vegetali, fascinosamente oscillanti tra scienza e poesia della microvita; ma anche pensatori di fama universale (Rousseau, Goethe, von Chamisso, Hesse), poeti (Pascoli, Sbarbaro, Dickinson) e pittori (Paul Klee tra tanti) che hanno rivolto un acuto, dolce sguardo verso il basso, posandolo su zolle di campi e di giardini, per osservare e celebrare - cogliendole- umili forme vegetali, sognando di catturarne il segreto. Il Louvre ha accolto permanentemente, nelle sue nobili sale, opere dell’artista contemporaneo Anselm Kiefer: un pannello e due nicchie con sculture. Una contiene un’arida “zolla” con dodici girasoli secchi, dal capo reclinato «fiori come svenuti, direbbe De Pisis». Tale zolla, offerta a milioni di sguardi, ne richiama altre più famose: spicca La grande zolla di Dürer, primo a dare dignità d’arte ad un umile mucchietto di terra, col suo corredo di erbe. Leonardo dipinse coloriti Baccelli, ciliegie e fragola selvatica, aspetti minuti di un mondo naturale che atanto sguardo offriva spettacoli ben più esaltanti. Da questo piano muove anche l’avventura culturale di Filippo De Pisis (1896-1956), sensibile pittore, tra l’altro, di numerose composizioni floreali, che, nel 1917, ventenne, pubblicò un breve saggio intitolato Fiori e frutti nella pittura ferrarese del Rinascimento, esibendo una compiaciuta erudizione botanica. Il giovane aveva affinato tale competenza con una precoce passione che lo portò a collezionare e classificare più di mille campioni di erbe disseccate; raccolta donata, nel 1916- 1917, all’Orto Botanico di Padova e custodita nell’attuale Erbario (come Istituto universitario), ma dispersa tra più di 500.000 reperti vegetali. L’intera collezione De Pisis è riemersa, dopo tre anni di ininterrotto lavoro, grazie ad una tenace task force, cui appartiene chi scrive; la ricomparsa dei campioni botanici di De Pisis è frutto anche dell’impegno della Curatrice dell’Istituto, Rossella Marcucci, e della giovane Sara Carlin, grazie alla generosità del Garden Club ferrarese, ispiratore della ricerca, che ha anche finanziato la riproduzione fotografica della collezione completa. Una crescente ammirazione ha sorretto il compimento della onerosa ricerca: erano percepibili, infatti, tracce di una formazione estetica del futuro pittore, oltre l’intento botanico. Gli scritti di De Pisis citano frequentemente e con orgoglio l’erbario, la cui esistenza era nota agli studiosi. Ma la raccolta “integra”, come organizzata dal giovane autore, divenne un “oggetto misterioso”; fu dispersa per una discutibile decisione del Prefetto dell’Orto che, nel 1940, smembrò le collezioni del patrimonio padovano (compresi i pacchi De Pisis), creando distinte macrosezioni. In quel profondo mare magnum d’erbe naufragarono i campioni raccolti da De Pisis a Ferrara e provincia, sui colli veneti, emiliani e romagnoli. Riportare alla luce l’intera collezione, foglio per foglio, rendendola di nuovo leggibile, è stato come ri-membrare un corpo. E quei recuperati reperti di archeologia botanica appaiono oggi dei revenants, forme che si porgono alla vista, suscitando significati inattesi. Sorprende che il primo campione dell’artista ferrarese dati 1907 (non aveva che undici anni), mentre gli ultimi fogli della collezione sono del 1917, secondo anno della sua iscrizione alla Facoltà di Lettere di Bologna. Il colto giovane, diretto ormai ad altre mete, pensò di donare a una sede prestigiosa il frutto di un precoce studio della natura, consultata come la più antica biblioteca del mondo. Su ogni foglio della collezione è fissato un campione vegetale disseccato, con elegante targhetta contenente informazioni tassonomiche e improvvisate osservazioni. Espressioni di giovanile entusiasmo ("Un botanico prova dolcissima soddisfazione nel raccogliere e porre nel suo vascolo forme perfette da valorizzare!", "Pianta di raro e immenso sviluppo!", "Vedi insettucci rimasti!", "Odora di camomilla!") e disegni stilizzati di foglie e fiori integrano le protocollari informazioni, che non appagano la tendenza dell’autore al “racconto”. Tutte voci interessanti da esaminare.
Suggestive per i ferraresi le segnalazioni delle località di raccolta: "Cortile dell’Istituto Tecnico (via Borgo dei Leoni"; "Mura del lavatoio pubblico sulla spianata "; "Via che conduce al macello a destra presso le mura"; "Colonna di Piazza Ariostea, fra le crepe"; "Pozzo nel chiostro di San Giorgio" ed altre località della Provincia, con preferenza per Pomposa e litorali sabbiosi. Un fiume d’erbe che agli occhi del giovane sfocia al mare. Con la minuziosa raccolta, De Pisis allena tatto, sguardo, olfatto; accarezza i contorni, divide le parti sterili delle piante dalle riproduttive (una precoce educazione sessuale?), rispettandone il portamento e comprimendone le forme su carta bianca, con effetto ottico bidimensionale. Le piante disseccate, fissate su fogli, decontestualizzate, avvolte in un’atmosfera sospesa, fluttuano a mezz’aria. Le forme in primo piano, ad altezza dello sguardo dell’osservatore, risultano ingigantite, non immerse in uno spazio prospettico, ma emergenti. Missione misteriosa dello sguardo. L’esercizio costante e duraturo del giovane futuro artista può aver lasciato traccia in altri campi: la collezione d’erbe si affianca alla breve stagione dei collages e delle miniature fiorite. Quel rispetto per la forma in natura non soccomberà alla tempesta demolitrice delle Avanguardie. Il suo percorso verso il futuro seguirà il solco della tradizione, come successe a quanti, all’inizio del XX secolo, non seppero o non vollero strapparsi dalle braccia della natura e dalle sue apparenze. Raccolta d’erbe, sradicamento, catalogazione: operazioni coinvolgenti, ma velate di malinconia. I campioni, sradicati vivi, sono fissati -una volta disseccatiancora turgidi, duraturi, ma senza vita. E’ immortalata solo una forma. "L’anima dei fiori vola via", scrive un malinconico De Pisis, "e penso con leggero spasimo al mistero che governa la vita e la bellezza". Il botanicoumanista non trascura "quel qualcosa che si nasconde dietro" (Goethe), che resta velato e provoca inscindibilmente attrazione e struggimento. È lecito chiedersi perché un adolescente si appassioni ad una raccolta d’erbe rigorosa e impegnativa. De Pisis è poco più di un bambino quando lascia le prime tracce di sé: "diari con “impressioni dal vero”", poesie, prose, disegni e primi, incerti dipinti. Per mole e varietà di interessi (le “sudate carte”) ama paragonarsi al Leopardi. Trascorre giornate scrivendo ai Maestri e patendo sui versi del Pascoli. È solitario, meditativo; ragazzo non comune secondo De Chirico, che lo conobbe e frequentò tra il 1916 e il 1917. La curiosità è consueta negli adolescenti, ma De Pisis è onnivoro: nessun oggetto è insignificante al suo sguardo, perlustra soffitte, temporeggia tra le carabattole dei rigattieri alla ricerca di cose, forme "drammatiche" che parlino di storie, di misteri, di bellezza. Con la bici percorre, impolverato e affannato, viottoli e strade fuori porta, attento a frugare intorno ai ruderi, tra il verde dei campi e le prode dei fossi. Nel romanzo-diario Ver-Vert, descrivendo le attività dell’alter ego Felipe, scrive nel capitoletto “A Ferrara”, datato 13. XI. 922: "Alle volte per strada si curvava a raccogliere un fiorellino spuntato tra i sassi, una fronda caduta da un albero e continuava a cammi
nare … osservandola amorosamente come avesse trovato un tesoro (…) aveva per le cose un amore tenerissimo, non quello del collezionista di oggetti rari … ma proprio per le cose in sé, per la loro forma, il loro odore, la loro fisionomia. Poteva bastare un fiore a dargli una sufficiente felicità. Ne riempiva sempre i vasi di varie forme e grandezze che aveva nelle sue camerette. Alle volte si incantava a guardarli; amava alla follia i loro colori, le loro sfumature. Certi gialli oro, certi biancori voluttuosi, certi rossi accesi, e i fiori variegati come farfalle con pistilli, stami, antere, semplici, composti … Amare le cose era forse un modo di avvicinarsi alla realtà, stringerla in un abbraccio così delicato e voluttuoso da non sentirne tutta l’amarezza recondita." La realtà, però, tende a nascondersi, lasciando in bocca quel sapore misterioso: mistero che già De Chirico ha tradotto nelle sue tele in "sconcertanti epifanie" (Barilli, 2007). Dipinti della fase metafisica dell’amico De Chirico erano appesi alle pareti delle camerette ferraresi di De Pisis: teatro della natura e teatro eversivo dell’arte coesistevano davanti ai suoi occhi attenti. Gli oggetti inerti che ingombreranno sempre i futuri ateliers vengono trasmutati in esperienza viva dalle sue affabulazioni (già esistono rigirati entro le sue belle mani). E parlano di "desiderio estetico e fisico, bruciante, come accecante". De Pisis annota: "l’aspetto delle cose, il loro mistero non mi dava tregua", percezione che intride anche la passione botanica. La meticolosa ricerca delle erbe, si sa, è antichissima e la storia degli erbari affascinante. Gli antichi volumi, che descrivevano le virtù delle piante medicinali, contenevano illustrazioni non sempre aderenti al vero. L’evoluzione degli erbari è ricca di sorprendenti implicazioni: descrizioni di farmaci, elettuari e balsami di Venere sconfinano nella magia. Disegni e didascalie sono spesso fantasiosi, ma non privi di rigore sistematico. Eppure, in epoca prescientifica, quei testi apparvero poco attendibili. Tra XV e XVI secolo si impone la novità di erbari composti di piante non disegnate, ma reali, disseccate, compresse tra fogli di carta (come quello depisissiano): ciò per tutelare immagine e integrità dei campioni più rari, raccolti durante costosi viaggi di scoperta, e consentirne lo studio concreto. Tra le collezioni di exsiccata, non si può non citare l’Erbario Estense del XVI secolo, impreziosito da rari reperti che esaltavano il prestigio della Corte. Una tradizione nobile e serissima, intrecciata all’evolversi del sapere, giustifica che un erbario di exsiccata rientrasse tra gli interessi di un "giovane colto-erudito di provincia, di estrazione nobiliare" come De Pisis amava definirsi. Un suo curioso saggio (Adamo o dell’eleganza. Per una estetica ne
l vestire) elenca il possesso di un erbario tra le dotazioni di un perfetto gentleman. Si sa che De Pisis darà preminenza alla pittura tardivamente. Si può ipotizzare che la passione erboristica lasci tracce indelebili sulle future espressioni artistiche, sensibili alle impetuose rivolte primonovecentesche, che ripensano l’arte e il suo mandato, in nome del rifiuto di una cultura accademica e del “tale e quale”. Alla GAM di Torino, nella recente mostra Collage/Collages dal Cubismo al New Dada, di De Pisis era esposto il collage: Natura morta isterica (metafisica) (1919). L’artista vi incolla due carte da gioco e dipinge una rosa, ma con quattro petali al posto dei regolari cinque: il “tale e quale” è già alle spalle … ma non fece mai a pezzi la natura, come i cubisti, né “uccise” il chiaro di luna come i futuristi. Ineludibile ora una domanda. Se consultiamo i cataloghi delle sue opere dipinte, se visitiamo la straordinaria collezione Malabotta, donata generosamente alla città di Ferrara ed ora esibita a Palazzo Massari, cosa ci aspetteremmo da un sapiente raccoglitore di erbe e fiori? Dipinti di specie botaniche perfettamente riprodotte? Il critico Giovanni Cavicchioli, in occasione della mostra allestita a Ferrara nel 1951, per onorare De Pisis già gravemente ammalato, scrisse, citando Delacroix: "La natura è un dizionario … ma nessuno ha mai considerato il dizionario come una composizione, nel senso poetico della parola. I pittori che obbediscono all’immaginazione cercano nel loro dizionario gli elementi che si accordano alla loro concezione; ancora, aggiustandoli con una certa arte, danno loro una fisionomia del tutto nuova. Quelli che non hanno immaginazione copiano il dizionario". I fiori in-vasati dei quadri di De Pisis non sono la copia esatta della realtà. Dipinge tracce dal vero, mazzi di fiori, alberi che tendono a diventare segni, forme. "Ve
dere è troppo poco" scrive. E su molti dipinti sigla "Anima e sogno". Eppure la sua pittura non si affranca dagli oggetti amati e osservati, non compie il salto verso l’informale (Francesco Arcangeli). Non fu un “pittore dei fiori”, nè un pittore facile ad intendersi: "difficilmente verità e fantasia si mescolarono in un composto così inestricabile" scrisse di lui l’Arcangeli. Sappiamo con certezza che la sua arte esiste, anzi resiste e che tutta la produzione di un artista (incluso un erbario) concorre a definirne la mappa complessiva. Per la sua non totale emancipazione dalla forma degli oggetti, non risulti azzardato il poetico accostamento del dipinto Mazzo di fiori (1932), appartenente a Roberto Longhi, recentemente esposto in una mostra piemontese, ad un mazzolino di Erythronium Dens- Canis, che compare in un foglio del suo erbario in forma di piccolo bouquet, fissato nel 1915 con commossa grazia estetica. Nel fecondo panorama d’inizio secolo, mentre si teorizzava "l’immaginazione senza fili", ci piace credere che De Pisis si distinguesse anche per una calda, personalissima immaginazione, rimasta fortemente avvinta al fascino misterioso dei suoi fili. D’erba, naturalmente.