La dinastia dei Gatti Casazza

Scritto da  Andrea Nascimbeni e Leopoldo Santini

Un famiglia di genio, fra patriottismo, arte e bel cantoUn ritratto di Giulio Gatti Casazza eseguito dallo Studio Mishkin di New York agli inizi dell ‘900.

Il distratto passante, sia esso turista o cittadino, che transitasse ozioso - magari in una luminosa mattina d'inverno, quando il sole che sorge dagli archi della prospettiva illumina tutta la via - e che, per caso, sollevasse lo sguardo verso la lapide di corso Giovecca poco sopra al numero civico 157, non crederebbe ai propri orecchi se gli venissero narrate tutte le vicende occorse agli abitatori di quel palazzo, nell'arco di tempo che va dall'800 ai giorni nostri. Le loro storie si intrecciano con la Grande Storia e per alcuni non sono circoscritte alla cerchia delle mura estensi, ma spaziano addirittura oltre oceano. Si comincia dal dedicatario della lapide, Stefano Gatti Casazza che la abitò dal 1881 al 1918, anno in cui morì. L'ufficiale di Stato Civile del Comune di Ferrara, il 9 marzo 1881 scriveva al Sindaco di Mantova certificando che "Gatti Stefano, già residente in codesto Comune, ha stabilito la sua residenza in questo, nella Città, Corso Giovecca N,° 145". Il nostro patriota, nato a Mantova da Angelo e Giulia Chiapponi, crebbe in un ambiente filoasburgico, e per sottrarsi alla leva austriaca si trasferì in Piemonte diciannovenne: trasportato dall'impeto di un cuore generoso che batteva per un ideale d'Italia unita, come tanti "soffermàti sull'arida sponda, volti i guardi al varcato Ticino" s'era arruolato nei cavalleggeri di Alessandria. Un giorno, accampatosi col suo reggimento presso una villa abitata dalla famiglia Casazza, incontra Ernestina: Stefano, già fervente garibaldino, poteva essere una delle tante teste calde di cui era pieno il mondo, pensavano i Casazza. Sembra comunque che le donne della famiglia fossero di diversa opinione, a cominciare dalla madre della fanciulla, Drusilla Bonoris, che distribuiva volantini inneggianti alla libertà, aiutava profughi e carcerati e aveva avuto un nutrito scambio di corrispondenza con Felice Orsini, l'attentatore di Napoleone III. Ma l'amore tra i due giovani alla fine trionfa e non solo il matrimonio viene celebrato: le due famiglie decidono di fondere i cognomi. Nasce così la dinastia dei Gatti Casazza. Stefano parte da Quarto coi Mille sul "Lombardo" agli ordini di Nino Bixio, subisce il battesimo del fuoco a Calatafimi, poi a Palermo, viene promosso sottenente e partecipa alla battaglia del Volturno. Tenente di Stato Maggiore nella divisione del generale Türr, passa nella brigata delle Alpi e poi nei Lancieri di Montebello. Lascia la milizia attiva col grado di capitano di cavalleria. È eletto deputato e senatore del regno. Presiede e dirige il Teatro Comunale di Ferrara. Dall'unione con l'Ernestina, nascono due figli, Giulio Cesare meglio noto come Giulio (1868-1940) e Giuseppe (1870-1947). Giulio ereditò dal padre l'amore per il teatro dell'opera. Un curriculum di tutto rispetto, il suo: Collegio Nazionale di Milano, l'Arnaldi di Genova, per poi passare all'Accademia Navale di Livorno. Ma più del mare e la carriera militare, amava le scienze esatte: si iscrisse alla facoltà di matematica dell'Università di Ferrara quindi alla Regia Scuola superiore navale di Genova dove si laureò nel 1891 in ingegneria navale. Laurea da mettere nel cassetto, perché due anni dopo il padre Stefano venne eletto deputato al Parlamento e rimise la direzione del Comunale nelle mani del Sindaco che la affidò a Gatti Casazza jr, appena venticinquenne. Partì col piede giusto, il giovane Giulio, che assicurò due novità per Ferrara quali Manon Lescaut di Puccini e la Wally di Catalani. È di questi anni l'amicizia con Arturo Toscanini, conosciuto a Genova nel 1890, complice il fatto che i genitori di entrambi erano stati garibaldini e compagni d'arme. L'eco dei successi teatrali di Giulio Gatti Casazza arrivò fino a Milano, dove la neonata Società anonima per la conduzione della Scala, nelle persone del duca Visconti di Modrone e di Arrigo Boito, si rivolsero al Nostro per il rilancio del teatro che aveva saltato la stagione 1897-98 per crisi finanziaria: gli venne affidata a un tempo la direzione amministrativa e artistica, soppiantando la figura dell'impresario d'opera, in omaggio alle sue qualità manageriali da sovrintendente moderno. Il campanilismo meneghino lo accolse con scetticismo, come riporterà Giorgio Padovani sulla "GazzettaUn ritratto teatrale di Giulio Gatti Casazza degli anni ‘30 Nel Novecento. Ferrarese" nel 1928: "A Milano si ride, si sogghigna, si commenta, si affilano le armi... C'è anche un gran nome, che gli si leva contro..."Ci starà tre giorni! Dirigerà un mese a far molto! Si caverà la voglia in poche settimane, l'ingegnere!...". C'è stato dieci anni!" Naturalmente, nell'equipe non poteva mancare Arturo Toscanini: lui, Boito e Gatti Casazza prepararono una stagione che si aprì con I maestri cantori di Norimberga di Wagner in versione integrale, seguita da Iris di Mascagni, appena uscita, Falstaff, Il re di Lahore di Massenet, Gli ugonotti di Mayerbeer e Guglielmo Tell di Rossini. La riorganizzazione operata da Giulio intese adeguare La Scala agli standard europei: aboliti i tagli nelle opere, introdotti il buio in sala e il sipario tendone, vietato alle signore tenere il cappello in testa, niente bis. Durante la sua permanenza si esibirono i maggiori interpreti del tempo: da Enrico Caruso, al basso Fedor Chaliapin, al giovane baritono Tita Ruffo, fino al promettente Tullio Serafin alla bacchetta. La fama di Gatti Casazza rimbalzò oltre oceano: il presidente del consiglio di amministrazione del Metropolitan di New York, Otto Khan, gli affidò la direzione del teatro staunitense: ovviamente, via Giulio dalla Scala, via Toscanini. Gli anni che vanno dal 1908 al 1935 furono gli anni d'oro del teatro newyorkese: vennero messe in scena oltre 160 opere e divenne comune l'esecuzione in lingua originale. Dopo il ritiro a vita privata, tornò definitivamente in Italia e a Ferrara dove morì nel 1940. Il fratello Giuseppe divenne pure lui ingegnere (civile) con la passione della fotografia stereoscopica: acquistò un apparecchio Verascope-Richard e fu tra i promotori dell'Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica di Torino del 1902. L'anno successivo si trasferì a Firenze con la moglie Antonietta Santini e le figlie Andreina e Malvina per coltivare un'altra delle sue passioni, l'arte della ceramica. Troviamo dunque Giuseppe cultore di varie discipline, amante dell'arte applicata, collezionista lui stesso, in un crocevia di centri culturali dell'Italia artistica "che contava", tra Milano e Venezia, dove poi abitò in Rio di San Marcuola. I soggiorni nelle capitali artistiche non gli impedirono di essere generoso con la sua Ferrara non solo in morte. Donò per esempio un dipinto raffigurante il Poeta alla Biblioteca Ariostea in occasione delle nozze della figlia minore, Malvina, col Capitano Marchese Renzo Paulucci delle Roncole, nel 1920: costui fu poi consigliere della Cassa di Risparmio di Ferrara, come il figlio, Marchese Stefano, avvocato del foro ferrarese, scomparso nel 2004, a un solo anno dalla morte della moglie, Marchesa Anna Maria Castelbarco Albani. Ma i legami con la Cassa di Risparmio si consolidarono ben oltre le parentele. Festeggiando la Cassa nel 1938 il suo primo centenario, affidò a Giuseppe Gatti Casazza e a Carlo Savonuzzi, ciascuno secondo le proprie competenze, il compito di risistemare il piano nobile del Palazzo di Corso Giovecca.

Da Andrea Nascimbeni e Leopoldo Santini