E questo, si badi, a dispetto della terra e della natura su cui detti monumenti sono stati costruiti: una terra e una natura che sappiamo rese da sempre, l’una, malferma e insicura e, l’altra, selvatica e ben poco ospitale (e questo per l’origine deltizia che ha avuto la “bassa ferrarese” e che il suo territorio non ha mai smesso di riflettere). Anche se poi, a dire il vero, una differenza c’è tra il Palazzo Pio e gli altri monumenti prima citati e cioè che, al contrario dei primi, da anni esso è abbandonato all’incuria del tempo al punto che, anche dopo l’avvenuto acquisto da parte del Comune, se non si interverrà con urgenza, per metterla intanto in stato di sicurezza, la storica struttura finirà inevitabilmente per ridursi a un cumulo di macerie. Fatto costruire agli inizi del XVI secolo dall’allora proprietario-feudatario della possessione “La Motta” (il Conte Alessandro Faruffini, un nobile di origini alessandrine noto a Ferrara per essere entrato nella cerchia dei più stretti collaboratori del Duca Ercole II d’Este), per quel che lasciano intendere alcuni rogiti del 1401 e del 1426 non è del tutto da escludere che il “Palazzo” (allora “dei Faruffini”, poi noto come “Palazzo Pio” dal nome dei feudatari subentrati nel 1653) sia stato innalzato su una preesistente “casa padronale” della tenuta. Casa che, per l’appunto, nei rogiti citati viene individuata fra i beni disponibili di una tal “possione arativa, arborata, vidata e prativa con Casa da Padrone, orto, brolo, peschiera […] et altre sue ragioni e pertinenze chiamata la Motta e posta in Villa de Trisigalo”. Fabbricato che ergendosi nel bel mezzo del “terreno casamentivo della Motta” (da “mota” cioè altura, dosso) vedrà poco dopo sorgere intorno a sé lo storico “Borgo dei Palazzi”, allora come oggi, posto “dirimpetto allo stradone che, dalla Luiba, porta dritto alla Massa(fiscaglia) et alla Cona(cervina)”. Seppur di dimensioni molto modeste (come ci dice la parte antica arrivata a noi, la quale ben dimostra come fosse più modesto ancora del vicino villaggio di Tresigallo, che nel 1432 contava poco più di cento anime, tra adulti e infanti), il borgo “dei palazzi” ha nondimeno costituito nel tempo un punto di riferimento molto importante “nella mappatura di quella fetta di terre asciutte” sulle quali aveva potuto prendere corpo e crescervi. E questo nonostante le disastrose inondazioni che di tanto in tanto vi scaricavano sia i vicini corsi d’acqua sia lo stesso Adriatico, allora molto più arretrato di oggi. Si tenga presente che il territorio di cui parliamo era ed è compreso tra il Volano e il Naviglio-Canalbianco, mentre il suo confine verso il mare era costituito dalla cosiddetta “linea di (con)fine sul Bracciolo” ovvero da quel lungo e naturale “argine di Brazzolo” che, oggi quasi del tutto scomparso, in quei secoli partiva dal sott’argine del Volano, tra i borghi di Rero e di Roncodigà, e “girando in fianco alle Ville di Trisicalo, Firminiana e Copario, s’andava poi a seppellire nell’argine del naviglio tra Cocanile, Braciuolo e Ambrogio, giusto a un tir di schioppo dal Po grande”. Per parte sua, sempre e solo considerata uno dei tanti toponimi agricoli della zona e registrata nel patrimonio che la “mensa vescovile” di Ferrara disponeva anche nella Castalderia (o “Villa”) di Tresigallo – la possessione “Motta” risulta a tutt’oggi catastalmente mappata e disegnata solo a partire dal 1765, il che impedisce di verificare e comparare quante e quali modifiche sono state eventualmente apportate, prima del ‘700, alla stessa planimetria della sua “Casa da Padrone”. È però da dire a questo punto che comunque, al di là di questa tanto utile ma purtroppo negata verifica e al di là delle modifiche strutturali e architettoniche che sappiamo aver via via accompagnato la trasformazione del fabbricato da deliziosa sede residenziale in semplice abitazione del fattore e più ancora magazzino dei prodotti e degli attrezzi della tenuta (e questo da quando i Pio/Savoia, nel corso del XVIII secolo, decisero di trasferire a Roma), il palazzo di fatto non ha visto compromessa né l’imponenza né tanto meno l’eleganza che i grandi volumi avevano originariamente assegnato alle diverse sue componenti, a partire dalla grande torre di scolta che da sempre svetta su tutto il complesso. Formata da due piani oltre il piano terra, la costruzione si basa su di un nucleo quadrangolare (la preesistente “casa padronale”?) che però, per i volumi che vi vengono aggiunti in corso d’opera, finisce per concludersi nella grande pianta rettangolare che ancor oggi presenta. All’interno della quale, eccezion fatta per l’ultimo piano e nonostante le alcune tramezzature successivamente innalzate, risulta appunto evidente quanto ampie e ariose fossero in origine le sale d’onore e i saloni di rappresentanza. E dove, seppur modesta nella fattura, si offrisse e si offra una lunga quanto agevole e dignitosa scala che, agganciata a spirale nei quattro muri portanti della torre (parte integrante del palazzo in quanto sua ala destra), permetteva (e permette) di raggiungere comodamente i due piani superiori e la stessa sommità della torre. Fin dall’inizio caratterizzato dai diversi ordini di finestre che ne abbellivano i tre piani e dal lungo porticato a colonne che, al piano terra, separava l’entrata principale dall’antistante cortile-giardino, è soprattutto dalla mala sorte toccata a questi ultimi elementi architettonici che l’antico palazzo evidenzia i segni più appariscenti delle ferite subite. Ferite che, oltre l’avvenuta muratura di gran parte delle finestre originarie e l’avvenuto abbattimento del lungo porticato sul cortile (le sue due colonne estreme incorporate nel muro sostitutivo), tra le altre cose sono state anche aggravate dalla deturpante tramezzatura di alcune sale e dall’impietosa imbiancatura di quelle pitture che ancora abbellivano non poche pareti e alcuni soffitti a cassettone che, oggi del tutto spariti, pur erano presenti nel palazzo. Per la lunga gestione del quale, si sa, furono sempre coinvolte famiglie nobili e potenti ma soprattutto famiglie fedeli alla Curia ferrarese (anche se si sa che non poche di loro erano invece effettivamente “raccomandate” dal duca estense più che scelte dal vescovo). Così come si sa, almeno per quel che attestano le fonti a tutt’oggi disponibili, che della “possione detta Motta” e della “Casa da Padrone”che vi sorgeva ne parla per la prima volta un rogito datato 1401, laddove certifica che l’una e l’altra erano state date “in uso et in dominio” alla nobile famiglia ferrarese dei Turchi-Fantoni e che il relativo contratto era stato basato sull’antico istituto medievale dell’“investitura a titolo di feudo”. Documenti successivi dimostrano poi come siano i Gualengo a subentrare nella proprietà nel 1426, seguiti a loro volta dai Macchiavelli Dalle Frutta nel 1496 e come, dopo una breve parentesi di gestione da parte del duca estense, gli stessi ne risultino nuovamente infeudati nel 1517 (questa volta, però, attraverso il matrimonio di una loro erede con il Conte Alessandro Faruffini che – come già s’è detto - sarà il committente del palazzo residenziale di cui qui stiamo trattando). Seguiranno i Faruffini-Quais nel 1536 e i Quaina-Nigrisoli nel 1575 e quindi ancora i Gualengo nel 1622, i quali – attraverso una serie di successioni sia dirette che acquisite per via matrimoniale vuoi con la famiglia dei Tassoni-Estensi prima, e dei Villa e dei De Novatis poi – praticamente finiranno per conservare l’investitura della “Motta” fino al 1653, anno in cui subentrerà la famiglia dei Pio/Savoia. Famiglia, si badi, che rispetto a chi altri l’avevano preceduta o seguita nella proprietà di quel feudo, sarà l’unica a far giungere a noi – con il palazzo - il nome del proprio casato e, con esso, l’eco delle sue origini tanto antiche e della sua storia tanto prestigiosa. Tanto antiche, le prime, se dei Pio se ne parla già nel IX secolo; e tanto prestigiosa la seconda se, ad esempio, nel 1419 “per meriti militari – scrive il Frizzi – i Pio ebbero dal Duca Sabaudo il dono del cognome dei Savoia”. Una famiglia, la loro, che – sebbene molto spesso in urto con la Casa d’Este (al punto che nel 1598, alla vigilia della devoluzione di Ferrara allo Stato Pontificio, non avrà scrupoli nell’allearsi con il Papa Clemente VIII a dispetto degli Estensi) – nondimeno tra il XV e XVI secolo era finita loro feudataria in alcune delle grandi proprietà allodiali che la Casa d’Este disponeva sia nel Modenese che nel Ferrarese e nel Rodigino. Della possessione “La Motta” e quindi del suo palazzo padronale i Pio/Savoia erano invece stati infeudati nel 1653 dall’allora Vescovo di Ferrara, il Cardinale Francesco Maria Macchiavelli il quale - poco prima di morire e molto probabilmente perché sollecitato dalla stessa Curia romana che ai Pio dava gran credito e autorevoli amicizie – aveva appunto deciso di dare in gestione al Cardinale Carlo Pio/Savoia (poi suo successore nella guida della diocesi) quel “terreno casamentivo con casino, chiamato la Motta” che la mensa vescovile disponeva “nella detta Villa de Trisigale”. Un’investitura, la loro, resa possibile perché proprio in quell’anno era morto il tenutario di quel feudo, il Marchese Galeazzo Gualengo, ed era morto senza lasciare eredi diretti maschi, sicché la sua famiglia – per quel che stabiliva una specifica Bolla emessa da Papa Pio V nel 1567 – si era vista esclusa da ogni diritto di successione nell’investitura feudataria (come era accaduto agli Estensi nel 1598 quando il Duca Alfonso II morì senza lasciare eredi). I Pio/Savoia, anche quando non più residenti nel Ferrarese, conserveranno comunque la proprietà sulla “Motta” (servendosi di propri fattori-fiduciari o subaffittandola a terzi) e questo fin verso la fine del XVIII secolo; fin quando cioè, con la discesa di Napoleone in Italia, anche quel patrimonio, come del resto tutti i beni degli enti religiosi in Italia, non finirà per essere espropriato dal demanio del nuovo Stato unitario. Messa poi in vendita (con una lunga serie di proprietari-affittavoli succedutesi nel frattempo, dai nobili Costabili-Containi di Ferrara ai Montecuccoli di Modena, dai De Ferrari di Genova ad altri ancora), la possessione “Motta” – con il suo antico palazzo padronale e con quel che nella sua “corte” si era nel frattempo aggiunto e cioè “una bottega di fabbro, una scuderia, una cantina, un forno ed anche un pozzo” – nel 1872 finirà acquistata dalla Società Bonifiche Terreni Ferraresi che poi, nel 1914, rivenderà (ma solo il palazzo residenziale) alla famiglia tresigallese dei Monesi. Questi ultimi, dopo aver più volte proposto – ma inutilmente – al Comune di Tresigallo di acquistare lo storico monumento, verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso, venderanno l’immobile all’Impresa edile dei F.lli Matteucci che ne manterrà la proprietà fino al maggio del 2009, data in cui l’Amministrazione Comunale di Tresigallo ha finalmente concluso le trattative per l’acquisto dell’antico palazzo. Sicché, se fino a oggi la cinquecentesca residenza è rimasta lì a far mostra della sua antica nobiltà ma, più ancora, dell’avvilente degrado che via via ha subito dall’incuria del tempo e dell’uomo, ora – con la nuova proprietà pubblica – c’è da ben sperare che si provvederà quanto prima a sostituire il vecchio cartello “Edificio pericolante” con uno nuovo dove si possa invece leggere “Lavori in corso per la messa in sicurezza dello stabile, quale monumento-patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco”. A questo si dovrebbe subito provvedere, mentre del suo recupero e del suo riutilizzo se ne dovrebbe invece parlare in un secondo momento, coinvolgendo tutti coloro che, operanti nel Ferrarese sia nel pubblico che nel privato, per meritorie imprese del genere già più volte hanno dimostrato grande sensibilità e concrete disponibilità. Prendo qui occasione per risolvere – smentendola – la vecchia diceria che si tramandava fin dai tempi antichi e cioè che una lunga galleria collegasse il campanile del paese di Tresigallo con il pozzo cortilivo del Palazzo Pio. La cosa è del tutto infondata: con un gruppo di amici, verso la fine degli anni Cinquanta ho avuto modo di effettuare una serie di scavi mirati, per l’appunto, a verificarne l’esistenza, ma l’esito fu negativo.