Senza dubbio la ricostruzione dell'itinerario di Bighi non può che partire dal suo arrivo a Milano, nella iperattiva, frenetica, vivacissima metropoli, verso la fine degli anni Cinquanta.
Qui Bighi avvia il suo fecondo lavoro di grafico pubblicitario, che gli consente di essere ben presto inserito negli ambienti economici, culturali, artistici della grande città, e non solo.
Nel 1960 è già noto come ideatore del marchio del caffè Illy, cui seguiranno immagini, loghi, campagne coordinate di diverso calibro; ci piace ricordare che in questi anni Dante Bighi consegna alla propria terra d'origine alcuni marchi innovativi, rivoluzionari per l'epoca: il logo dell'Eurofrut (1962) e quello della Camera di Commercio di Ferrara (1964).
Ma la sua curiosità, la sensibilità verso altre forme di espressione, soprattutto verso l'arte contemporanea, lo portano a conoscere e a intrattenere relazioni frequenti con gli esponenti di punta della avanguardie artistiche, sin dai primi anni della sua attività. Proprio a una mostra di Yves Klein, Bighi conosce una delle figure destinate a segnare maggiormente il suo percorso: Pierre Restany, all'epoca animatore e consulente delle più prestigiose gallerie di Milano. Insieme realizzeranno un sodalizio, destinato a durare negli anni e a produrre lavori di grande significato e spessore.
Intanto, è bene ricordare che l'attenzione di Bighi verso l'arte non è solo una curiosità da collezionista (caratteristica questa, che egli ha assunto, in forme del tutto originali, però), quanto il desiderio di farsi parte attiva, di collaborare - da grafico, da uomo di marketing - alla promozione e alla valorizzazione di quelle raccolte, gallerie, atelier, attraverso la realizzazione di materiali volti a presentare, secondo canoni raffinati e decisamente inediti, gli artisti presenti con le proprie opere.
Lo stesso Bighi, in un'intervista con l'amico Restany, ricordava volentieri quel periodo e quel tipo di lavoro con le gallerie, ammettendo il notevole contributo, l'incentivo che gli artisti contemporanei fornivano al suo impegno di grafico, stimolandogli nuove soluzioni, riflessioni non banali, spunti interessanti. L'influenza che le avanguardie artistiche - soprattutto alcuni autori particolarmente vicini al suo sentire - hanno su Bighi non si manifestano soltanto nell'offrirgli materia sempre viva e stimolante per il suo lavoro, ma contribuiscono a suscitare in lui idee e progetti grandiosi, di natura "poetico-culturale", come amava definirli Restany, che con lui condivise gran parte dell'avventura - fallita, ma non per questo meno intrigante e affascinante - del Capricorn Logbook.
L'idea, nata nel 1974, ruotava attorno a un progetto planetario: dieci artisti del Nord del mondo avrebbero dovuto recarsi nell'emisfero Sud, fermandosi nei luoghi più significativi della cultura australe per esprimersi artisticamente, con lavori che sarebbero entrati a far parte, appunto, del Logbook, contenitore delle loro testimonianze, tappa dopo tappa, oggetto multiplo con tiratura limitata, praticamente un grande parallelepipedo di 15 metri cubi (5 metri x 3) comprendente opere di Rauschenberg, Jasper Johns, Christo, César, ecc.
L'operazione non riuscì, ma la preparazione del progetto, i viaggi nei luoghi destinati a ospitare gli artisti, le idee maturate e a lungo discusse, diedero lo spunto per la realizzazione dell'altro grande sogno di Bighi: un gigantesco libro fotografico che mettesse al centro l'immensa ricchezza dei luoghi religiosi del "continente" indiano.
Nacque così India prega, del quale Restany scrisse i testi poetici di accompagnamento alla bellissima rassegna di fotografie, realizzata da Bighi durante i diversi mesi da lui trascorsi in India. Bighi non era nuovo all'esperienza dei "grandi libri"; in precedenza aveva realizzato il volume Elogio alla pianura (1971) - che con uno stile grafico sgranato e contrastato e la scelta di un formato orizzontale (18 cm di altezza per 52 di base) rappresentava un oggetto simbolico molto forte - e, di dimensioni ancor più ragguardevoli, Milano vive (1973), comprendente immagini della città, all'interno di un volume di un metro di altezza per 35 cm di base, con l'intento di legare intimamente le immagini di Milano al suo edificio più rappresentativo: il grattacielo. La copertina era di vetro temperato.
Tuttavia, India prega rappresenta una importante novità nell'attività di Bighi, in quanto è realmente il primo libro con fotografie scattate dallo stesso Bighi. È anche l'evoluzione di un'idea di libro-oggetto, che nel caso di India prega diviene il prodotto di rapporti e relazioni molto costruttive con gli artigiani del posto. Questa volta, infatti, le immagini sono di un metro di base per 70 cm di altezza e sono racchiuse in un volume la cui copertina fu creata a Bangalore da abili ed esperti incisori del legno.
A questa impegnativa realizzazione seguì un secondo grande volume, India prega 2, completato e pubblicato in pochissimi esemplari soltanto nel 1984, frutto di un secondo viaggio, nel corso del quale l'attenzione di Bighi si concentrò sulle personalità religiose del subcontinente indiano.
Sempre lungo la strada del grande documento fotografico, Bighi avvia, a partire dai primi anni Ottanta, la collaborazione con la Marina Militare; si inaugura così la serie dei grandi libri sulle navi militari.
Il fascino esercitato su Bighi da situazioni difficili, estreme, da ambienti lontani dalla quotidianità lo conducono a realizzare, poi, il volume I Moai, che riprendono le mitiche, enormi sculture dell'isola di Pasqua. Gli ultimi vent'anni lo vedono dunque impegnato sui due diversi fronti dell'attività di grafico e di fotografo "viaggiatore", seguendo percorsi solo apparentemente divergenti. Non solo, prosegue incessante anche il suo impegno nei confronti dell'arte, sia sotto l'aspetto del collezionismo personale, della raccolta di opere di autori contemporanei - oggetto poi di una sua generosa donazione al Comune di Copparo - sia per quanto riguarda la personale creazione di opere, di oggetti artistici.
Ricordiamo, tra le sue prime produzioni, le cosiddette "spremute di carta stampata", compressioni in carta di giornale, presentate in superfici piatte, e - successivamente - le "bacheche di plexiglas", contenenti oggetti-testimone di diversa natura (attrezzi, ossa, sassi, ma anche francobolli, pietre per scolpire, ecc.): una sorta di "catalogo" della memoria.
Alla base di tutta questa multiforme attività, che definivamo "apparentemente divergente", sta invece - crediamo - un sostrato comune che bene viene illustrato da Restany quando afferma, rivolgendosi allo stesso Bighi: «il tuo lavoro artistico è sempre influenzato dalla professione di grafico, così come il modo con cui impagini una rivista risente sicuramente del tuo essere fotografo.
[Il nocciolo è questo] ... la forte connessione logica che intercorre fra tutta la tua opera e la formazione e sensibilità di designer grafico.»
Una formazione e una sensibilità, dunque, dai caratteri profondamente unitari, riconducibili a quella che lo stesso Dante Bighi chiama, con efficace sintesi, "professionalità poliedrica", capace di riflettere il proprio intimo. Al fondo di tutto, potremmo dire, sta il personalissimo stile di Bighi, una modalità espressiva asciutta ed essenziale, che bene rappresenta la sua esigenza di offrire un mondo di immagini fortemente caratterizzate da oggettività, limpidezza, pulizia, sobrietà, nella grafica come nella fotografia, nell'astrattezza delle forme geometriche come nel calore dei paesaggi e dei monumenti immortalati.
Secondo la definizione di Pierre Restany: « La traccia personalizzata di Dante Bighi è simbolo di produzione, di lavoro, di energia e di vita. E' la vita concepita come impegno totale. E' amore. Dunque i segni grafici di Bighi sono la calligrafia del suo amore per la vita, sono segni di vita.»