Le vicende del Calendario del Centenario, attraverso documenti recentemente ritrovati
Armadi polverosi, carte ingiallite abbandonate in uno scantinato o in soffitta. Materiale esposto all’incuria, considerato comunque ingombrante, la cui conservazione si sopporta a mala pena nella ristrettezza degli spazi: è questa, purtroppo, l’immagine o la concezione che non tanto e non solo l’uomo qualunque ha spesso delle carte d’archivio. Eppure non è sempre stato questo il sentire circa i documenti storici e ciò che li contiene. Soprattutto tenuto conto che il “mestiere” di storico non si può esercitare senza i documenti. L’uomo avverte, come bisogno primario, anche quello di conservare un’immagine di sé, di trasmettere ai posteri qualche riflesso della propria personalità singola e collettiva, delle proprie azioni. Ciascuno di noi è inserito — lo voglia o no — in una “tradizione”, in qualcosa che gli è tramandato e costituisce il fondamento del suo presente. Mutuando una felice riflessione della scuola di Chartres, possiamo dire di sentirci “nani sulle spalle di giganti” e quindi, grandi noi stessi per il fatto di essere sorretti dalle generazioni che ci hanno preceduto. A metà del XVIII secolo l’Encyclopédie (si è scelta l’edizione lucchese del 1758, tomo I, p. 524) riportava due etimologie della parola “archives”. La prima, latina, derivada arca (‘cassa, deposito’, ‘urna sepolcrale’, ma anche ‘ciò che sta nascosto’ e indicava nell’archivio un luogo chiuso, separato, che nasconde e protegge il materiale documentario: è questa l’accezione che avrà più ‘fortuna’ nel Medio Evo, basti pensare ad Isidoro di Siviglia (VII secolo) nelle sue Etymologiae (XX, 9). La seconda, riporta ai termini greci archàion e archèion, diversi ma intesi quali sinonimi: l’uno indica letteralmente i beni originari e soprattutto il patrimonio terriero indiviso della famiglia, l’altro, la residenza dei magistrati. La commistione dei due significati fondeva la dimensione patrimoniale e la dimensione pubblica, rinviando congiuntamente al concetto di archè (‘origine, potere’). Concetti quali, la segretezza, la preziosità, l’antichità – fin qui esplicitati - caratterizzano le esperienze archivistiche medievali, ma pongono, al contempo, in essere i fondamenti, l’orizzonte concettuale entro il quale avverrà la riflessione successiva. La loro elaborazione attorno al concetto archivio ha come punto di partenza un passo delle Novelle di Giustiniano in cui si dice che tra ‘archivio’ e ‘residenza del potere’, ‘il palazzo’, esisteun legame genetico ("in civitatibus, habitatio quaedam publice distribuatur, in qua conveniens est defensores monumenta recondere...: et sit apud eis archivium"). Si presti attenzione al succedersi dei nessi causali: la città nasce come capitale, intorno e a protezione del Palazzo,che comprende l’Archivio, in altre parole, non c’è civitas che non abbia archivio. Potremmo continuare un pezzo con le citazioni, per poi arrivare sempre allo stesso storico ‘nodo’: quello che intendiamo, che ogni cittadino italiano intende, come ‘patrimonio culturale’, è il fulcro della nostra iden
tità nazionale e della nostra memoria storica ed ogni assalto al primo dei due costituisce ‘necessariamente’ un vulnus alla seconda. Sintomatico dunque – sia per l’autorità di chi l’ha pronunciato: Salvatore Settis, Rettore della Scuola Normale Superiore di Pisa, e in anni recenti, presidente delConsiglio Superiore dei Beni Culturali del Ministero per i Beni Culturali- che per il contenuto drammatico del suo intervento, appare il suo “grido di dolore”. Interrogato sullo “stato dell’arte” dei fondi per la “cultura” dice testualmente: " Gli archivi sono come Cenerentola. E un Paese che non si preoccupa dei propri archivi, in particolare un Paese come l’Italia che vanta gli archivi medievali più importanti, vuol dire che si sta suicidando". La similitudine è forte. Per chi ha dimestichezza colla fiaba in generale e con questa in particolare, non è difficile decretare che è una novella antichissima – comparve per la prima volta in forma scritta in Cina nel sec. IX a.C, e aveva già una storia! -: Aschenputtel è il titolo della versione della favola dei fratelli Grimm, un’umile e sudicia sguattera addetta alla rimozione della cenere del focolare. Anche caricandola dell’ulteriore significato ‘cenere=lutto’ (l’atto di sedersi fra le ceneri in seguito ad un lutto e in segno di cordoglio è citato nell’Odissea e nella Bibbia, nel Libro di Giobbe) non si fa che confermare la giustezza del paragone di Settis: una sguattera in lutto, bandita in inferni fuligginosi, depredata dei mezzi di sussistenza dalla matrigna e dalle sorellastre invidiose ed usurpatrici del
suo status originario. Ora, immaginate di scoperchiare quell’”arca”, uno scrigno prezioso fra i tanti: le sorprese non mancheranno, perchè spesso, sulla caligine della trascuratezza o dell’incuria brilla l’intuizione, che fa ritrovare “ceci e lenticchie nascosti sotto la cenere”. Come Cenerentola alle tortorelle:
Quelle buone me le date
le cattive le mangiate
(die guten ins Töpfchen
die schlechten ins Kröpfchen).
Ne esce un case history, che non sarebbe stato se non si fossero conservati o non fossero stati “ritrovati”, tra mille peripezie, i documenti. Lo sfondo è dato dalle celebrazioni centenarie della Cassa di Risparmio di Ferrara svoltesi nel 1938, per solennizzare le quali il principale istituto di credito cittadino deliberò di restaurare la Palazzina di Marfisa d’Este, dotandola altresì di mobilio antico, reperito sul mercato antiquario da Nino Barbantini. Per comunicare in modo efficace l’evento si scelsero due “veicoli”, il calendario (comune a tutte le Casse partecipanti la Federazione delle Casse di Risparmio dell’Emilia) ed una cartolina celebrativa propria di Ferrara, uniti - i due “spot” - dall’unico motivo della Palazzina, personalizzando tuttavia con il monumento rappresentativo di ogni città i foglietti mensili “usa e getta”: e la macchina organizzativa si mise in moto oltre un anno prima, mallevadrice la Federazione di Bologna,sotto la presidenza di Enrico Masetti. La corrispondenza riguarda il periodo dal 22 aprile 1937 al 19 maggio 1938 e consta di sessanta tra minute, lettere e telegrammi, riuniti in una “camicia” manoscritta dal titolo “Posizione Calendario”. Sessanta missive distribuite in un anno fanno una media di cinque al mese – allora le poste funzionavano! – e testimoniano un fitto scambio di corrispondenza, dettagliato, minuzioso, come si conveniva al tempo e ad una Cassa che celebrava i cento anni della sua nascita e lo faceva con tutta la pompa che si conveniva. Che il calendario 1938 avrebbe avuto, quale motivo ispiratore, la celebrazione centenaria della Cassa di Risparmio di Ferrara, era trapelato ben prima della comunicazione ufficiale, datata 28 aprile: ciò spiega il perchè le Officine Grafiche Cohen & C scrivessero in data 22 aprile al Direttore Prof. Luigi Calzolari ringraziando per le buone disposizioni a loro riguardo per l’edizione 1938 del calendario. La licitazione doveva farsi – su indicazione della Federazione – tra quattro ditte: Arti Grafiche di Bergamo, Pizzi e Pizio, Cohen, Turati & Lombardi di Milano (Lettera di Mario Garagnani[Direttore della Federazione] a Calzolari, 10/8/
1937). Pur con qualche incomprensione iniziale – ll Duomo al posto della Marfisa, la spregiudicatezza di Pizzi che già si riteneva vincitore mentre fino ad agosto ’37 i giochi erano ancora aperti - la scelta cadde poi su Pizzi & Pizio di Amilcare Pizzi, che si aggiudicò 5.000 cartoline personalizzate in nero e seppia al prezzo di Lire 500. Ma il vero interlocutore fu l’autore del bozzetto che risultò gradito, tanto da meritare il calendario federale: il pittore Nino Nanni. Per scoprirne i natali bisogna andare a Montecavolo di Quattro Castella, nel reggiano, dove – sono ancora le carte d’archivio a parlare – al numero 148 del registro dei nati, annota – con la bella grafia svolazzante del Vice segretario comunale Catullo Strozzi - " che il 13 agosto 1888 da Agostino Nanni,impiegato telegrafico e da Zannoni Marianna, sua moglie “possidente”, è nato un bambino di nome Giacomo, Gian Antonio, Francesco": il Nanni, per l’appunto. A Montecavolo non se ne ricordano quasi più: sarà che Nanni c’è rimasto poco, pochissimo, al paesello, partì per Bologna, dove si diplomò all’Accademia delle Belle Arti. Il “quasi” tuttavia è d’obbligo in tema di rimembranze: non foss’altro che per la signora Gabriella Elena Farinelli Baldi, una lucidissima novant’ottenne, che mi ha confidato al telefono che sì, si ricorda di lui perché giocava nel cortile di casa sua; e per il Maestro Mario Boiardi, insegnante nella scuola primaria e cultore di storia patria, autore di un vol
ume, Le mille Marie, dove si parla pure di Giacomino. Anche Bologna stava stretta al Nostro – gli dedicherà comunque una mostra nel 1970, alla Galleria del Caminetto, con la cura di Paolo e Romana Zauli e la collaborazione della vedova, Nuna Nanni - e infatti lo troviamo nel 1912 a Milano - da dove non si sposterà più fino alla morte avvenuta il 18 ottobre 1969 – nel prestigioso staff di Casa Ricordi. Sicuro interprete del gusto allora imperante, in equilibrio dinamico tra un nostrano Liberty e l’Art Noveau, Nanni era un giovane cartellonista di successo. Hohenstein, Metlicovitz, Laskoff, Mataloni, Villa, Cappiello, sono i primi specialisti del nuovo genere e quindi Marcello Dudovich, col quale – si può dire - nasce il cartellone italiano. E ancora Mauzan, Terzi, De Carolis, Cambellotti, Sepo, Sinopico, Marussig, Prampolini. Nel 1917 diventa celeberrimo con “Il ritorno”, la cartolina del coscritto in partenza per il fronte che abbraccia avvolgen
dola nel mantello la sua bella e sembra sussurrarle Addio, mia bella, addio!: a decine di migliaia si stamparono e non c’era soldato che non l’avesse nel portafogli, accanto ai ricordi più cari. Circolava questa battuta tra i giovani ufficiali: "i nostri veri generi di conforto in trincea sono tre: il profumo Contessa Azzurra, il liquore Strega e la cartolina Ritorno". Quasi tutte le grandi case lo cercano per reclamizzare i loro prodotti: dalla Cinzano alla Campari, dalla Florio all’Isolabella, Martini, Ramazzotti; nel mondo dell’auto dall’Alfa Romeo all’Isotta Fraschini, alla Bugatti, da Michelin, Pirelli fino a “La voce del Padrone” e tante altre. Le sue Pierrettes, o le fatali androgine abbronzate, seducevano tentatrici, reclamizzando l’Avoriolina Bertelli o la Cipria Takalon, quella usata per non avere il naso lustro quando si ballava col Principe. Per sentirsi dire: Das ist meine tänzerin - Questa è la mia ballerina! Ma questa è un’altra storia.
L’Autore desidera ringraziare sentitamente gli amici reggiani: Aderito Catellani, Mario Boiardi, Gabriella Elena Farinelli Baldi, Ferruccio Chilloni e Gino Badini.