Storia familiare di un indiscutibile e indiscusso “medico dei matti”
Per molti anni, sotto le quattro torri del nostro maestoso castello, mandare una persona “da Campailla” ha significato più semplicemente inviarla al manicomio, ovvero, in maniera più estensiva, a quel paese: "ti mando da Campailla, sai?" minacciavano in tono falsamente burbero le madri quando i loro ragazzini facevano bizze, "ma va là da Campailla", si sentiva per strada tra lo scherzoso e l’intimidatorio prima che le invettive pubbliche diventassero, come sono ora, ben più volgari e pesanti: diciamo che era un modo elegante per mettere in discussione la sanità mentale di un qualsiasi interlocutore, elegante e non offensivo. Il professor Giuseppe Campailla, per me che frequentavo ogni giorno la sua casa semplicemente zio Beppino, era diventato a Ferrara un’istituzione sociale, indiscutibile e indiscussa: credo che diffìcilmente un medico, o un altro professionista sia pur noto, abbia legato a sé in modo così indissolubile il ruolo ricoperto in seno alla comunità. La gente lo teneva in gran rispetto e forse incuteva anche un po’ di soggezione quel luogo di via della Ghiara, il bellissimo Palazzo Tassoni, i cui fìnestroni erano stati inchiavardati con inespugnabili sbarre, visto come una prigione da evitare con cura. Il professor Campailla ne fu direttore dal 1944 al 1970, ventiseianni ininterrotti, durante i quali, con intuizione moderna, riuscì anche a precorrere i tempi che sarebbero arrivati dopo di lui, già aveva capito che il manicomio era un baraccone troppo spesso inutile o addirittura pericoloso, tanto che istituì, in provincia, una rete di centri di Igiene Mentale, tra i primissimi in Italia, veri e propri “reparti aperti” di psichiatria. Di quel manicomio personalmente ho tanti ricordi e tutti teneramente pietosi, soprattutto degli ospiti, quelli inoffensivi, tranquilli, gli altri si sapeva vivevano nei cameroni chiusi, vivevano a volte in silenzio a volte urlando la loro tragedia di sofferenza, di solitudine, di esclusione, la prigionia veniva interrotta una volta all’anno, per carnevale, quando il manicomio apriva le porte a molti invitati per una festa alla quale partecipavano i pazienti in condizione di relazionare col resto del mondo: grandi feste perfino molta allegria in quel posto che era, e alcune volte è ancora adesso, tra cura e segregazione: c’era il “matto” il quale aveva ucciso la moglie con varie decine di coltellate e che faceva una polverina miracolosa con mosche, vespe e altri insetti catturati e fatti essiccare al sole poi schiacciati e tenuti in una scatolina di metallo della magnesia San Pellegrino, polverina che veniva pizzicata e messa sulla minestra al posto del formaggio. Se gli eri simpatico te la offriva anche. C’era la “pazza” che ballava con gli invitati ma le facevano male le scarpe “nei piedi” ("Im fa mal i scarp in ti pie", piagnucolava ma contenta dell’attenzione da cui finalmente era circondata). C’era anche Dio tra i ballerini, era un maturo paziente che un giorno disse a Campailla: "Professore sono proprio contento, sono stato promosso, ero Gesù Cristo, ora sono la Santissima Trinità". Era lo stesso che, durante i bombardamenti, nel manicomio sfollato a San Bartolo, quando arrivavano gli aeroplani a cacciar bombe sulle nostre teste, si arrampicava, tra la disperazione degli infermieri, sull’albero più alto e, vestito da crociato, tonaca bianca con grande croce sul petto, faceva larghi segni ai piloti e da giù gridavano inutilmente "scendi che i bumbarda!". Ho imparato a conoscere la follia umana e ad avere una smisurata pietà per chi ne è afflitto in casa dei Campailla, dentro il manicomio, via Ghiara 40. Non ho mai più smesso da allora, anche se non da medico, di misurarmi con questa povera gente, il dolore, la stupefatta sofferenza. Sono pienamente d’accordocon quanto Campailla scrisse nel suo bellissimo saggio La follia del Tasso: "II Tasso ebbe una personalità che lo esponeva a vivere penosamente gli avvenimenti e possedeva tali qualità d’ingegno da destare invidia e reazioni ostili nell’ambiente della corte estense nella quale personaggi di levatura di gran lunga inferiore si sentivano oscurati dalla sua presenza". Per concludere poi con grande saggezza: "L’internamento nello spedale di S.Anna per sette anni trova una più accettabile spiegazione nella ragion di stato... che da una qualsiasi diagnosi psichiatrica insostenibile, sia che venga rapportata alle conoscenze mediche del tempo, sia, a maggior ragione, che venga esaminata alla luce degli odierni indirizzi". Era il 1977, la scienza psichiatrica aveva voltato pagina. Giuseppe Campailla, di cui quest’anno ricorre il centenario, nacque a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, il 10 giugno del 1909, ma già nel 1928, giovanissimo, studente universitario, era a Ferrara, dove il padre era professore di lettere al Liceo Ariosto, di cui fu in seguito preside. All’ateneo bolognese fu allievo del famoso professor Gasbarrini, della scuola di Murri, e qui strinse un’amicizia fraterna con mio padre che era ormai sul punto di laurearsi. Ferrara, allora, non aveva una grande università, come ora, ma aveva alcuni grandi medici. Dopo la laurea, ottenuta a Padova (dove Beppino Campailla aveva seguito Gasbarrini) ad appena ventidue anni, cominciò a Ferrara la sua lunga, luminosa carriera. Piena di successi, conquistati con determinazione e con il grande studio: ho sottomano il curriculum che mi ha inviato Ettore suo figlio, medico a Trieste, con il quale ho condiviso e vissuto tutta la prima infanzia, e, sinceramente, la materia è tanta che cisi può perdere; quando eravamo sfollati a San Bartolomeo in Bosco e mangiavamo alla stessa tavola nella cucina del vicolo dove c’era il cosiddetto Shangai, una specie di rifùgio per i senza casa, per noi bambini, almeno per me, era una festa, tutti insieme, era un giuoco quella vita in comune, spesso comandata dai sughi siciliani di nonna Bice, la madre del professore, e dai salti di un gatto, un po’ matto anche lui, a cominciare dal nome: Cuzzamane. Zio Beppino aveva da poco intrapreso la “grande carriera”: direttore dell’ospedale psichiatrico , primario neurologo all’Arcispedale S.Anna. Aveva 35 anni. Oggi a 35 anni troppi medici aspettano e sperano di diventare precari (ma non è colpa loro), i più in gamba e più fortunati di avere finalmente un incarico fìsso. Altri tempi, ma i nostri non sono mica buoni. O sbaglio? I nostri padri allora erano appena tornati dalla guerra, in tasca una croce di bronzo, una medaglia e tante delusioni, ma ripartirono con orgoglio e dignità, con fierezza, con professionalità, c’era un Paese da ricostruire. Lo ricostruirono. A questi uomini dobbiamo molto, più di quanto la moderna memoria, fatta d’aria, restituisca loro, anche se a persone come Giuseppe Campailla hanno dedicato due strade, nelle sue due città, Ferrara e Palazzolo Acreide. In un’epoca nella quale Neurologia e Psichiatria erano ancora riunite, fu l’unico in Italia ad arrivare ai vertici in entrambe le discipline. Dagli anni Cinquanta in poi, quella di Beppino Campailla fu un corsa irrefrenabile:professore di Psichiatria all’Università di Ferrara dal 1959 vinse il concorso a cattedra di Psichiatria nel 1962 e fu chiamato alla Facoltà Medica dell’Università di Messina e dal 1970 ricoprì la carica di Psichiatria nell’Ateneo di Trieste, dove fondò la Clinica di Psichiatria e dove fu in seguito preside della facoltà Medica, dirigendo due scuole di specializzazione. Di questa università fu anche candidato al rettorato. All’uscita dal ruolo, fu nominato Professore onorario con decreto del Presidente della Repubblica e gli venne dedicato un volume “giubilare” con scritti di psichiatri di tutto il mondo. Fu organizzatore di congressi scientifici, tenne lezioni in diverse tra le maggiori università europee e americane. È davvero impossibile citare premi (Premio Leonardo per esempio), riconoscimenti, onorificenze, per molti anni fece anche parte del Consiglio della Cassa di Risparmio di Ferrara e della giuria del Premio Estense. La sua seconda e mai sopita passione: la cultura e la letteratura in particolare, passione ereditata dal padre. Lasciata l’Università, e tornato definitivamente a Ferrara, coltivò questo suo non segreto amore, pubblicando i saggi L’uomo di fronte al tempo, La notte e l’inferno, Declino e rinnovamento della Latinità, La personalità nell’opera di Pirandello, nonché le monografìe Follia del Tasso, già citata, e Nicolo III d’Este. Dagli studi ponderosi su RH positivo e RH negativo all’arte: nel 1981, infatti, diede alle stampe (Piovan editore) un’opera di narrativa Quadri di un’esposizione, racconti veloci, letterariamente molto interessanti, alcuni affascinanti per l’indagine profonda dentro l’animo umano e il rapporto con la vita e con la morte, che “Zio Beppino” chiamò "II grande silenzio". La voce è la vita, il silenzio è la morte: "La voce di Cristina riuscì a fermare l’attimo per ridare a chi la stava perdendo (Giovanni Argenti, il protagonista, ndr), la Vita. Attimo di felicità. E, dopo, il silenzio". Quell’aborrito silenzio a cui Beppino fu condannato nella lunga terribile agonia che precedette la morte, 2 dicembre 1988, a Trieste.