dichiararsi “non cooperatori”, vale a dire di non tornare in libertà collaborando con l’esercito americano. Essi, di conseguenza, sono considerati dei fascisti facinorosi e trattati perciò con rigore. Ma le cose non stanno esattamente così: moltissimi tra quei prigionieri non vogliono collaborare semplicemente perché ritengono un punto d’onore non cambiare casacca. Infatti, al posto della divisa italiana, dovrebbero indossare quella degli ausiliari delle forze USA. Comunque sia, per uno scherzo del destino, dentro a una stessa baracca di quel campo, si vengono a trovare tra gli altri Gaetano Tumiati, Dante Troisi, Giuseppe Berto e Alberto Burri. Una forte amicizia e un profondo senso di solidarietà nasce tra loro. Quindi è più che naturale che, una volta rimpatriati, l’amicizia si estenda anche ai componenti delle famiglie dei quattro. Continuano, insomma, a frequentarsi e a scriversi. Intanto però i loro destini individuali imboccano strade diverse. Tumiati (che viene da una famiglia di scrittori e attori) diventerà giornalista e scrittore, vincitore del Premio Campiello; Troisi sarà magistrato e severo, complesso scrittore; Burri abbandonerà la medicina e si metterà a fare il pittore, raggiungendo in breve una fama mondiale. Ho lasciato per ultimo Berto che nel 1947 pubblica il suo primo romanzo Il Cielo è rosso, cominciato a scrivere proprio durante la prigionia americana, che ottiene un largo, convinto successo di pubblico e di critica. Il suo capolavoro sarà Il Male oscuro, edito nel 1964. Come molti altri scrittori italiani, giovani e meno giovani, anche Berto collabora, in qualità di soggettista e di sceneggiatore, con la rinata cinematografia italiana. Nel 1951 Dino De Laurentiis propone a Berto di scrivere un soggetto per un film da ambientare nelle Valle del Po. Protagonista dovrà esserne Silvana Mangano, fresca del trionfo di Riso amaro e futura moglie del produttore. Però Berto, veneto trapiantato a Roma, non conosce nulla del Delta padano. Allora gli viene in mente di rivolgersi a Roseda, sorella dell’amico ferrarese Gaetano Tumiati, detto Gae. Sa che Roseda, laureata in legge che però alle pandette preferirà l’insegnamento, è un’appassionata di cinema. Avrebbe infatti voluto iscriversi al romano Centro Sperimentale di Cinematografia, ma non lo potrà e troverà in seguito un risarcimento esercitando la critica cinematografica su un quotidiano locale. Va detto anche che nel 1995 pubblicherà un coinvolgente romanzo sulla “generazione che ha creduto”, intitolato La Pace del mondo gelatina. Berto non vuole consigli o suggerimenti, semplicemente propone a lei di scrivere il soggetto che deve avere, oltre all’ambientazione che sappiamo, un vaghissimo sfondo sociale e un forte plot drammatico. L’eventuale guadagno lo divideranno a metà. Particolare non trascurabile: il produttore vuole sul tavolo l’idea-base del film entro una settimana. La lettera è senza data, ma del febbraio 1951. Roseda gli risponde quasi immediatamente con una lettera che può sembrare contraddittoria. Vale a dire che, mentre da un lato afferma di non avere nessuna idea per un soggetto, dall’altra una traccia di soggetto la stende con chiarezza dimostrando di conoscere a fondo l’ambiente. E non solo. Infatti, dopo aver segnalato a Berto l’esistenza dei pescatori di frodo di Comacchio, detti fiocinini, gli suggerisce anche una di quelle “scene forti” che il produttore desidera: una donna, ricercata dalla giustizia, si rifugia in una casa solitaria. Qui incontra un uomo. Una notte, durante la rotta del fiume, i due si amano, lei concepisce un figlio… Roseda è quindi attenta anche all’attualità, spiega a Berto che il Reno ha inondato le campagne e che lo “spettacolo è drammatico e desolante”. Infine Roseda invita Berto ad andarla a trovare in un fine settimana, così potrà esserci anche suo fratello Gae e in tre troveranno di certo una grande idea. Berto accetta l’invito. Farà sopralluoghi per immergersi nell’atmosfera particolarissima della zona. Il 22 febbraio 1951 torna a farsi vivo con Roseda. Le scrive che ha preso contatti con la Lux Film e che ha esposto a voce un’idea di soggetto. La storia dovrebbe trattare di un miserando circo di provincia, un tendone, quattro cavalli, il padrone, il clown, la cavallerizza (naturalmente la Mangano)… Il circo è carico di debiti, per sfuggire ai creditori tutti vanno a finire a Comacchio durante la sagra e lì s’impantanano. I creditori portano via ogni cosa, anche lo scassato camion che serve al trasporto… Poi la storia dovrebbe spostarsi a Chioggia, dove la Mangano incontrerebbe un signore che va a caccia di anitre… Berto propone a Roseda di scrivere il soggetto-base, tre o quattro paginette, essendo lui molto occupato a sceneggiare il film tratto dalla Romana di Moravia. Termine ultimo per la presentazione del soggetto il 4 marzo. Roseda gli risponde il 2 marzo allegando un soggetto dal titolo Dinca, la zingara. Il soggetto sviluppa e arricchisce con intelligenza e forte senso dello spettacolo gli scarni suggerimenti di Berto. Il circo, poverissimo, è composto dal settantenne Tommaso, il capo, che fa un numero con una scimmietta ammaestrata; da Elicio, chitarrista, “troppo piccolo per essere uomo e troppo grande, purtroppo, per essere un nano”, che è il clown; da Silvio, cavallerizzo e trapezista e da Dinca, “una donna molto bella, sensuale ma semplice” che è anche lei trapezista e cavallerizza. I due eseguono anche numeri di danza. Silvio è innamorato follemente di Dinca che una notte gli si è data non resistendo alla sua sensualità ma che poi non ha più voluto sapere di lui. Il circo arriva a Comacchio, issa il tendone, e mentre Elicio tenta d’attirare pubblico, un anziano signorotto locale rimane affascinato dalle splendide gambe di Dinca. La sera costui assiste allo spettacolo e alla fine le va a fare chiare proposte. Dinca lo respinge, irridendolo, tanto più che è rimasta molto colpita da un bellissimo giovane del pubblico, del quale ignora tutto. Il signorotto respinto si vendica e coisuoi maneggi riesce a far togliere al circo l’autorizzazione a dar spettacolo. È il fallimento: i creditori si portano via tutto. Il vecchio Tommaso ha un infarto, muore all’ospedale. Elicio, Silvio e Dinca vivono di carità e dormono all’aperto. Poi, mentre Elicio se ne va alla ventura, Silvio e Dinca vengono ospitati nella casa di Sante, il giovane che la prima sera aveva tanto colpito Dinca. In quella casa vivono in molti, sono in nove. Il padre di Sante fa la guardia valliva, mentre Sante e due suoi fratelli fanno i fiocinini, cioè i pescatori di frodo. Dinca, malgrado bruci d’amore per Sante, si rende conto che lei e Silvio rappresentano un peso che aggrava ulteriormente la povertà di quella famiglia. Dopo pochi giorni si fa vivo Tivola, il signorotto locale, che offre un lavoro a Dinca e a Silvio. I suoi intenti sono chiari, lo diventano ancora di più quando spedisce Silvio, che crede sia l’amante di Dinca, a lavorare in una salina lontana, e assume la donna come cameriera, allontanando con un pretesto la moglie. Ogni tanto Silvio lascia la salina e irrompe da Dinca accecato dalla gelosia per i doni che Tivola continuamente le fa. Ma Dinca, mentre accetta i doni, riesce a difendersi tanto da Silvio quanto dal suo datore di lavoro, oltretutto è innamoratissima di Sante. E tra le braccia di Sante infatti un giorno Tivola la sorprende, sulla riva deserta di una valle. Tivola decide di vendicarsi facendo arrestare il fiocinino e fa organizzare una battuta perché Sante venga sorpreso in fragranza di reato. Dinca però ha capito il piano del vecchio e quella notte stessa corre ad avvertire Sante, il quale si mette in salvo non riuscendo però ad avvisare a tempo i suoi compagni. In quella stessa notte Silvio si precipita da Dinca per farle una delle solite scene di gelosia. S’imbatte in Tivola, tra i due nasce una violenta discussione, Tivola accusa Dinca d’essere “una cagna” che si concede a tutti, Silvio lo colpisce con violenza. Tivola rimane a terra nel suo sangue, Silvio scappa convinto d’averlo ucciso. All’alba i familiari dei fiocinini arrestati vanno in cerca di Sante credendo che abbia tradito i suoi compagni, ma Dinca lo salva rivelando a tutti la verità. Allora la gente corre verso la casa di Tivola per vendicarsi, ma qui trova la polizia. Che accusa Dinca dell’omicidio. Dinca non si difende perché pensa che Tivola sia stato ucciso dai contrabbandieri di tabacco coi quali egli trafficava e siccome anche Silvio è coinvolto nello stesso contrabbando, ella cerca di proteggerlo tacendo. In questo mentre, arriva la notizia che il corpo di Silvio è stato rinvenuto su una sponda. Deve essersi ucciso per la disperazione. Intanto Tivola, che è solo stato ferito gravemente, rivela che è stato Silvio a tentare d’ucciderlo. Dinca, scagionata, va a vivere con Sante. Con una lettera successiva, Berto annunzia che l’idea di Roseda è stata accettata e pagata e che sarà a Ferrara quanto prima perché le quattro paginette da lei inviate devono diventare una cinquantina. Dato che lui è molto preso da sceneggiature varie, consiglia a Roseda di cominciare intanto l’ampliamento. In un’altra lettera senza data, Berto conferma l’approvazione del soggetto e annunzia il suo arrivo a Ferrara per il 6 o il 7 maggio. Hanno poco tempo, dato che per il 28 dello stesso mese egli dovrà andare per alcuni giorni a Londra. Sollecita ancora Roseda a cominciare senza di lui la stesura del soggetto definitivo. La lettera successiva è anch’essa senza data, ma il timbro postale è del 28 maggio 1951 e proviene da Roma. Ma a quella data non doveva trovarsi a Londra? Comunque Berto scrive a Roseda che il treatment che sta scrivendo in mezzo a molteplici impegni, tra le sue mani ha preso una piega “quasi comica”. Poco dopo riscrive dicendo che il produttore Gatti della Lux, dopo averlo letto, è rimasto “stupito” e non ha saputo prendere una decisione. In conclusione, il film non si farà. A Gatti il soggetto era piaciuto, ma, come del resto lo stesso Berto aveva previsto, il treatment in chiave tragicomica l’aveva reso assai titubante. Resta da dire che nel 1955 Carlo Ponti, che nel 1951 era socio di De Laurentiis, produce il film La donna del fiume, ambientato nelle valli di Comacchio, protagonista la sua futura (anche lei!) moglie, Sofia Loren. Il soggetto è un fumettistico melodramma, gli sceneggiatori Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini e lo stesso regista Soldati invano tentano di migliorarlo. Mario Soldati ha però la furbizia di sfruttare ampiamente e magistralmente la suggestione del paesaggio. Tra il soggetto di Roseda e il film di Soldati ci sono in comune alcuni elementi narrativi (fughe, morti, arresti, denunzie) anche se non si possono assolutamente configurare come interdipendenti. Per non parlare della comune atmosfera, forse dovuta appunto alla singolarità del paesaggio e degli uomini che l’abitavano e l’abitano. Però che qualcuno abbia gettato un’occhiata di straforo alle pagine di Roseda che stavano, aperte, sul tavolo di De Laurentiis, è proprio da escludere?
Quel film mai girato
Scritto da Andrea CamilleriRoseda Tumiati, Giuseppe Berto, un soggetto cinematografico ambientato nel Delta all’origne de “La donna del fiume”?
La storia di un film ambientato nello straordinario paesaggio di Comacchio, che doveva essere girato nel 1953 e che invece non venne mai realizzato, è, prima di tutto, la storia di un’amicizia. In un campo di concentramento statunitense, mentre la guerra iniziata nel 1939 va spegnendo i suoi ultimi fuochi, vengono raccolti i militari italiani prigionieri che hanno deciso di