Oggi, quasi le stesse domande Benedetto XVI le rivolge ai rappresentanti delle comunità islamiche nel mondo, dopo l'incomprensione di Ratisbona, mentre il Medio Oriente è incendiato e tutta l'Africa è sotto lo scacco della violenza e della fame. Erano certamente tempi diversi, ma se riflettiamo non possiamo non constatare come le apprensioni di Paolo VI e quelle di Benedetto XVI abbiano ambedue dimensioni epocali: è la Chiesa cattolica che cerca una riconciliazione: con la modernità prima e, quarant'anni più tardi, con l'Islam sconvolto dalla guerra.
Erano certamente tempo diversi, ma i problemi a mio avviso avevano valenze simili.
Paolo VI voleva recuperare il mondo della cultura e dell'arte, dopo aver subito il divorzio dichiarato dal Secolo dei Lumi ai mille anni di grande arte patrocinata dalla Chiesa. Voleva garantire a quel patrimonio immenso continuità e uno svolgimento ulteriore: l'arte e la cultura erano l'ornamento essenziale alla eternità della Chiesa: abbiamo bisogno di voi era il suo appello e la sua chiamata.
L'hanno ascoltato in pochi. Ma quella voce accorata non è stata lasciata senza riposta.
Si è salvato un sottile filo rosso del grande tessuto della Chiesa che intrecciava il suo ordito con le opere degli artisti, un filo rosso che ha legato quelle parole a sensibilità ugualmente travagliate e angosciate.
Ne sono nate meditazioni profonde sulla situazione dell'uomo nel mondo, spesso drammatica e senza scampo in ogni angolo della terra: dove il benessere ne calpesta l'anima e dove la miseria e la fame ne calpestano e ne annullano la dignità.
Questa condizione che pare tuttavia aggravarsi ha trovato la sua icona nella croce e nell'uomo crocefisso. Attorno a questa immagine, divenuta centrale nel pensiero pittorico degli artisti che si sono riconosciuti nelle parole di Paolo VI, va riformandosi lentamente una struttura di attenzione forte che ha in quel tenue filo la sua riconoscibilità e gli artisti che ne hanno seguito le sollecitazioni rispecchiano in essa la loro denuncia e ne fanno motivo della loro presenza e della loro voce nel mondo.
Fra questi artisti, che hanno in Bill Congdon, in Giovanni Testori, in Pier Paolo Pasolini le loro figure maggiormente rappresentative, va collocato anche Paolo Baratella il quale non è certamente un pittore da arte sacra.
Il suo itinerario, descritto da lui stesso, lo vede infatti fra i grandi protagonisti del '68 a Parigi, a Berlino, a Milano, negli anni e nei luoghi del furore giovanile. Quella icona drammatica del crocefisso che lui identifica, senza esitazione, nel trittico di Isenheim di Mathis Grünewald (la 'bestemmia' secondo il Testori critico delle arti, rispetto alle immagini vereconde dell'arte sacra) è infatti uno dei 'segni' ricorrenti che compaiono nelle sue installazioni e nelle sue pitture/narrazione lunghe metri e metri di tela dipinta.
Una icona violenta dove «la pittura è riuscita a far salire i propri mezzi e i propri strumenti espressivi ai vertici», ma dove si traduce in sintesi drammatica tutto il male del mondo a cui sono condannati gli uomini.
Paolo Baratella cresce a Ferrara: gli spazi spogli e deserti della chiesa di Santo Spirito, la scoperta della città vista da via Bellaria e via Montebello, la scuola d'arte, Milano, la fantasia accesa lo conducono ai sogni segreti della pittura come sostanza della vita.
Un occhio vigila attento e lo segue con affettuosa amicizia. Intuisce la carica che quel ragazzo porta con sé e gli compra il primo quadro. È un giovane prete, don Giulio: il suo occhio è raffinato, il suo intuito infallibile. Mentre segue negli anni le gesta di Paolo nel mondo, lui diventerà Vicario episcopale della Diocesi di Ferrara-Comacchio e avrà in carico oltre ai gravosi compiti istituzionali, quello di seguire per quasi cinquant'anni la diatriba infinita, e alla fine inutile, della ricostruzione della Sagrestia della Cattedrale dopo la sua distruzione provocata dalle bombe alleate.
Credo sia stato per lui uno degli impegni più gravosi a cui però, con una decisione drastica assunta in circostanze favorevoli, pose finalmente fine. La Sagrestia venne ricostruita 'umile ma polito completamento della gloriosa Cattedrale' e sul suo soffitto bianco monsignor Giulio Zerbini volle potesse mettere le mani per 'colorarlo' solo il suo antico allievo e giovane speranza della pittura, Paolo Baratella, diventato intanto nome non solo nazionale e protagonista dei movimenti e delle ricerche della pittura italiana nei decenni conclusivi del 'Secolo breve'.
Purtroppo monsignor Zerbini ebbe solo la gioia di vedere gli studi preparatori che Baratella elaborò in attesa di avere il via alla realizzazione della grande avventura: immaginare e realizzare un'opera di pittura, un'opera d'arte tout-court a pochi metri di distanza dal respiro ampio del Giudizio Universale del Bastianino nel catino della grande abside. Una sfida entusiasmante. Davanti a quei disegni presentati in una piccola mostra all'interno della Sagrestia nel giorno della benedizione del luogo, i due protagonisti di quella grande sfida si guardarono a lungo negli occhi, commossi. Era l'ultima volta che monsignor Zerbini incontrava il suo 'fratello minore' che stava ormai attingendo i settant'anni di età. Il tema che Paolo Baratella affronta sul soffitto cuspidato della Sagrestia è la Storia della Salvezza: dalla Annunciazione, alla Natività, alla Crocifissione, alla Resurrezione.
Lo affronta con il piglio del grande narratore, da maestro della 'figurazione critica'. La sua scrittura pittorica corre costantemente su due possibili percorsi 'una identità poetica che sempre muove verso compiutezza e inviolabilità e una identità prosastica che è ininterrotta esplorazione ed elaborazione dell'incondito e del non ancora avvenuto e dunque sfida e ricerca'. Questa definizione che Franco Fortini dà delle scritture letterarie è propria del lavoro di Baratella il quale fa concludere i due percorsi nel crogiuolo della materia incendiata. Il suo cielo è squassato da venti impetuosi di azzurro intenso che generano le figurazioni e danno loro sostanza quasi fosse il vento dello Spirito che soffia dove vuole e rende la forza materica della croce dominante su tutto. È la stessa croce dell'altare di Isenheim che compare, con il Cristo crocifisso icona eterna del dolore, della sofferenza, della morte dell'uomo al di là di ogni ideologia.
Ma è lo stesso vento dello Spirito (l'identità prosastica citata da Fortini) che opera le trasparenze della Resurrezione dove il Cristo che sale al cielo è quasi senza materia, fatto solo di luce che sfolgora sull'azzurro che lo trapassa. È la stessa luce che penetra dalla vetrata posta di fronte all'altare e che Baratella ha disegnato pensando certamente a quello che avrebbe fatto sul soffitto.
In certi momenti della complessa figurazione pare fino che domini la poetica dell'eccesso, tanto è intensa la carica simbolica delle varie parti del dipinto tessuto dalla presenza di un rosso materico (il rosso del cotto, forse?).
I simboli connotano tutto il discorso pittorico: dalla irruzione dello Spirito che scardina tutto nella prima stazione, all'angelo di Rilke, ai saggi della Grecia classica visti come i Magi, al serpente con Adamo ed Eva ai piedi della Crocifissione, al corvo sul capitello, simbolo alchemico della Novità, del passaggio dal buio alla luce nella stazione della Resurrezione.
Cosmé Tura e le figurazioni dei Maestri dell'Officina sono i grandi protettori del disegno delle forme perché «essere moderni significa innanzi tutto avere coscienza di un immenso bagaglio di valori e di identità a cui attingere? per dislocare questo patrimonio nella contemporaneità» (Germano Celant).
Questa la grande avventura 'contemporanea' costituita dalla pittura di Baratella collocata nella gloriosa Cattedrale di Ferrara, ricca di quasi mille anni di storia, auspicata e voluta da monsignor Giulio Zerbini. A essa, in conclusione, mi pare si addica quanto Holzinger nel 1961 diceva della Crocifissione di Isenheim: «Tutto è animato e irradia correnti nello spazio, colore, materia, gesto, sguardo, anima. La padronanza dello spazio rende visibile il suono, il grido».