La riconciliazione della chiesa latina con quella greca è passata anche da Ferrara
Chi non ricorda lo storico abbraccio fra Papa Paolo VI e il Patriarca ortodosso Atenagora, il 6 gennaio 1964 a Gerusalemme? I cinegiornali dell'epoca ci hanno trasmesso le immagini – rigorosamente in bianco e nero - di questo memorabile evento: il gigantesco patriarca e l'esile pontefice, entrambi sorridenti, con le braccia alzate, prima dell'abbraccio affettuoso, degno di due vecchi amici che si rincontrano dopo tanti anni. All'aeroporto di Ciampino, alla folla dei romani che gli aveva tributato un'accoglienza calorosa, Papa Montini disse: "...Vi dirò soltanto questo, stasera, che ho avuto la grande fortuna stamane di abbracciare, dopo secoli e secoli, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, e di scambiare con lui parole di pace, di fraternità, di desiderio della unione, della concordia e dell'onore a Cristo e di vantaggioso servizio per l'intera famiglia umana." I "secoli e secoli" cui faceva riferimento Paolo VI sono esattamente 526 anni intercorsi dall'altro incontro avvenuto l'8 marzo 1438 tra il pontefice Eugenio IV e il patriarca di Costantinopoli Giuseppe. Diversissimi la "regia", il clima, il contesto di questo evento secondo le cronache, gli 'Acta Latina' di Andrea da Santacroce, riportati dal Gill. A cavallo i greci raggiunsero il Palazzo dove dimorava Eugenio e furono guidati attraverso i vari appartamenti fino all'anticamera papale. Il patriarca fu il primo a essere introdotto al cospetto del Papa, insieme a cinque metropoliti: non aveva il suo abituale copricapo né portava il bastone. Fece la proskynesis a Eugenio IV, che, in piedi, gli strinse la mano; lo baciò sulla guancia e quindi si assise su un trono appositamente preparato alla sinistra del Papa. Una breve conversazione, con Cristofaro Garatoni, grecista alla scuola di Guarino Veronese, che faceva da interprete: poi il patriarca Giuseppe si ritirò nella sua dimora. Il fatto singolare e degno di nota, almeno per noi, è che l'incontro avvenne a Ferrara, nell'ambito del XVII Concilio Ecumenico che, iniziato a Basilea nel 1431, proseguito a Firenze e terminato a Roma, ebbe una fase ferrarese durata un anno, dal 1438 al 1439. Questo Concilio è importante nella storia, perché sancì la riconciliazione della Chiesa latina d'occidente con quella greca d'oriente: l'anno ferrarese è da ritenersi fondamentale, ancorché non conclusivo, perché pose le basi del futuro avvicinamento fiorentino. Le difficoltà procedurali, le distanze teologiche fra le due posizioni erano notevoli, e si manifestarono ben presto in tutta la loro complessità. I prodromi del loro superamento, avvenuti proprio nella città estense, impensabili e insperati, costituiscono un fulgido esempio di paziente tessitura, come dice Ambrogio Traversari, generale dei Camaldolesi, in una lettera al pontefice del 29 aprile 1438, in cui esorta Eugenio e i padri latini a tollerare l'orgoglio e l'eccessivo formalismo dei greci smussandone gli spigoli (in honore omnino habendi sunt, officioque mulcendi et leniendi). Paradossalmente, un evento di tale portata non trova l'eco adeguato nelle cronache locali: la "ferraresità" del Concilio, non fosse che per Scalabrini (trascritto dall'Antonelli), Frizzi, Muratori, Cittadella - si tratta comunque sempre di tardivi – sembra quasi trascurata. Fortunatamente, in anni recenti gli studi di Alfonso Lazzari nel 1939 e poi di Adriano Franceschini, Guerrino Ferraresi, Teodosio Lombardi, Luciano Chiappini, Enrico Peverada, Adriano Cavicchi, Lewis Lockwood, Ravalli Modoni, Brandmuller, Silvia Ronchey, hanno squarciato il velo di caligine posatosi nei secoli. Anche un interessantissimo convegno di studi, promosso dall'Università di Ferrara nel 1989, ha messo a fuoco le problematiche connesse, rendendo giustizia all'importanza dell'anno ferrarese del Concilio, indagando nomi e fatti, ma soprattutto enfatizzando, giustamente, - tra l'altro - come la presenza di tanti studiosi provenienti dall'Oriente, abbia contribuito a risvegliare l'interesse per i classici. Intento di queste pagine non può essere, ovviamente, di approfondire questo o quell'aspetto di un capitolo di storia così carico di intrecci che travalicano i confini angusti di fatto locale – e che confermano, peraltro, il ruolo importante di Ferrara, capitale della signoria estense, nello scacchiere non solo italico ma, si passi il termine, "europeo" – bensì di fornire una breve cronaca ragionata di quei giorni lontani, sottolineandone le luci e le ombre, la portata e le valenze, in ordine all'unione fra le due Chiese e lasciando ad altri, più versati del sottoscritto, imprese di quella posta. Innanzitutto i motivi della scelta: perché proprio Ferrara? Joseph Gill ne Le Concile de Florence, nell'enumerare i vantaggi della scelta, parla di Ferrara come di una bella città ("cette ville agréable, bién fortifiée") a cui Bonifacio IX aveva concesso nel 1391 una carta di fondazione per uno studio con potere di rilasciare diplomi: benché lo Studio fosse rimasto in quegli anni più chiuso che aperto ("a vrai dire, cette université était restée les plus souvent fermée") tuttavia nel 1439 "elle comptait parmi ses professeurs des personnalités éminentes, telles que Guarino Guarini Veronese, qui y enseignait le latin et le grec, et le célèbre Ugo Benzi, qui avait professè a Paris et à Padoue". Il Gill continuava con l'amenità del paesaggio circostante: (généreuse et bien irriguée par de nombreux reliés au Pô), ottimi raccolti di grano e boschi e campi nutrivano animali da pascolo e selvaggina; le acque salse della laguna di Comacchio "offraient également des poissons de tout espéces, si bien que la villeétait en mesure de nourrir la foule que drainerait assùrement le concile"; inoltre, facilmente accessibile da Venezia, porto di arrivo dei greci. Tutte ragioni, secondo il Gill, che ne facevano la candidata ideale agli occhi di Papa Condulmer – tra l'altro nativo di Venezia - per trasportarvi il concilio, che voleva si svolgesse in condizioni di pace e sicurezza: Ferrara si teneva prudentemente lontana dalle lotte e dagli intrighi dei potentati viciniori facendo più di una volta da paciere e Nicolò III d'Este ne era il garante. A parte le pennellate idilliache con le quali Gill guarnisce il racconto, quattro sembrano essere le ragioni che hanno influito su tale scelta. La vicinanza con Venezia, grande potenza marittima, il cui Senato gradiva che le deliberazioni conciliari venissero prese in un territorio geograficamente vicino: l'unione coi greci avrebbe avuto per la Serenissima, al di là dell'importanza ecclesiale, innegabili risvolti positivi in termini commerciali. In secondo luogo, la curia pontificia e lo stesso Papa potevano accedere più facilmente da Bologna, allora residenza papale, alla vicina Ferrara. Poi, Nicolò III, vassallo della Santa Sede e signore di Ferrara, era quanto mai ben disposto a ricevere i padri conciliari come provano il testo del salvacondotto scritto a Ferrara il 14 settembre 1437 (dove non solo promette sicurtà, libertà e un trattamento di favore consono alla dignità degli ospiti, ma garantisce vitto e alloggio abbondanti "...Circa autem pensiones domorum, forum seu pretium victualium ac omnia alia ad usum dicti concilii hic existentium necessaria seu quomodolibet oportuna abundanter et alias...provideri faciemus ": per fornire farina e frumento alla comitiva papale, il Comune deliberò una colletta di diecimila lire), i capitoli de ordine externo concilio servando et de sustentatione conveniente synodalium e i decreti del Giudice dei Savi del Comune di Ferrara. Avvenne, in seguito, che i pagamenti venissero fatti con molto ritardo, e questo fosse fonte di lamentela costante. Inoltre, a seguito degli accordi stipulati a Bologna fra Nicolò e il cardinale tesoriere Francesco Condulmer, i greci avrebbero avuto quanto loro spettava non in denaro ma in natura, cosa che l'imperatore Giovanni IV Paleologo rifiutò. Infine, quarto motivo, anche agli Orientali piaceva una città vicina al Mare Adriatico e al porto di Venezia in particolare. A essi, il Ferraresi aggiunge, non senza acume, l'amicizia del pontefice col vescovo di Ferrara, il beato Giovanni Tavelli da Tossignano. L'aspetto panoramico di Ferrara di quell'epoca può ricavarsi dalla pianta, eseguita da Bartolino Plotti da Novara nel 1362, dall'arazzo del Karker sul cartone del Garofalo, conservato nel Museo della Cattedrale, o dal prospetto di Luca Danese. Ferrara – al di là della sua "fisicità", ma senza prescindervi -, accoglie il Concilio in un momento particolare: prima dell'ascesa di Leonello, delle innovazioni e trasformazioni di Borso ed Ercole, in un periodo di grande fermento culturale in cui emerge la statura di Guarino da Verona. E poi di Giovanni Aurispa, Paolo Dal Pozzo Toscanelli, da Michele Savonarola a Ugo Benzi, a Leon Battista Alberti, che dedica a Leonello d'Este nel 1436 Il Filodosso: "periodo – quello di Nicolò III – di avvio di eventi risolutori" come lo ha definito Gundersheimer. Il 6 gennaio 1438 - seguiamo lo Scalabrini - il Cardinale di S. Croce Nicolò Albergati, legato papale, "quasi più cognito in questa Città, di quello che fosse in Bologna, dove era nato, fu ricevuto dal marchese, dal Vescovo, clero nobiltà e popolo, con gli onori che soglionsi fare a tali rappresentanti". Il Libro delle spese della Sacrestia registra "pro duobus fachinis qui pulsarunt campanas per duas horas quando Dominus Legatus Sanctae Crucis cum Episcopis fecerunt primam sessionem": due ore di campane a distesa per un corteo di cinque arcivescovi, ventidue vescovi, abati, provinciali, generali di ordini religiosi. Imponente e spettacolare l'ingresso in città di Eugenio IV, a cavallo, sotto un baldacchino "fatto costruir dal comune colla maggiore magnificenza" accompagnato dal marchese Nicolò che reggeva le briglie secondo una regia, un cliché tipico di simili avvenimenti e che esaltava gli aspetti simbolici (la presa di possesso della città) attraverso l'esibizione di sé, il "dialogo" con la folla plaudente. Un successo per l'abilità diplomatica di Nicolò, che Guillaume Dufay, il più rappresentativo polifonista fiammingo del '400, celebrò nella ballata (1433) "C'est bien raison de devoir essaurcier" con la chiusa: Prince, je voeil manifester son nom: / Il est marquis et souverain recteur / De Ferrare, Nicholas l'appell'on. /Bien est doté peuple d'un tel seigneur. Spero sarà interessante un breve sguardo ai "luoghi conciliari", una sorta di rapido excursus nei luoghi collegati alle sessioni o ai personaggi del Concilio. Il monastero di S. Antonio in Polesine, in primis, dove per via d'acqua giunse Eugenio IV il 24 gennaio 1438 sotto una tempesta di neve, secondo quanto asserisce il Muratori, e da dove, dopo aver celebrato la messa del patrono, il gennaio 1439, se ne partì in nave attraverso il Po e il Panaro, per Bondeno e Finale e, scansata Bologna occupata dai milanesi, raggiunse Firenze. La Cattedrale, in cui si svolsero la prima sessione solenne dell'8 gennaio 1438, la terza del 10 gennaio, l'ottava, del 15 febbraio presente il Papa, l'apertura solenne del 9 aprile e l'ultima sessione del 10 gennaio 1439: a motivo della peste, il concilio fu trasferito a Firenze. La Cappella del Castello Estense dove si tennero molte sessioni a causa del cagionevole stato di salute del papa. La Chiesa di San Francesco (e la sua sacrestia): qui si svolsero oltre ai colloqui preliminari tra le due delegazioni, le dispute sul Purgatorio, sul Simbolo (Filioque), sull'Eucarestia (pane azimo) dal 14 giugno al 17 luglio 1438. San Giuliano, nei cui pressi venne sepolto Dioniso di Tessalonica, metropolita di Sardi, il 24 aprile 1438. A questi si potrebbero aggiungere le "case de' Ruberti di Tripoli, nella contrada di S. Maria di Bocche", dove secondo Scalabrini, fu alloggiato il patriarca Giuseppe; o la chiesa di S. Andrea, consacrata solennemente dal Papa il 13 marzo 1438, officiata dagli eremitani di S. Agostino. Un'ultima interessante questione riguarda la presenza a Ferrara di Guillaume Dufay. Un pagamento di corte del 6 maggio 1437 rende ragione di una somma di 20 ducati, pagati a "Guielmo de Fait, cantadore nella cappella del Papa" senza specificarne il motivo. Sembra assai incredibile che un musico della portata del Dufay - che usava come monogramma un rebus formato dalla sillaba "Du", dalla nota Fa scritta sul pentagramma e dalla lettera "y -, legato sia agli Estensi che al pontefice Eugenio IV, per cui compose il mottetto Ecclesiae militantis in occasione della sua elezione, non partecipasse al concilio. Risulta tuttavia in modo documentato che nel 1437 ricevesse una dotazione di panno per abiti dalla corte dei Savoia, e che nell'inverno del 1438, con altri cappellani di Amedeo VIII lasciasse Le Bourget per Pinerolo per passarvi l'inverno. La storia, d'altronde, si fa coi documenti.