingente al suo segno morale, al suo lento perire: rinasce nelle nature morte. È la natura che de Pisis dipinge, dall'inizio alla fine della sua vita, col sentimento 'della malinconia che ci dà la caducità delle belle cose colorate' come dirà parlando insieme di un suo quadro e di Ferrara.
Il problema del rapporto di de Pisis con Ferrara sta nella sua pittura; ogni altra dichiarazione è solo indizio, tentativo di spiegazione compiuto con strumenti non congeniali e quindi riduttivi di quanto, invece, con tanta chiarezza ed essenzialità, è espresso attraverso le immagini, le quali non sono, non possono essere, la rappresentazione di luoghi riconoscibili, ma hanno lo scopo di ridare il senso della città nei termini con i quali lo aveva compreso e assunto.
I ferraresi non si riconoscono in tale immagine, nella sua normalità la città ufficiale ne rifiuta anche il segno. Ferrara tuttavia resta e il suo ritratto, vivo nella realizzazione artistica, è proprio nella serie delle nature morte, in quella ininterrotta variatio che ha reso reale una città altrimenti mai esistita.

[Estratto da Critica d'Arte Casa editrice Le Lettere n. 1 - 1999]