Una nobilissima brigata a caccia per Lucrezia Borgia
La caccia e il suo mondo ancora infiammano una controversia millenaria: da una parte alcuni, come Roger Scruton, filosofo conservatore inglese, vi scorgono l'affermazione di un sistema sociale, dall'altra, altri l'accusano di primitiva ferocia. Neanche la scrittrice Marguerite Yourcenar, pur critica nei confronti di ogni forma di violenza, sfugge tuttavia al fascino della civiltà venatoria della quale così coglie l'essenza: "Promosso uomo di città, vi ha scorto la possibilità di reimmergersi periodicamente nell'ambiente ancora selvaggio che non ha cessato in fondo di rimpiangere. Ha arricchito questi giochi violenti dei piaceri sapienti dell'addestramento; vi ha associato cavalli, cani, e a volte uccelli da preda. Ne ha fatto una scuola di astuzia, una prova di resistenza, sovente un'occasione di fasto". Ma la caccia non si limita ad animare le conversazioni dei salotti letterari, l'esperienza di essa o solo lo spettacolo che offre innescano un immaginario che spesso esplode in vivida pittura e in letteratura di grande efficacia visiva. È ciò che accadde a Ferrara tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento: la caccia era il passatempo favorito alla corte estense. Lionello d'Este ne era così assorbito che il suo precettore Guarino da Verona si sentì in dovere di richiamarlo a concentrarsi sulla sua crescita morale, e altri intellettuali, quali Michele Savonarola (1385-1466), medico personale del duca Borso, e Ludovico Carbone (1430- 1485), letterato e cortigiano del duca Ercole, pur riconoscendo che la caccia fortifica corpo e anima, non mancarono di criticarne la violenza e la dispendiosità. Nondimeno, la corte vive e si rappresenta cacciando: a opera di Borso si moltiplicarono le così dette delizie, una corona di riserve intorno a Ferrara lungo il Po e i suoi rami dove si allestivano magnifiche battute e dove i cacciatori e il loro seguito trovavano ristoro in ville affrescate. Fu proprio Borso a trascurare il vetusto palazzo di città in favore dell'appena rinnovato palazzo di Schifanoia il cui Salone dei Mesi è un inno di lode alla civiltà della caccia. All'interno delle cornici architettoniche classicheggianti del registro inferiore, Borso, circondato dalla sua corte quasi esso stesso fosse uno spettacolo da ammirare, è sempre raffigurato in attività connesse con la caccia, mentre la guerra è completamente bandita dal ciclo. Ne risulta che la caccia, sport che appartiene all'otium delle campagne, è intesa come allenamento di resistenza a fatiche e intemperie e di lotta propedeutica alla guerra e suo sostituto in tempo di pace. Compagni di caccia dei duchi d'Este e tra i loro più stimati familiari furono Tito Vespasiano (1424-1505) ed Ercole Strozzi (1471-1508), padre e figlio, entrambi uomini d'azione in quanto politici (furono giudici dei Savi) e uomini di pensiero in quanto poeti. Entrambi si distinsero nella poesia latina eleggendo a loro modelli Virgilio, del quale amarono e imitarono la delicatezza nella descrizione dei paesaggi e lo stile raffinato, e Ovidio. Padre e figlio dovettero amarsi molto: non solo politica e poesia li accomunavano, ma anche la passione per la caccia, della quale le loro opere offrono numerose testimonianze. Non si tratta di opere didascaliche, come quelle in prosa e versi che proliferarono nella seconda metà del secolo XVI, dopo che gli eredi di Aldo Manuzio pubblicarono i poemi sulla caccia di Oppiano e Nemesiano (1517 e 1534), ma di componimenti dedicati a cani e falconi o di diffuse descrizioni che commemorano o inventano battute di caccia legate a momenti politici importanti. Nella Borsias, Tito Vespasiano narrò di Borso giovinetto a caccia d'uccelli nelle paludi intorno a Ferrara (VI, 115-173) con una precisione che si trasforma in grazia là dove descrisse le circonvoluzioni aeree dei falconi. Cantò anche la battuta di caccia organizzata da Filippo Maria Visconti per Borso d'Este nella riserva di Cusago, che pare uno dei modelli del poema venatorio di Ercole. La battuta è connessa con un evento politico, una visita di stato ed è l'occasione per il vecchio duca di Milano di esibire davanti al figlio del suo alleato un'immagine quanto più ricca e stupefacente possibile della propria potenza attraverso la magnificenza della caccia. L'apparato venatorio è fastoso e la descrizione molto vivace. L'occasione politica di rilievo e la celebrazione di personaggi storici attraverso le loro gesta venatorie con alternanza di toni gravi e leggeri si ritrovano anche nell'opera maggiore del giovane Strozzi, Venatio o La Caccia. La Venatio è la narrazione poetica della battuta di caccia che Carlo VIII di Francia avrebbe organizzato nella tarda primavera del 1494, alla vigilia della sua funesta campagna d'Italia, per sancire l'accordo avvenuto con Ludovico il Moro, i cui ambasciatori, Niccolò da Correggio, figlio di una sorella di Ercole I d'Este, e Galeazzo Sanseverino, genero del Moro, si trovavano alla corte di Lione. In quegli anni i rapporti tra il ducato Estense, Milano e la Francia erano buoni e, inoltre, Ferrante, figlio di Ercole, era 'ospite politico' del re di Francia. Del poema rimangono due testimoni: un manoscritto autografo, principiante in una bella corsiva umanistica che diventa vieppiù frettolosa fino a parere di mani diverse, conservato alla biblioteca Ariostea, e l'edizione aldina del 1513, che raccoglie alcune opere di Tito Vespasiano e l'opera completa di Ercole, commissionata ad Aldo da Lorenzo e Guido Strozzi per commemorare il fratello vittima di un misterioso assassinio nel 1508. Vi si narra una battuta di caccia che s'ispira a modelli classici e vernacolari: come la caccia di Enea e Didone in Eneide IV, inizia all'alba ed è interrotta da un temporale a mezzogiorno, e, come quella al cinghiale di Calidone in Metamorfosi VIII, contempla un catalogo di illustri cacciatori, ma, come nelle cacce in volgare inventate da Boccaccio, da Antonio Bonciani e da Lorenzo de' Medici (rispettivamente Caccia di Diana, Caccia di Belfiore e Uccellagione di Starne), accanto a personaggi mitologici figurano anche personaggi storici. Nel nostro poema, cavalcature delle migliori razze e apparati sontuosi, ma anche abilità e audacia nella lotta contro cinghiali, uri e orsi, illustrano una brigata di cacciatori che non teme incoerenze e anacronismi. Carlo VIII, Galeazzo Sanseverino, Niccolò da Correggio e il solitario e superbo Alcimus sono i protagonisti della versione manoscritta, ai quali nell'Aldina si aggiunge la più eletta tra le schiere: Ippolito d'Este, Cesare Borgia, Michele Marullo, Pietro Bembo, Antonio Tebaldeo, Giovanni Gioviano Pontano, Tito Vespasiano Strozzi, Timoteo Bendedei, Giovanni e Giovan Francesco Pico della Mirandola e Ludovico Ariosto. La moltiplicazione dei
personaggi storici si spiega con l'esigenza di trasformare un poema che, a seguito della caduta e dell'esilio del Moro nel 1500, era divenuto inattuale: il poeta nel proemio riscritto non dichiara più di voler cantare la gloria di casa Sforza, ma aggiunge all'invocazione finale ad Apollo quella a una decima Musa, Lucrezia Borgia, che nel 1502 aveva sposato Alfonso d'Este. I cacciatori sono personaggi vicini alla corte di Ferrara, alcuni intimi di Lucrezia, come il fratello Cesare e il Bembo, o suoi ammiratori e cantori, quali Tebaldeo, il vecchio Strozzi e l'Ariosto, e tutti amici del poeta. Il panegirico ha cambiato quindi destinatari: non più il re di Francia, e indirettamente il duca di Milano, ma Lucrezia Borgia, che intorno a sé riunisce tali alunni delle Muse, e l'allora potentissimo Cesare duca di Valentinois. Poesia, storia e mitologia nella Venatio si confondono a molteplici livelli, dalla struttura dell'opera, all'occasione della caccia e soprattutto nelle descrizioni dei personaggi, per le quali spesso Strozzi ha in mente modelli virgiliani che mai dichiara esplicitamente e ai quali rimanda attraverso citazioni e allusioni. La prima parte del poema si presenta come una galleria di ritratti equestri di personaggi illustri. La miniatura descrittiva che ritrae Ippolito d'Este è emblematica della ripresa dei modelli classici operata da Strozzi. Il giovinetto cardinale è presentato con una movenza che richiama il bell'Aventino, figlio di Ercole nel catalogo degli alleati italici di Eneide VII, per accennarne la potenza e la bellezza quasi divine. Non solo nobiltà e bellezza consentono a Ippolito di eccellere, ma anche la sua impavida generosità che l'induce a salvare il giovane Aminta minacciato dalle zanne di un cinghiale. Il poeta adopera lo stesso schema descrittivo nella presentazione di Cesare Borgia il cui nome è posto in posizione di privilegio a fine verso, così da richiamarne l'identificazione con l'eroe romano. Contrariamente al cardinal Ippolito, Cesare Borgia veste sontuosamente e porta appesa a una catena di maglie dorate una gemma incisa con il toro dalle corna d'oro, le armi del suo casato. Nel mezzo di questo dispiego di ardore venatorio c'è un cacciatore anomalo, distratto, che si lascia fuggire i cani: questi è Ludovico Ariosto. Strozzi gli tributa un confidenziale segno di amicizia ritraendolo esclusivamente come un poeta meditabondo e intento a pensare versi d'amore, ben lontano quindi dall'amor di preda dei suoi compagni. Il molto più celebre lamento che lo stesso Ariosto proferì quando il cardinal Ippolito lo costrinse a diventare da poeta uomo d'azione "Di poeta cavallar mi feo" (Satire VI, 238) rivela la stessa inclinazione tratteggiata da Strozzi. Il poema non ha mancato finora di lettori celebri ed entusiasti: il latino di Strozzi ottenne la lode di Giosué Carducci che lo dichiarò nel suo saggio sulla giovinezza dell'Ariosto "il più bel verseggiatore del rinnovato latino " e fu ammirato da Maria Bellonci che parlò di "distillata eleganza di latinista". La Venatio, tanto piacque a Joseph Lavallée, gentiluomo appassionato di caccia e autore nel 1855 di un saggio intitolato La Chasse à tir, che nel 1876 la tradusse in forbiti alessandrini francesi. Due allievi di Carducci, Carmelo Monteforte e Maria Wirtz, produssero nel 1896 e nel 1911 delle monografie su Ercole Strozzi, così come Maria Pesenti Villa nel 1915, ma a tutt'oggi la Venatio ancora attende un'edizione con traduzione in lingua italiana e commento che avrebbe il pregio di scioglierne l'oscurità sintattica favorendone il pieno godimento del pregio letterario e la piena comprensione della sua importanza culturale.