Al sospetto del profano - ma le piene non danneggiano piante e animali? - Elisabetta Mantovani sorride indulgente e spiega: "La flora e la fauna del bosco si adattano perfettamente agli eventi naturali. Il bosco non avrebbe le sue caratteristiche ineguagliabili, se non fosse interessato da queste piene; vive in simbiosi con il suo fiume, da cui ha tratto ori- gine e che ancora oggi lo alimenta"
Dal punto di vista della tutela naturalistica, attualmente il Bosco della Panfilia è un'oasi di protezione della fauna, istituita dalla nostra Provincia; ma è anche Sito di Importanza Comunitaria (SIC), inserito nell'ambito del programma Rete Natura 2000 istituito dalla Comunità Europea.
Lungo e prezioso è l'elenco della fauna, in questo paradiso terrestre: moltissime specie di uccelli (scricciolo, cinciallegra, allodola, cardellino, ghiandaia, cuculo, fringuello, picchio rosso e verde e molti altri), oltre a una ricca avifauna legata all'ambiente umido del fiume: martin pescatore, nitticora, cannareccione, beccamoschino, gallinella d'acqua, vari esemplari di airone rosso, airone cinerino, germano reale, folaga, svasso maggiore, la garzetta e il tarabusino.
Nel sottobosco e nei fiumi coltivati nelle vicinanze si possono vedere facilmente i fagiani. Non mancano i rapaci diurni e notturni, come lo sparviero, il gheppio e la poiana, la civetta e il barbagianni. La caccia, ovviamente, è vietata. Quanto alla flora, si ammira una vegetazione tipica dei boschi umidi della Pianura Padana. Farnie, pioppi bianchi e neri, frassini, salici, olmi, gelsi e ontani si spingono in alto, talvolta fino a una trentina di metri; lo sguardo incontra anche piante di nocciolo, sambuco, rovo, sanguinella, ligustro, prugnolo e biancospino.
Ma, prima di inoltrarci più a fondo nelle meraviglie del bosco, è opportuno ricordare l'origine del suo nome: la rotta del 1750, che travolse anche il palazzo e le proprietà del marchese Panfilo Fachinetti, situate nei pressi del fiume, passa alla storia come "rotta Panfilia". E proprio sul deposito alluvionale della rotta si insedia lentamente la vegetazione igrofila del bosco, chiamato anch'esso Panfilia. Elisabetta Mantovani sottolinea come le vicissitudini idrauliche del luogo siano state molto complesse e ne abbiano condizionato notevolmente la storia.
Una pubblicazione voluta dalla sezione Wwf Alto Ferrarese informa che, circa a metà del quindicesimo secolo, il Reno trova un corso stabile fra Cento e Pieve di Cento dove scorre attualmente e si dirige nelle valli di Galliera. Esplode un dissidio, che durerà quattrocento anni, fra i bolognesi e i ferraresi: i primi vogliono che il Reno sia immesso nel Po di Ferrara per allontanare i pericoli di inondazioni e impaludamento delle loro terre; i secondi si oppongono per timore di esondazioni e interramenti del loro principale corso d'acqua, via di navigazione fino al mare Adriatico.
La spuntano i bolognesi, convincendo nel 1522 il Duca di Ferrara Alfonso I d'Este a eseguire l'opera. Dal 1530 al 1604, il Reno rimane convogliato nel Po di Ferrara, seguendo il percorso che attraversa i territori di Sant'Agostino, Mirabello, Vigarano Mainarda e Cassana. Le limacciose acque del Reno non mancheranno di provocare i temuti interramenti del Po, che romperà anche moltissime volte. Il testo racconta quindi di "un successivo riordino idraulico, disposto da Papa Clemente VIII nel 1604, che toglie il Reno dal Po per immetterlo nelle Valli della Sammartina e Poggio Renatico, vicino a Ferrara. Tale condizione si mantiene sino a circa il 1750, quando due successivi interventi, imposti dalle precarie condizioni idrauliche, portano finalmente il Reno a sfociare nel mare Adriatico. Prima, il Papa Benedetto XIV fa scavare il ‘Cavo Benedettino', con lo scopo di smaltire le acque delle Valli del Po di Primaro; poi, in seguito alla rotta avvenuta a Sant'Agostino nel 1750, il fiume viene deviato verso est, assecondando l'andamento assunto a seguito della rotta stessa. Tale direzione è consolidata realizzando, tra il 1767 e il 1782, una congiunzione con il Cavo Benedettino e inalveando poi il Reno nel letto del Primaro, prima di giungere all'Adriatico.
Tuttavia, anche la nuova inalveazione non pone fine alle inondazioni del Reno. Furono necessari nuovi interventi, fino al Cavo Napoleonico, che collega direttamente il Reno al Po e attualmente funge da scolmatore delle piene del Reno nel periodo invernale, oltre che da canale irriguo a servizio del Canale Emiliano-Romagnolo (C.E.R.) nel periodo estivo. Ma se un tempo le lotte furono aspre, adesso - informa Mantovani - si è passati agli accordi: "La coscienza è maturata, tant'è vero che tra le Province di Ferrara e Bologna, nonché tra i Comuni di Sant'Agostino, Galliera e Pieve di Cento, è stata stipulata, nel febbraio 2002, un'apposita convenzione per la tutela e la valorizzazione sia del Bosco della Panfilia sia dell'area La Bisana, situata in territorio bolognese, sulla opposta sponda del Reno.
Oggi, quindi, si può finalmente affermare che il Reno è un fiume che non divide, ma unisce". Testimonianze importanti per gustare appieno questo impareggiabile esempio di foresta planiziale. "Tuttavia - puntualizza la nostra nterlocutrice - non si può parlare della Panfilia senza evidenziare che si tratta di una delle aree tartufigene più rinomate della nostra provincia. Il tartufo più pregiato è quello bianco, ma ci sono anche altre specie fra cui il tartufo nero liscio. Le caratteristiche geologiche e climatiche del territorio ferrarese, la presenza di aree boscate, come quella dell'area protetta, e la ricchezza del reticolo idrografico sono gli elementi fondamentali che, oltre a permettere la crescita del raro ‘cibo degli dei', gli conferiscono particolari proprietà organolettiche che rendono il tartufo del ferrarese un prodotto di eccellenza, da abbinare ai piatti classici della cucina locale, come per esempio il pasticcio di maccheroni, e non solo."
"E' noto - precisa Elisabetta Mantovani - che il tartufo usato per la preparazione dei sontuosi, celeberrimi banchetti rinascimentali ferraresi venisse procurato personalmente, nei dintorni della città e nelle golene boscose lungo il Po, da Cristoforo Da Messisbugo, il famoso cuoco e scalco della Corte Estense di Ferrara". La presenza dei tartufi in queste terre ha creato nel tempo una solida tradizione di cercatori che, accompagnati dal cane (e, in passato, anche da maiali appositamente addestrati), si dedicano alla raccolta del nobile tubero, sia per il consumo personale sia per rifornire i numerosi ristoranti, non solo della zona, ma anche di tutta la regione.
Il tartufo del Bosco della Panfilia è ingrediente indispensabile della nota sagra che da ben ventisette anni si tiene a settembre a Sant'Agostino. "In questa zona - dice Mantovani - ci sono tartufai di grande esperienza. E, a proposito di cani dal naso fino, ecco una notizia che pochi conoscono: l'unica al mondo ad avere recentemente ottenuto il riconoscimento di ‘razza canina italiana Lagotto romagnolo' specializzata nella ricerca del tartufo su qualsiasi terreno, conferito dalla prestigiosa Assemblea Generale della Federazione Cinologica Internazionale riunitasi a Buenos Aires, ha certamente origini ferraresi: si tratta di animali di antica stirpe, dal fiuto eccezionale, precedentemente utilizzati nel riporto di selvaggina, nelle acque delle Valli di Comacchio e Lagosanto le cui prime tracce documentate risalgono addirittura al sedicesimo secolo Successivamente, la razza si è diffusa anche nelle valli ravennati e nelle colline romagnole dove, cancellato l'istinto venatorio, divenne un ottimo ausilio per la ricerca dei tartufi". Tartufi sopraffini.