Dalle pagine de "Il mulino del Po" di Riccardo Bacchelli
Se Giorgio Bassani è il cantore di Ferrara e della sua borghesia negli anni del primo dopoguerra fino alla tragedia della shoah, il bolognese Riccardo Bacchelli con il romanzo Il Mulino del Po ha tracciato un quadro indelebile della città e della sua terra, dalle vicende napoleoniche in Russia fino alla Grande Guerra. Nei tre volumi di cui si compone l'opera, l'affabulazione magistrale di Bacchelli esalta, come è stato scritto, sullo sfondo delle vicende storiche italiane ed europee, l'epopea degli umili attraverso le vicende della famiglia Scacerni, mugnai sul Po alla Guarda Ferrarese, paese tanto legato al grande corso d'acqua che anche la facciata della chiesa ("una particolarità o vogliam dire stranezza") volta le spalle alla parrocchia e ai parrocchiani e guarda al fiume. Fra le tante pagine significative del romanzo vi è la descrizione di un banchetto o per meglio dire di un festino tanto opulento e gradevole per i cibi serviti quanto laido e ripugnante per i suoi commensali. Correva l'anno 1855 e Ferrara è colpita da una terribile epidemia di colera. Chi aveva "ville e denari" mandava la famiglia in campagna per tentare di fuggire al contagio del morbo; per gli altri, l'orrore del lazzaretto, riaperto vicino alla Porta San Giovanni, nella caserma di Mortara, già antico convento. "Tangentopoli", non è un invenzione dei nostri giorni; anche a quei tempi riempirsi le tasche a spese dello Stato (pontificio) era pratica abbastanza diffusa. In che modo? Con il contrabbando e in particolare con il contrabbando di grano di cui in quell'epoca era vietatissima l'esportazione da Ferrara per la penuria del cereale e quindi per impedire il dilagare delle carestie. Si narra che proprio l'intendente di Finanza della Legazione di Ferrara, tale Virgilio Alpi, garantitasi la complicità dei doganieri posti a guardia della piarda di imbarco sul Po a Serravalle (il fiume rappresentava il confine nord dello Stato pontificio, essendo il Veneto occupato dagli austriaci) e la connivenza di una rete di persone, avesse corrotto o per meglio dire concusso (come oggi si dice) un ricco possidente di Ro – altro paese adagiato sulle rive del Po – Pietro Vergoli, perché gli fornisse il grano per il suo traffico, facendone anche incetta nelle campagne circostanti. Il meccanismo della frode era molto semplice: grano, fagioli e riso venivano trasportati a Serravalle muniti di regolari bollette di accompagnamento; formalmente lo scarico dei cereali veniva registrato come effettuato in quella località, entro lo Stato pontificio, mentre viceversa i carri venivano traghettati di frodo sulla sponda veneta con la compiacenza dei doganieri corrotti. Fu poi semplice per il giudice dell'epoca scoprire l'imbroglio perché nonostante l'apparente regolarità dei documenti, il quantitativo dei viveri che si voleva scaricato a Serravalle era tanto da sfamare per mesi l'intera popolazione di una grande città e non solo i pochi abitanti di un piccolo paese. Sicché mentre a Ferrara infuriava il colera, in una bella giornata di primavera l'Alpi convocò il Vergoli, suo forzato anfitrione, senza lasciargli scelta: "Fra tre giorni vi vengo a far visita: ma badate che dobbiam vedere l'alba a tavola; dunque che il vostro cuoco si faccia onore". "Arrivata la compagnia all'imbrunire si preparavano lo stomaco con qualche bicchiere di vino bianco secco. Poi si misero a tavola... Ma seduti che furono tacquero tutti insieme per gettarsi sulle scodelle colme a traboccare di cappelletti in brodo... il brodo era fragrante e il ripieno dei cappelletti di carne e droghe, saporoso... Quattro gran zuppiere in tavola erano pronte per chi volesse replicare la vivanda e furono svuotate; dopo di che venne un pasticcio di fegatelli e di piccioni, annegato in un intingolo di burro...". Secondo il buon costume italiano, ma soprattutto padano, i convitati "intingevano pezzi di pane nell'intingolo odoroso di salvia e rosmarino" nonostante uno di loro intimasse "senza pane", per non guastarsi con il pane l'appetito. Poi vennero in tavola "teglie di polli alla cacciatora; e schidionate di pollastri arrostiti e pollastrini novelli ai ferri..." e finite le portate del pollame, un gran vassoio di insalata, uno di spinaci, e "verdure cotte, diedero di sospetto che il desinare volgesse alla fine"; sicché, annota l'autore, tale fine "pareva avara e prematura"(!). Invece il festino prosegue. Erano soltanto quelle verdure per ravvivare e allenare lo stomaco prima delle carni in umido: "spezzatino di vitello, stufato e braciole in tegame e ai ferri. Un enorme arrosto di bue fu quindi accolto da un plaudente clamore e trinciato dal signor Pietro in tavola, vi troneggiò a disposizione di quei mangiatori senza paura. Qualcuno cominciava a sentirsi sazio, nessuno vinto". E il vino? "Il vino girava mesciuto da grandi boccali di terra, buon sangiovese d'un anno..." "Dopo l'arrosto vennero dei sedani, rarità per la stagione a stuzzicare l'appetito rinfrescandolo ad aggradire la portata delle "salame da sugo" fumanti e gravide d'umore ". Tradizione peraltro voleva che il convitante avesse vittoria sui convitati costringendoli ad abbandonare... la tenzone. Cosicché essendo ormai l'alba "ecco enormi teglie di capretto al forno con le patate, e piccioni arrosto e galline faraone: fecero il giro della tavola e furono riportate intatte in cucina, che davvero nessuno ne poteva più...". "Sorseggiavano bianca albana gelata che il signor Pietro aveva in giardino la gran ghiacciaia, da serbar la neve fino all'autunno! Pur s'addolcirono la bocca con una zuppa dolce bagnata nell'alchermes; e certe bottiglie di rum li ridussero imbambolati del tutto, e inebetiti, o sconciamente addormentati colla testa sulla tavola".
La descrizione del festino e del comportamento dei convitati è magistrale; attraverso quella descrizione lo scrittore esprime la sua dura condanna alla "congrega" di malversatori, sottolineando la volgarità del loro comportamento nel convivio. L'opulenza e la raffinatezza del cibo che nel banchetto delle Corti rinascimentali e in particolare di quella estense (fondamentale l'opera del Messisbugo) facevano da corona a raffinati intrattenimenti musicali o poetici, diventa viceversa nella cena di Ro il collante che ravviva l'intesa fra malviventi. Bacchelli salva solo la figura del padrone di casa, il Vergoli, cui concede il beneficio del dubbio (corrotto ma piuttosto "concusso") ponendolo al centro della tavolata a trinciare il grande arrosto di bue: gli affida cioè il ruolo dello scalco, del protagonista del banchetto rinascimentale. Le vivande servite e i vini meritano attenzione. Inanzitutto è incontestabile il trionfo delle "salame da sugo" fumanti e gravide d'umore (piatto irrinunciabile per la tavola dei ferraresi) che chiudono il gran numero di portate e vengono precedute da un... pinzimonio di sedani per ripulire il palato e renderlo sensibile all'impasto profumato e delizioso scucchiaiato con dovizia di sugo caldissimo! Aprono il desinare i cappelletti in brodo, altro piatto della tradizione ferrarese, altrettanto famosi dei tortellini bolognesi, ma diversi sia nel formato (sono più grandi) che nel ripieno di carni ove manca la mortadella e la noce moscata vi è generosamente profusa. La sfoglia (solo uova e farina "00") deve essere tirata rigorosamente a mano con il matterello sull'apposito tagliere (spianatoia) fino a ottenere un velo sottile e trasparente rotondo e giallo come un sole, ma nello stesso tempo turgido e resistente per evitare che la cottura dei cappelletti nel brodo bollente ne provochi la rottura e la conseguente perdita del ripieno. Infine, degna di rilievo, è la chiusura del pranzo affidata alla "zuppa dolce bagnata nell'alchermes" (cosiddetta "zuppa inglese") anch'essa tradizionale dessert sulla tavola dei ferraresi; assai appropriata la scelta dei vini: bianco secco – forse un trebbiano – a mo' di aperitivo, sangiovese di un anno a tutto pasto e albana gelata per concludere, vini tutti rigorosamente romagnoli perché più adatti del "Vino di Bosco" ferrarese ad abbinarsi ai cibi serviti. Ro, Guarda Ferrarese, Serravalle non possiedono particolari attrazioni turistiche; ma a chi ami il fascino del grande fiume e voglia rivivere la magia dei mulini del Po, il suggerimento è di trascorrervi una giornata percorrendo le strade di campagna e per tratti, ove il transito è consentito, il grande argine che collega i tre paesi. Se poi disponesse di una imbarcazione e di un amico che conosca i fondali, potrebbe navigare sul fiume da Pontelagoscuro fino alla punta di Santa Maria in Via a Serravalle ove il Po inizia a diramarsi per correre verso il mare: uno spettacolo indimenticabile. Non cerchi sulle guide l'indicazione di locali segnalati con soli, stelle, tempietti e quant'altro: non ne troverà. Si fidi del suo istinto nella scelta di una rustica trattoria e sia certo che cappelletti in brodo, salama da sugo e zuppa dolce bagnata nell'alchermes non mancheranno per allietargli la sosta.