L’Immacolata Concezione di Voghiera

Scritto da  Bevilacqua Balboni Ghelfi

Primi studi interdisciplinari sull’affresco del catino absidale della chiesa di VoghieraUn particolare dell’affresco dell’Immacolata Concezione nel catino absidale della chiesa di Voghiera.

L’intervento di restauro eseguito sul catino absidale della chiesa di Voghiera ha portato alla programmazione di una serie di analisi scientifiche e tecniche sul dipinto,atte a raccogliere informazioni sul tipo di esecuzione e sulla tecnica impiegata. Questi dati, unitamente alle ricerche di tipo storico-artistico in corso di svolgimento, hanno costituito un’occasione unica di studio su un’opera poco

conosciuta di scuola ferrarese. La pittura murale è collocata nella calotta absidale della chiesa, la cui struttura architettonica è composta da centine lignee rivestite da “incannicciato” sul quale è stato steso l’intonaco a doppio strato: uno strato aderente alle canne con impasto a base gessosa e un altro di finitura con calce aerea e sabbia steso a “frattazzo” in legno, così da realizzare una superficie scabra. Sull’intonaco è stesa un’imprimitura biancastra contenente biacca: è su questa preparazione di fondo che si realizza la vera e propria stesura pittorica, caratterizzata da una gamma vastissima di pigmenti a medium oleoso, tra i quali giallorino, lacca rossa, minio, terra verde. Si tratta di un ulteriore apporto alla casistica già ampia di opere ferraresi realizzate con la tecnica dell’olio su muro; tra gli esempi databili tra XVI e XVII secolo ricordiamo l’Esaltazione del nome di Dio di Carlo Bononi nel catino absidale di SantaImmagine del lavoro di stuccatura e di pulitura effettuati sull’affresco. Maria in Vado, il frammento della Vergine Annunciata di Ippolito Scarsella nella Cappella Fontana in Cattedrale e i Baccanali di Leonardo da Brescia nel Castello Estense.

È tra il XVI e il XVII secolo che gli artisti mostrano un particolare interesse per le contaminazioni tecniche e una crescente propensione per modalità esecutive diverse dal classico “a fresco”: la densità pittorica e la profondità di tono che caratterizzano la pittura del periodo inducono a un uso sempre più esteso del legante oleoso su muro. Le nuove esigenze estetiche non possono essere soddisfatte dalla tecnica dell’affresco tradizionale, che richiede grande abilità, rapidità di esecuzione e non permette l’impiego di un’ampia varietà di pigmenti; la pittura a olio, al contrario, si caratterizza per l’uso di più strati di colore, così da ottenere un’ampia gamma di trasparenze nonché di eseguire correzioni a più riprese, anche dopo lunghe pause. Il primo esame eseguito in vista dell’intervento di restauro ha rivelato una superficie pittorica molto ammalorata, con sollevamenti nella pellicola e presenza di numerose patinature a vernice e collette. Le riprese pittoriche sedimentatesi nel tempo avevano totalmente offuscato e ingiallito la superficie, tanto da renderla parzialmente illeggibile. Dopo un controllo generale della superficie, si è applicata una velinatura con carta giapponese e cellulosa nelle zone con problemi di distacco e sollevamento, riguardanti sia la superficie pittorica che l’intonaco. Sono seguite le operazioni di consolidamento tramite iniezioni con resina polivinilica addizionata a farina fossile e stuccature con impasto a base di cellulosa. La pulitura chimica, eseguita per alleggerire gli strati di vernici soprammesse, è stata effettuata in due fasi, suddividendo la superficie del dipinto in porzioni omogenee: prima con soluzione alcolica e acetone, in seguito con una sospensione a gel con soluzione aminica in acqua lasciata agire per circa dieci minuti, poi asportata con spugne e acqua dopo un massaggio a pennello. Per l’intervento di integrazione delle poche lacune esistenti, sono stati impiegati colori a tempera con vernice mastice; la protezione finale delle superfici è avvenuta con stesura di vernice mastice a pennello e ad aerografo, diluita in soluzione di essenza di trementina. [F. B.]

 

Parte seconda. Documenti e modelli:Immagine del lavoro di stuccatura e di pulitura effettuati sull’affresco. Nell’immagine si riconosce Fabio Bevilacqua.

Primi appunti sulla ricerca storico-iconografica

Le origini antiche della pieve di Voghiera (le prime notizie risalgono al XII secolo) e il moderato interesse dal punto di vista culturale che fino a oggi tale luogo ha suscitato, hanno permesso nei secoli la lenta costituzione di un archivio parrocchiale corposo e mai riordinato con criteri scientifici; tale situazione da un lato ha permesso uno spoglio libero e approfondito di ogni tipo di documento, ma dall’altro ha non poco complicato le operazioni di studio per l’effettiva mancanza di criteri inventariali e di regestazione definiti. Sebbene l’indagine sul contenuto dei faldoni sia ancora in corso, è già stato rilevato un interessante corpus di informazioni sul patrimonio pittorico della chiesa, che varrà la pena illustrare in una sede più ampia. Al termine della ricerca sarà possibile mettere in relazione le testimonianze d’archivio con le uniche fonti della letteratura storica locale, che forniscono dati sulle pitture di Voghiera: si tratta del Compendio historico dell’origine, accrescimento e prerogative delle chiese, e luoghi pij della città, e diocesi di Ferrara (1621) di Marc’Antonio Guarini, e della Descrizione delle pitture e sculture della città di Ferrara, stesa intorno ai primi anni del XVII secolo da Carlo Brisighella e postillata da Girolamo Baruffaldi. Mentre il Guarini offre precisi riferimenti cronologici confermati dai documenti, riferibili a opere di ammodernamento e trasformazione dell’abside, le note di Baruffaldi presentano interessanti riferimenti attributivi che aprono percorsi di indagine tra i pittori locali; dai documenti dell’archivio è possibile poi estrapolare informazioni su vicende costruttive avvenute nei secoli, attraverso cui è possibile delineare le ipotetiche variazioni di gusto nel linguaggio architettonico e decorativo della chiesa. Nel catino è raffigurata una Immacolata Concezione con simboli tratti da Litanie Lauretane, Libri dell’Apocalisse e Cantico di Salomone; questa modalità di rappresentazione iconografica, tesa all’esaltazione della Vergine attraverso gli attributi che il culto mariano le dedica, è un tema caro fin dai secoli precedenti alla pittura europea e ampiamente diffuso nella cultura cinque-seicentesca emiliana. Ciò che qui si è rivelato come elemento nuovo e insolito è piuttosto la soluzione compositiva data dal trinomio simbolo-cartiglio-angelo, per cui non sono stati finora ritrovati precisi e calzanti modelli di riferimento e che si è di conseguenza imposto come tema principale su cui avviare l’indagine storico-artistica; la ricerca legata a possibili influenze stilistiche e culturali deve sdoppiarsi necessIl catino absidale di Voghiera.ariamente su percorsi paralleli: da un lato l’iconografia dell’Immacolata Concezione, nella sua accezione più esplicitamente didattica, legata alla rappresentazione dei simboli abbinati ai cartigli (come nelle tele di Garofalo e bottega conservate alla Pinacoteca Capitolina di Roma, Madonna in Gloria e Santi, inv. 192 e Immacolata Concezione e Santi, inv. 208, o ne La Trinità e l’Immacolata Concezione attribuita a Garofalo e bottega a Brera, inv. 640), dall’altra la raffigurazione del teatro sacro e dello spazio illusionistico, resi dalla volta celeste e dalla quinta di angeli (si veda l’Immacolata Concezione e la gloria in Paradiso di Scarsellino nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara). Una scelta iconografica da leggere necessariamente come esito della fusione di diversi modelli: tradizione del soggetto da un lato, innovazione compositiva dall’altro. [V. B.]

 

Parte terza. Sulla temperie artistica a Ferrara 

nel primo Seicento: il caso di Voghiera

La decorazione del catino absidale della parrocchiale di Voghiera rappresenta, nel panorama artistico ferrarese, uno dei rari esempi di pittura murale databile nel primo Seicento. In questa sede vengono presentati i primi risultati del restauro diretto da Fabio Bevilacqua, supportato da un’accurata ricerca documentaria condotta da Veronica Balboni nell’archivio parrocchiale; il nostro contributo si traduce in alcune considerazioni sullo stile dell’opera e sul contesto culturale nel quale essa fu creata. Nelle note aggiunte da Girolamo Baruffaldi alla Descrizione delle pitture e sculture della città di Ferrara di Carlo Brisighella, sono contenute notizie preziose sui dipinti che ornavano l’edificio. Accanto alla Santa Lucia dello Scarsellino, tra le poche opere mobili superstiti, e a quadri, oggi perduti, riferiti a Bastarolo e Camillo Ricci, il biografo dei pittori ferraresi attribuisce il catino del coro a Bastarolo e agli scolari dello Scarsellino. Nell’edizione a stampa del manoscritto, Maria Angela Novelli, nel rilevare che il complesso è stato ignorato dalle fonti antiche, ricorda una notizia pubblicata da Ugo Malagù nella sua Guida del ferrarese (1966 o 1967, pp. 523 ss.), secondo la quale in un inventario parrocchiale del 1829 l’intera decorazione del catino veniva riferita a Carlo Bononi. Nonostante il precario stato di conservazione che ne impediva una corretta lettura, la studiosa suggeriva di confermarne l’esecuzione al giovane Bononi. La proposta va accolta e meglio argomentata alla luce della temperie storico artistica che interessa Ferrara nei primi anni del nuovo secolo. All’indomani della Devoluzione, nel mutato clima politico istituzionale prodotto dal trasferimento della corte a Modena, le forze interne alla città, sia laiche che ecclesiastiche, mostrano di sapersi muovere in piena autonomia rispetto al potere centrale rappresentato dal Legato. In assenza della corte, altri sogUn dettaglio dell’affresco.getti come gli ordini religiosi, le confraternite e il vivace ceto dirigente cittadino commissionano imprese artistiche di rilievo. Le ricerche da noi condotte dimostrano che non si è trattato di anni, come ebbe a definirli la storiografia, di inarrestabile decadenza. A far fronte alle richieste della committenza troviamo un capo bottega di grande caratura come Scarsellino, che era riuscito a coagulare intorno a sé le forze artistiche locali. Tra di esse Carlo Bononi, impegnato a coadiuvarlo nell’esecuzione di imprese artistiche di rilievo. Occorre sottolineare che l’immagine tradizionale del grande maestro come genio isolato si presta a essere contraddetta dallo spoglio della documentazione: in città fin dai primi anni del Cinquecento, con i pittori che lavorano nell’appartamento di Lucrezia Borgia in Castello e nella Sala del Tesoro in Palazzo Costabili, si rileva l’abitudine a creare consorzi di artisti; questo accade diversi anni più tardi anche nell’Appartamento dello Specchio in Castello e, a partire dallo scadere del secolo, per imprese cui prendono parte oltre a Scarsellino e Bononi, maestri considerati minori, come Gaspare Venturini, Giulio Belloni, Giovanni Andrea Ghirardoni, Cesare Cromer e Giacomo Bambini. A Voghiera, l’esame ravvicinato dell’opera permette di individuare la presenza di più mani. Sulla base del referto stilistico riteniamo che qui abbiano operato, fianco a fianco, artisti appartenenti all’entourage di Scarsellino. Se la figura che regge l’Hortus Conclusus è accostabile per i tratti fisionomici e il trattamento dei panneggi alla Santa Barbara di Scarsellino oggi ad Avignone, i personaggi individuati dalle iscrizioni Quasi Palma e Plantatio Rosae vanno ricondotti per il sapiente utilizzo di luci e ombre e la stesura più libera alla produzione giovanile di Bononi, in corso di studio da parte della scrivente. Siamo certi che la ricerca d’archivio permetterà di circoscrivere la datazione del complesso; per il momento, attenendoci ai soli esiti stilistici, avanziamo l’ipotesi che questa collaborazione possa essersi svolta tra la seconda metà del primo decennio e il successivo. [B. G.]