Un premio che sottolinea un aspetto fondamentale di tutta l'opera del regista ferrarese, riconosciuto come un grande maestro in tutto il mondo: la creatività, appunto, che è espressione del suo sguardo profondo sull'umanità e sul mondo.
Che prende vita già nel suo documentario d'esordio al cinema "Gente del Po", iniziato nel 1943 e terminato nel 1947, a causa delle vicende belliche. Inizia così, con un viaggio sul Po, quell'esplorazione del paesaggio in simbiosi con l'umanità che sarà alla base dell'intera opera di Michelangelo Antonioni.
Un autore che credeva nella capacità di cogliere la verità nelle cose e nella gente, così come testimoniano altri suoi documentari: "N. U." (Nettezza Urbana, 1948), dedicato al lavoro dei netturbini di Roma; o "L'amorosa menzogna" (1949) incentrato sul fascino e sul seguito popolare dei divi dei fotoromanzi dell'epoca, dal quale trasse ispirazione per il soggetto di un film - "Lo sceicco bianco" - che, per contrasti sorti sulla impostazione del racconto, sarà diretto nel 1952 da Federico Fellini.
Uno sguardo pieno di curiosità, quello di Michelangelo Antonioni, che, per quanto riguarda ancora i documenis tari, va in un paese delle Marche a indagare, in "Superstizione" (1949), le credenze popolari legate alla stregoneria, e in "Sette canne un vestito" (1949) la fabbricazione del rayon in una nota fabbrica triestina. O lo porta a visitare "La villa dei Mostri" (1950), a Bomarzo (vicino a Viterbo), il cui parco ospita i celeberrimi mostri cinquecenteschi di pietra, o a esprimere l'impressione di vertigine dei viaggiatori in "La funivia del Faloria" (1950). Uno sguardo di osservatore della realtà che lo porta in Cina per realizzare, nel 1972, "Chung Kuo (Cina)" e che continua anche dopo la malattia, un ictus che lo ha colpito nel 1985, come testimoniano "Kumbha Mela" (1989), che raccoglie le sue impressioni sulla più importante festa religiosa indiana, "Noto Mandorli Vulcano Stromboli Carnevale" (1992) girato in Sicilia, e "Lo sguardo di Michelangelo" dedicato allo sguardo di un altro grande maestro, Michelangelo Buonarroti, autore del Mosè che il regista perlustra con grande commozione.
Un'esperienza, quella dei documentari, che porta Antonioni nel 1950 a esprimere nel primo lungometraggio la sua capacità di analizzare profondamente i sentimenti: "Cronaca di un amore", ambientato nell'alta borghesia milanese di cui è evidenziato il vuoto interiore. L'inquietudine dell'esistenza, scavando dentro i personaggi, è narrata in altri suoi film: "I vinti" (1952), in cui mette in risalto la mancanza di etica della giovane generazione di quel periodo; "La signora senza camelie" (1953), sul mondo effimero del cinema; "Le amiche" (1955), ispirato al racconto Tra donne sole di Cesare Pavese, sul mondo fatuo della moda; "Il grido" (1957) in cui ritornando al paesaggio della sua infanzia, quello degli argini del Po, racconta una storia in cui la mancanza d'amore porta il protagonista dalla disperazione fino all'epilogo del suicidio.
La sua analisi dei sentimenti, o meglio la "malattia dei sentimenti" come lui stesso la definì, è poi ampiamente espressa in quattro film: "L'avventura" (1960), "La notte" (1961), "L'eclisse" (1962), "Il deserto rosso" (1964).
In questa tetralogia, come ne "Il grido", grande importanza, nella crisi che attanaglia i protagonisti, assume l'ambiente in cui essi vivono. Se ne "Il grido" è la pianura padana, in "L'avventura" è il paesaggio siciliano, in "La notte" ancora l'ambiente arido della borghesia milanese; in "L'eclisse" l'ambiente caotico e alienante creato dal neocapitalismo come è ben espresso nelle sequenze relative al gioco in Borsa o nel finale del film girato nei nuovi quartieri razionali che stavano sorgendo nella zona dell'Eur a Roma. E in "Il deserto rosso" l'alienazione di un mondo dominato dalle fabbriche.
Al centro di tutti i suoi film, il rapporto uomo-donna che è indagato poi in "Identificazione di una donna" (1982), in "Al di là delle nuvole" (1995) e nell'episodio "Il filo pericoloso delle cose" del film "Eros" che comprende anche gli episodi diretti da Wong Kar Wai e Steven Sodebergh.
Con "Blow up" (1966) Antonioni trova all'estero l'ambientazione per descrivere alcuni temi ricorrenti dei film precedenti, innanzitutto l'alienazione. E lo fa con gli occhi di un autore alla ricerca di una realtà che a volte è solo apparenza. Significative, in questo senso, le sequenze relative al fotografo che segue una coppia: sembra che non accada nulla di particolare, ma poi, ingrandendo in studio le foto scattate, scopre che c'è stato un delitto.
Oppure quella finale in cui dei mimi simulano una partita a tennis senza pallina, che pure lo spettatore ha la sensazione sia presen-te in campo. E l'illusione della realtà continua, poiché il regista ci mostra una giocatrice che invita il fotografo a raccogliere e rilanciare l'inesistente pallina nel campo da tennis da cui era uscita. Ma anche in "Professione: Reporter" (1975) dove il protagonista vive un rapporto illusorio con la realtà al punto che decide di cancellare la propria identità, di eliminare il proprio passato e il proprio presente e di provare a vivere la vita di un altro.
In questo film vi è una sequenza diventata subito celebre: è quella finale di sette minuti in cui Antonioni, nel mettere in discussione il rapporto tra realtà e rappresentazione guida la cinepresa da un interno verso l'esterno con un'invenzione narrativa geniale. Per girare questo piano-sequenza è andato alla ricerca di una macchina da presa particolare, d'invenzione canadese, che è stata montata su una serie di giroscopi e agganciata a una gru alta oltre trenta metri.
La creatività di Antonioni, infatti, si è espressa anche nell'aspetto formale del cinema. Antonioni è sempre stato molto attento al modo con cui esprimere le idee, i racconti e il linguaggio usato è sempre stato innovativo. La sua attenzione alla sperimentazione del linguaggio cinematografico ha momenti di particolare importanza in "Il deserto rosso" (1964), dove usa il colore in forma espressiva, e in "Il mistero di Oberwald" (1980) in cui, per primo, dirige un film girato con telecamere a colori e trasferito poi su pellicola: un esperimento derivato dalla convinzione, come in effetti si è poi verificato, che l'elettronica avrebbe costituito il futuro del cinema.
Memorabile è poi la sequenza finale di "Zabriskie point" (1970), quella in cui Daria, dopo la straordinaria relazione con Mark, apprende, mentre si reca alla villa del suo datore di lavoro, che il giovane è stato ucciso dalla polizia che lo inseguiva per aver rubato, per gioco, un piccolo aereo da turismo. Immagina, quindi, l'esplosione della villa con il volteggiare in aria, ripetutamente, degli oggetti del consumismo moderno; in un'America repressiva, come è sottolineato nella scena iniziale del film, in cui si assiste a uno scontro tra studenti e polizia.
Girata con 17 macchine da presa speciali, la sequenza si impone per la grande forza inventiva e visiva oltre che per il messaggio sociale che esprime. Antonioni, infatti, ha incrociato nei suoi film, in maniera inimitabile, storia, tecnologia e pensiero, con lo sguardo di un poeta della visione.
La creatività di Michelangelo Antonioni si è espressa anche nella letteratura e, soprattutto, nella pittura con la serie "Le montagne incantate" e con i dipinti esposti nell'ottobre 2006 a Roma dal titolo "Il silenzio a colori". Quel silenzio che ha permeato di poesia tutto il suo essere artista, un artista senza compromessi, caratterizzato da scelte coraggiose espresse con grande rigore stilistico.