Ricordi ferraresi

Scritto da  Franco Cardini

L'atmosfera rarefatta creata dal testo di Franco Cardini trova una eco nella Ferrara notturna di Luca Gavagna.Le atmosfere sospese di una città vissuta, sognata e immaginata, nelle parole di un grande storico e scrittore

"O deserta bellezza di Ferrara, / ti loderò come si loda il volto / di colei che sul nostro cuor s'inclina / per aver pace di sue felicità lontane...": scrivo - mémoires d'Outretombe - nella già quasi afosa primavera del 2007, mentre il mio sessantaseiesimo anno d'età è già avanzato. Scrivo da quel nomade che ormai sono già da anni perché da sempre lo sono dentro: e il nomade non è colui che si muove di terra in terra senza mai affezionarsi ad alcun luogo e ad alcun paesaggio; ma, al contrario, colui che li ama tutti e che dovunque sia prova sempre l'acuta nostalgia di un Altrove. Certo, comunque, le mie sessantasei primavere mi stanno pesando più del solito, ora che mi accingo a ricordar uno dei luoghi che più amo al mondo, una delle città "mie" più mia: e lo faccio con i versi inevitabili dell'Imaginifico, del Divino Gabriele.

 

Siamo ormai nel III millennio del Cristo, l'uomo tenta gli spazi celesti e si avventura nei segreti della sua stessa struttura molecolare, ci si sente alla vigilia di nuove grandi scoperte o forse di nuove grandi tragedie, si aspetta che da qualche parte si dischiudano nuove Americhe siderali e nuovi Oceani genetici, si teme che prima o poi irrompano da chissaddove i nuovi Barbari o che dilaghino le nuove Pesti Nere.

 

Via Boccanale diSanto Stefano.E, in quest'universo postmoderno, io nato e allevato in un Novecento che ancora sapeva d'Ottocento, quando a scuola si faceva ancora il gioco del silenzio e delle braccia conserte e si leggeva Cuore, mi scopro a citare ancora Le città del Silenzio: sì, quella dannunziana Elettra che mi faceva già sentir antiquato allorché, diciottenne, provavo a declamarne qualche verso per impressionare la compagna di liceo carina e inaccessibile, quella con gli occhioni di ghiaccio verde e la media dell'Otto. Lei era coeva di Frankie Lane e di Neil Sedaka, suonava il piano e studiava contrappunto, ma già cominciava a sognare gli "urlatori": e io, che nel '56 avrei voluto correre a Budapest per morire sulle barricate, io ch'ero ancora rimasto alla Marcia di Ronchi e al Proclama del Carnaro, cercavo d'impressionarla proprio citando i versi di Ferrara: "Loderò le tue vie piane, / grandi / come fiumane, / che conducono all'infinito chi va solo...".

 

L'avevo vista la prima volta proprio verso i sedici anni, Ferrara: bigia di nebbia e rossa di mattoni, sotto un cielo corrucciato e piovigginoso.
C'ero arrivato con qualche amico, in una scorribanda domenicale d'autunno, su una "Topolino" che ci aveva già condotti alla regale Ravenna e che la sera ci riportò, attraverso Forlì e il Muraglione (l'Autosole non c'era ancora), a Firenze. Non sapevo ch'era una delle città del mio destino. Anzi, mi faceva un po' ridere, per via delle performances prototelevisive di Mario Soldati, allampanato nel suo paludamento nero e con le sue sperticate lodi (allora non sapevo quanto meritate) alla "salama da sugo", che Raimondo Vianello parodiava magistralmente.

 

Invece Ferrara, quella vera, me la ritrovai dinanzi qualche anno più tardi, nella Facoltà di lettere di Firenze, dove Eugenio Garin e Roberto Longhi m'iniziarono - ciascuno secondo il suo spirito - agli affreschi astrologici di Schifanoia, mentre Gianfranco Contini mi obbligò a immergermi in un fiume boiardesco, ariosteo e tassesco e Walter Binni mi assegnò per caso, come autore contemporaneo da portar all'esame, il Bassani de Il giardino dei Finzi Contini e soprattutto de Le storie ferraresi; e io prediligevo la tristezza de Gli occhiali d'oro e l'amaro di Dietro la porta. Si era ormai quasi alla metà degli Anni Sessanta.

 

Vittorio De Sica non aveva ancora diretto la splendida e inquietante Dominique Sanda nella sua versione cinematografica dei Finzi Contini, ma il crudo bianco e nero de La lunga notte del '43 di Florestano Vancini, con un'indimenticabile Belinda Lee che splendeva di carne nuda sulle ombre della città notturna, con le sue strade strette risonanti dei passi delle pattuglie repubblichine, mi era entrato fin nelle viscere. Si facevano ancora le "Feste delle Matricole", in quella Ferrara a metà strada tra Bologna e Padova, tre città nelle quali perfino oggi si continuano ad affiggere ai muri dei portici i "papiri" dei laureandi. Fu in una lunga e già quasi fredda notte di fine ottobre, tra canti goliardici già rochi per le sigarette e il Lambrusco, che tra il duomo e i freddi davanzali di pietra dei fossati del  castello si consumò in poche ore il mio eterno e travolgente amore per Laura: non seppi mai né il suo nome per intero né il suo indirizzo. camminammo a lungo infreddoliti, tenendoci per mano nell'alba incerta e ci salutammo dopo il cappuccino bollente sorbito al bar della stazione.

 

La Loggia dei Mercanti.Sì: la ricercai, Laura. Ci fossimo incontrati appena qualche anno dopo, nel vortice della finta rivoluzione sessantottina, ci saremmo forse dati nell'arco della notte a un paio di rapporti fuggevoli, di quelli in piedi, contro le colonne dei portici, e poi ci saremmo dimenticati subito: perché, alla fine degli Anni Sessanta e ai primi dei Settanta del XX secolo, successe che finì l'Ottocento. Ma invece ci eravamo conosciuti troppo presto, ancora in età romantica: ed è per questo che quel paio di casti baci che ci capitò di scambiarsi allora mi sono restati per sempre sulle labbra, come cicatrici  dolcissime, e ancora mi ricordo il suo profumo e il respiro che le usciva dalla bocca e che subito si condensava nel gelo della notte.

Eppure non riesco a ricordare il suo volto, a parte un po' di lentiggini e le fossette sulle guance. Il resto, è come in penombra. Era un destino che ci tornassi, appena tre anni dopo. Ero ormai laureato da pochi mesi e sulla manica della mia giacca grigio-azzurra di sottotenente d'aeronautica brillavano, nuovi di zecca, i miei gradi d'ufficiale.  Credo mi avessero assegnato al piccolo aeroporto di Ferrara, comandato dal colonnello Serafini, perché all'Accademia il mio punteggio era risultato piuttosto scarso: ma ero felice di trovarmi là, a un paio d'ore di treno dalla mia Firenze, e nella città di Laura. Lei, però, non riuscii a rivederla. Era perchè il ricordo di quella casta notte fosse eterno che non ci eravamo scambiati né indirizzi, né numeri di telefono. Così è stato. Laura-per-Sempre: mai dimenticata, mai tradita, mai sfiorata dalla vecchiaia o dalla stanchezza o dal rancore, da nessuna delle miserie che fanno avvizzire l'amore.

Il '66 fu l'anno dell'alluvione: che vissi a Firenze, per pochi giorni di licenza; ma per tornare poi al mio posto ed essere comandato sul delta del Po, tra Pomposa e Codigoro invase dalle acque. Quindi i mesi corsero rapidi, nella routine del servizio, fra i turni di notte invernale avvolti dalla coltre impenetrabile della nebbia padana e quelli primaverili già invasi dalle zanzare.
Talvolta, in certi pomeriggi di pioggia, quando ci capitava di venir comandati come picchetto d'onore - di solito in brevi, austere cerimonie funebri che terminavano alla Certosa -, ripensavo al passo cadenzato dei repubblichini de La lunga notte del '43 e mi capitava così di giocar da solo alla guerra, come un adolescente che avesse troppo a lungo indugiato nei suoi sogni; e mi raccontavo la storia di me e di Laura nel più pauroso inverno della guerra: incontrarci furtivi nell'ombra di via Torcicoda, guardarci spauriti attorno e scambiarci un rapido bacio prima di lasciarci, io col maglione nero della "Decima" e lei con la stella gialla di David appuntata sul seno...

Da allora, sono tornato a Ferrara ogni volta che ho potuto. Scendo ancora, quando trovo una camera libera, al mio prediletto Hotel  Touring, del quale rimpiango anch'io come tutti il leggendario portiere di notte dal pizzo candido. Ormai non guido più l'auto, quindi - salvo non ci pensi qualche amico - non mi càpita più di andar a cenare dal Tassi di Bondeno o al Pomposa di Codigoro; ma un salto alla "Provvidenza", là verso i bastioni, per gustare il pasticcio di tortellini in crosta dolce e naturalmente un picca nte cucchiaio di salama sul suo letto di purée dolce, quando posso lo faccio ancora. Certo, ci sono le ombre del tempo che passa. Non quella gentile di Laura, che mi succede d'inseguire ancora verso Sant'Anna; e nemmeno quelle dei miei colleghi del glorioso Ateneo ferrarese, dove per alcuni anni sono stato abbastanza assiduo e nel quale continuo ad aver tanti amici e amiche, da Patrizia Castelli a Maria Serena Mazzi.

Certo, mi mancano particolarmente quelli che non ci sono più: come don Franco Patruno, l'impareggiabile dominus loci di Casa Cini, o ancora Alessandro Sitti, che se n'è andato ormai da tanto tempo. Mi restano gli amici che sempre saranno fra i più cari: come Roberto Roda, o Maria Paola Forlani, o Roberto Pazzi, che non ho bisogno di rivedere per mantener saldi dei legami fraterni che reste-ranno tali per sempre. Ma soprattutto mi manca proprio lei, Ferrara: i suoi inverni nebbiosi, le sue lunghe afose estati, il verde dei suoi bastioni, le sue chiese austere, la mole fastosa e guerriera del suo castello. Ci passo spesso accanto, sulla linea Bologna-Venezia che tanto mi è familiare.

L'InterCity ci ferma, e anche qualche EuroStar vi fa sosta. Basterebbe premere la maniglia e scendere, come da un'orwelliana macchina del tempo. Ma il bar della stazione non è più lo stesso: ora luccica ostile, rivestito della plastica acida dei Mac Donald's. Certo, la vedo ancora... le sue lentiggini, le fossette nelle guance quando ride: tutto è rimasto uguale. Eppure il suo volto resta nell'ombra, e ormai sono quarantacinque anni più vecchio di lei: forse sta piangendo. Oh, deserta bellezza di Ferrara...