Tutti pazzi per La Notte

Scritto da  Jadranka Bentini

La vendita di Dresda: una delle più significative vicende della storia del collezionismo modernoIl cortile dello Zwinger, a Dresda, dove è conservata oggi la collezione dei duchi d’Este.

Fra gli episodi famigerati della lunga storia della dispersione del patrimonio artistico italiano la “Vendita di Dresda” occupa un posto rilevante e costituisce il campione trasparente del baratto fra opere d’arte e denaro per investimenti, dati uno Stato preunitario indebitato, il ducato di Modena, e un principe europeo mai sazio di capolavori, il  Grande  Elettore di Sassonia e

re di Polonia Federico Augusto III. Da un lato  Francesco  III  d’Este,  travolto da disastri della guerra di  Successione  Spagnola e afflitto da un erario esangue ,   dall’altro uno degli uomini più potenti e ricchi del momento che aveva posto gli occhi, durante un viaggio nella penisola nel 1712,su una delle raccolte principesche più dense di capolavori, conservata entro il Palazzo Ducale di Modena. Sbaglierebbe chi credesse che tutta la responsabilità fosse da addebitare allo straniero che andava tesaurizzando a ritmo intenso un patrimonio pittorico eccezionale per i tempi, preparando la sua capitale, Dresda, ad assumere quelle forme monumentali e limpide che conosciamo dai dipinti del Bellotto, e ad accogliereuna delle collezioni più prestigiose fra quante annoverate dalle monarchie europee. L’Elettore, che aveva un antagonista in casa nel primo ministro e plenipotenziario di corte, il celebre Conte HeinrichDosso Dossi, Disputa sull'Immacolata Concezione con i santi Anselmo, Agostino, Girolamo e Ambrogio. L’opera è andata distrutta nel 1945. von Bruhltanto appassionato e avido di pitture da possederne più di 1000 nel suo palazzo sull’Elba, covava da tempo il desiderio di acquistare la celeberrima Notte del Correggio, uno dei quadri più famosi di tutta la storiadell’arte rinascimentale e moderna, visibile entro la Galleria Ducale sotto una cortina protettiva da rimuovere solo nel caso un visitatore accreditato l’avesse richiesto: un trucco per stupire l’ osservatore con il coup de théatre del disvelamento a sorpresa. Ora, entrato il Duca in difficoltà dopo l’invasione del ducato da parte delle truppe degli Asburgo, rifugiato egli stesso nel palazzo diVenezia e quindi costretto a ricoverare la Galleria e il mobilio di corte in sedi decentrate fra le quali Ferrara, più facile era il gioco sia dei mandanti che di quei ministri della corte desiderosi di alienare la collezione di pitture che, nel frattempo, era stata catalogata e descritta con cura da moderno museologo dall’abate Ercole Gherardi, ignaro di stare facilitando l’acquisizione con la sua opera letteraria recante il titolo Descrizione delle pitture esistenti in Modena nell’Estense Ducal Galleria scritta nell’anno volgare 1744, commissionatagli poco prima. Furono i consiglieri e i ministri del Duca a ordire la faccenda, giungendo finanche a falsificare firme per facilitare il trapasso non solo della Notte, ma di tutti i maggiori capolavori della Galleria fino a raggiungere quel numero di 100 che saprà subito quasi di leggenda. Se il mandante era un Principe, gli agenti per suo conto rispondevano ai nomi di Bonaventura Rossi, pittore bolognese alla corte di Dresda, di Pietro Guarienti, scolaro del Crespi, e infine a quello più altisonante di Anton Maria Zanetti, celebre storiografo e accademico, tutti impegnati alla crescita rapida delle raccolte Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, La Sera, Dresda, Gemäldegalerie.reali per l’Elettore, uomo più incline ai suoi interessi artistici che al governo del paese, degno erede del padre, Augusto il Forte, che già aveva promosso un moderno Museo che potesse accogliere con la razionalità dovuta il gran patrimonio che andava accumulando. Dunque se da un lato soprattutto lo Zanetti testimoniava quell’intreccio nefasto, ma in linea con i tempi, fra conoscenza e mercato dell’arte, dall’altro si andava preparando nella capitale sassone il terreno per la costruzione di moderni edifici volti a ospitare le raccolte prestigiose che i regnanti andavano tesaurizzando non più solo quale proprio appannaggio, ma in vista di una godibilità pubblica più allargata. Mentre la nostra penisola languiva, in Europa si stava aprendo un nuovo capitolo per la storia del museo moderno per il quale era essenziale l’alimentazione di opere provenienti dai cosiddetti paesi produttori, più ancora dell’Olanda e dei Paesi Bassi, l’Italia, ormai terra di aperta conquista, provvista di piazze mercantili di eccezione, come Venezia, e di patrimoni nobiliari in svendita. All’idea della costruzione di una moderna galleria per dipinti a Dresda aveva prestato la sua opera progettuale un altro italiano, il veneziano e ben noto Francesco Algarotti, nel 1742, anch’egli agente procacciatore di quadri per il reDosso e Battista Dossi, San Giorgio, Dresda,: si può allora ben affermare che l’acquisto dei cento capolavori da Modena abbia avuto effetti determinanti ancora prima dell’arrivo concreto dei dipinti, avvenuto nell’autunno del 1746, tanto sull’accelerazione dei lavori edilizi quanto sulla sistemazione museale. Dalla corrispondenza intercorsa fra il Rossi, il conte Bruhl, il ministro delle finanze sassone e alcuni componenti del Consiglio di Corte (alcuni ministri, come prevedibile, non erano assolutamente concordi) è possibile toccare con mano le molte difficoltà della transazione per l’acquisto monetizzato in 100.000 zecchini, un affare che si protrasse fino alla primavera del 1746, ordito essenzialmente a Ferrara e concluso a Venezia; il 6 luglio, Bonaventura Rossi finalmente partì per Dresda con il suo prezioso carico. Ma che dipinti contenevano i cinque carrozzoni che dovettero attraversare non poche traversie di viaggio lungo le strade d’Italia e d’Europa? Si trattava del fior fiore della Galleria Ducale descritta fin dal 1658 dallo Scanelli nel suo Microcosmo della pittura dedicato a Francesco I d’Este, orditore dell’imponente progetto della creazione della raccolta di pitture nel Palazzo Ducale di Modena da affiancare al Museo dei disegni e delle medaglie, l’altra faccia del collezionismo di corte che raccoglieva le antichità come gli oggetti da wunderkammer. Le radici di entrambi stavano, giova ricordarlo, in quel patrimonio ferrarese scampato alle conseguenze della devoluzione di Ferrara antica capitale del ducato al Papa Clemente VII, secondo quanto ricostruito nel 1882, su base documentaria, dal primo insuperato esegeta della Galleria modenese, Adolfo Venturi. “Il 1598, anno fatale agli Estensi … Il Papa stacca le gemme più preziose dalla corona ducale”: l’inizio del primo capitolo dBernaldo Bellotto, Il mercato nuovo di Dresda, Dresda, Gemäldegalerie.ell’opera venturiana dedicato ai resti delle collezioni ferraresi è un preludio al racconto delle peripezie di Cesare d’Este per salvare il salvabile dalle mire dei rapaci cardinali romani invaghiti dell’arte e delle belle pitture, soprattutto quelle a carattere profano e mitologico. E se, come noto, giunsero a Modena buona parte delle raccolte antiche, le sculture, le medaglie, gli strumenti musicali, i bronzetti, le maioliche, i quadri subirono amputazioni non rimarginabili: l’allusione è ovviamente ai dipinti dei Camerini del Castello sulla via segreta, opere fra le più ambite, che presero la via di Roma dove finirono per costituire i testi figurativi forse più imitati dalla prima generazione seicentesca di pittori residenti o transitanti nella capitale. Dopo quella gonzaghesca e quella farnesiana, in ordine di tempo si era consolidata la Galleria modenese di Francesco I, duca filospagnolo e incarnazione del monarca assoluto e illuminato, convinto collezionista che, dopo avere richiamato nella nuova capitale quanto poteva ancora restare nel Palazzo dei Diamanti, si adoperò all’acquisto di dipinti sul mercato senza rinunciare a spregiudicate requisizGirolamo da Carpi, Il ratto di Ganimede, Dresda, Gemäldegalerieioni dalle chiese dei suoi possedimenti. Le preferenze andarono alla scuola bolognese – dipinti del Reni, dell’Albani, del Guercino -, a quella veneziana, antica passione estense, con grandiose tele del Veronese e l’intero ciclo delle Metamorfosi di Ovidio del Tintoretto dipinto su tavole ottagone rimosse dal soffitto di una casa patrizia veneziana, infine alla scuola lombarda, senza contare gli acquisti sulla piazza romana – celeberrime le due tele di Salvator Rosa che si conservano ancora nella Galleria Nazionale di Modena. Se pensiamo che fu anche appassionato di lavori in avorio, cristallo di rocca, smalto, legno, argento e bronzo potremo tracciare il ritratto di un principe quale novella incarnazione dell’antico collezionismo di famiglia, con l’aggravante però della rapina da luoghi di culto per quanto concerneva i grandi capolavori del Cinquecento: in primis le quattro grandi tavole del Correggio provenienti da Modena, Reggio Emilia e Correggio, la pala del Parmigianino da Casalmaggiore (tutte emigrate a Dresda), la Deposizione di Cima da Conegliano da Carpi, le tavole modenesi del Dosso. Vale la pena di rileggere il brano di Charles de Brosses, ministro francese e connoisseur, scritto durante il viaggio in Italia (1739) per avere un’idea della Galleria al suo massimo splendore come risultato diFrancesco del Cossa, Annunciazione, Dresda, Gemäldegalerie. una attività di raccolta mirata, pochi anni prima della vendita. “Il Duca possiede indubbiamente la più bella galleria d’Italia, non la più ricca, ma la meglio conservata, la meglio ordinata, quella sistemata con gusto migliore. Non un accumularsi di un quadro sull’altro, non un disordine senza disegno, senza cornici e spazi intermedi, che sbalordisce l’occhio, ma non lo soddisfa… Qui tutto è squisito; in ogni stanza un piccolo numero di quadri, mirabilmente incorniciati ed appesi in modo ben visibile su stoffe di damasco, sulle quali risaltano splendidamente… Essi sono sistemati in ordine crescente di bellezza: in ogni nuova stanza Lei troverà quadri più belli che nella precedente…”: la descrizione termina con un’ovazione alla Notte del Correggio, preferito allo stesso Raffaello, un giudizio entusiastico che trova eco in tutta la storiografia, ulteriore fattore di influenza per gli appetiti di illustri estimatori come appunto il Grande Elettore di Sassonia. Dell’acquisto straordinario per Dresda, oltre ai grandi maestri veneziani, bolognesi – fra essi anche otto quadri di Annibale Carracci fra cui la monumentale Elemosina di S. Rocco, dipinta prima del soggiorno romano – lombardi ma anche spagnoli – ben tre Velasquez – e fiamminghi, figuravano opere di maestri ferraresi che un tempo avevano arricchito le stanze del Castello così come il celebre Cristo della moneta di Tiziano, citato dallo stesso Vasari. Recarsi oggi alla Gemaldegalerie, nello Zwinger, percorrere le sale della pittura italiana e ammirare i dipinti dei Dossi, di Gerolamo da Carpi, del Garofalo, è una sorta di viaggio à rebours nelle stanze dove soggiornarono secoli fa Alfonso ed Ercole I: dalle suggestioni negromantiche e allegoriche di Battista alle favole classiche di Benvenuto Tisi trionfanti più che mai nel monumentale Baccanale di ispirazione raffaellesca, fino alle squisite grazie narrative di Gerolamo, la pittura del Cinquecento ferrarese si dipana di capolavoro in capolavoro modulata nelle sue note più alte. “In nessun’altra galleria al di qua delle Alpi Dosso e Garofalo sono rappresentati tanto bene e con tanta ricchezza come nelle belle sale della Galleria di Dresda”: è un’affermazione di Giovanni Morelli, studioso tanto famoso quanto discusso, contenuta nellaFrancesco Stringa (attr.), Natura morta allegorica con busto berniniano di Francesco I d’Este, Minneapolis, The Minneapolis Institute of Art. sua opera del 1880 dedicata ai maestri italiani delle gallerie di Berlino, Monaco e Dresda, scritta in tedesco sotto lo pseudonimo di Ivan Lermolieff. Dei cento dipinti oggetto della vendita, il corpo figurativo più unitario e sostanzioso all’origine dell’ordinamento del nuovo museo tedesco e che non poco influenzò Johann Joachim Winckelmann nella costruzione del concetto di arte classica, ne restano oggi ottantasette, superstiti dei disastrosi bombardamenti della seconda guerra mondiale. La partita giocata fra il 1744 e il 1746 a Modena fu una delle più significative della storia del collezionismo moderno all’origine dei grandi musei europei: dallo sfaldamento di una imponente raccolta italiana, un destino vissuto da altre casate in tempi diversi, un’altra si alimentò e si arricchì per assumere un volto dai tratti internazionali, oggi espressi solidamente nel rinnovato percorso della Gemaldegalerie di Dresda.