Un mandato di pagamento sancisce l'attribuzione allo scultore reggiano
A oggi, non sono molti i ritratti marmorei a tutto tondo raffiguranti personaggi della famiglia d'Este che possono vantare una indiscutibile autografia, soprattutto se accertata anche per via documentaria. Il caso più eclatante riferibile al XVII secolo è senza dubbio il Busto di Francesco I d'Este (Modena, Galleria Estense) che Gian Lorenzo Bernini portò a termine nel settembre del 1651 dopo soli quattordici mesi di lavoro, durante i quali – non avendo mai avuto modo di vedere personalmente l'illustre committente – operò ispirandosi ai tratti fisionomici restituiti nelle effigi pittoriche di Justus Sustermans e del Boulanger, inviate a Roma per l'occasione. Se si indietreggia nel Quattrocento l'attenzione non può che essere carpita dalla straordinaria fattura del Busto di Beatrice d'Este (Louvre), realizzato sul principio degli anni Novanta da Gian Cristoforo Romano secondo un innovato e più aulico taglio compositivo ripreso dalla statuaria classica. E del secolo intermedio, affollato di grandi personalità della ritrattistica scultorea italiana (e non solo), quali Alfonso Lombardi, Bandinelli, Cellini, Montorsoli, Della Porta, Vittoria, Leone e Pompeo Leoni, cosa rimane? La produzione plastica risente degli stilemi figurativi impostati nelle proprie opere dai maggiori pittori del tempo, chiamati a dispiegare energia artistica e vis creativa al servizio delle volontà magnificatrici del committens: con Raffaello, Tiziano, Pontormo, Moroni, Bronzino e Sofonisba Anguissola lo state portrait, il "ritratto ufficiale", diviene strumento di esaltazione dell'autorità principesca, simbolo figurato e speculare di quelle azioni di natura politico-sociale messe in campo dalla italica nobiltà al fine di forgiare un modello di potere che inesorabilmente si rifletteva nei due maggiori esempi di sovranità imperante in Europa: il regno di Francia e l'impero asburgico. A chi si addentri nell'odierna Galleria Estense capiterà di raggiungere la sala che custodisce, tra le varie opere d'epoca cinquecentesca, i celebri ritratti dosseschi di Ercole I e Alfonso I d'Este, in prossimità dei quali è posizionato un pregevole busto virile in marmo carrarese, alto poco più di un metro, riconosciuto dalla critica come l'unica effigie scultorea raffigurante il duca Ercole II d'Este e attribuita su base stilistica al reggiano Prospero Spani Clementi (1516-1584), noto per le sue capacità espressive fortemente indebitate con il linguaggio plastico di Michelangelo. Il primo ad occuparsi della paternità autoriale dell'opera fu Adolfo Venturi che, pur giudicandola "fatto più colla bambagia che col marmo" (1882), la riferì ad Alessandro Vittoria, insieme al corrispettivo basamento scolpito con l'impresa antropomorfa della Pazienza. Per quest'ultimo, invero, era già stata avanzata una proposta a favore del Clementi (Ferrari Moreni 1868) e successivamente anche l'erma venne assegnata allo scultore reggiano (Magnani 1927). Giunto a Modena nel 1629 dal deposito di palazzo dei Diamanti, il ritratto fu concepito in origine per la loggetta della Camera della Pazienza, situata nella torre nordoccidentale, o di Santa Caterina, del Castello Estense. Il duca, nato nel 1508 e signore di Ferrara dal 1534 al 1559, presenta una lorica all'antica decorata sul petto con un motivo a ghirlanda, costituito da due rami di palma intrecciati, affiancati ai lati da due cariatidi simili a quelle dell'armatura del Marco Emilio Lepido dello stesso Spani, oggi sul fronte del palazzo Ducale di Modena. Al centro della corazza campeggia un piccolo cammeo inciso in cui vi si possono riconoscere non le fattezze femminili della personificazione della Pazienza (come spesse volte ribadito in letteratura, anche dallo scrivente), bensì i lineamenti di un san Michele stante, allusione araldica dell'Ordre de Saint-Michel, ordine cavalleresco francese di cui il duca estense era membro sin dal 1528, quando ricevette dalle mani di Francesco I di Valois l'onorificenza del collare d'oro, costituito da piccole conchiglie unite da un doppio cordone e al quale era appesa una medaglia con l'immagine dell'arcangelo intento a trafiggere il demone. Non solo la presenza del santo contribuisce a contestualizzare storicamente il bel ritratto marmoreo, rivelando in tal modo la volontà dell'artista di smarcarsi consapevolmente da quella tendenza alla celebrazione monumentale e idealizzata dei personaggi tipica della coeva ritrattistica tosco-romana: anche il sottostante episodio leggendario che coinvolge Hercules, raffigurato sulla destra mentre sostiene la volta celeste – momentaneamente cedutagli da Atlante in quanto incaricato di raccogliere per lui i pomi delle Esperidi – vuole essere un brillante espediente iconografico per ricondurci alle complicate imprese terrene del signore di Ferrara (da rilevare, inoltre, come la postura dell'Hercules in riposo, a sinistra, tradisca la fedele ispirazione al celebre Adamo della Creazione che il Buonarroti affrescò nella volta della Sistina). Al pari del mitico eroe, il duca dovette infatti sostenere sulle proprie spalle la responsabilità di governo di uno Stato la cui ragione d'essere dipendeva fortemente dagli equilibri geopolitici europei. Alla morte del padre, nel 1534, Ercole fu presto consapevole di come il suo agire dipendesse tanto dai buoni rapporti con la Santa Sede (proprietaria di diritto di Ferrara) quanto dai legami con Carlo V (Modena e Reggio erano infatti feudi imperiali), così come anche le felici relazioni diplomatiche con Parigi derivanti dai vincoli parentali stretti con quella corona a seguito del suo matrimonio (1528) con l'inquieta Renata di Valois, figlia di re Luigi XII e cognata di Francesco I, ebbero benefici effetti sul prestigio internazionale della corte ferrarese. Si capisce, quindi, come la Pazienza fosse la prima virtù dell'Estense, tanto cara da sceglierla come motivo dominante nel progetto iconografico che fece capo al rinnovamento architettonico e ornamentale degli ambienti privati ubicati nella torre di Santa Caterina. La "camara" o "camaron della Pazienza" era lo spazio più prestigioso e rappresentativo del maniero dopo che l'incendio del febbraio 1554 aveva distrutto l'area residenziale in prossimità della torre di sud-est, o Marchesana. Nel marzo dello stesso anno, sotto la regia di Girolamo da Carpi, cominciò la riqualificazione di locali preesistenti tanto che già il 23 giugno Camillo Filippi venne pagato per "haver conzato il quadro della Pacientia" (a conferma della paternità già ipotizzata dalla critica per il dipinto oggi alla Galleria Estense), mentre cade nell'aprile di quell'anno la prima citazione documentaria che testimonia la fin qui
sconosciuta presenza a Ferrara di Prospero Spani (Modena, Archivio di Stato, Ufficio del Mese, filza 5, fascicolo 33), giuntovi accompagnato da un servitore per presentare al cospetto del duca e della sua corte il solenne ritratto marmoreo appena concluso, che gli fruttò un cospicuo compenso. Così, infatti, recita la richiesta di pagamento destinata ai Fattori Generali della Camera Ducale e sottoscritta in data 15 maggio dal responsabile dell'Ufficio della Guardaroba, Giberto Cortile: "A maistro Prospero da Reggio scultore scudi cento d'oro in oro che gli ha donato Sua Eccellentia per havere sculpito de marmo la testa de Sua predetta Eccellentia" (Modena, Archivio di Stato, Mandati Sciolti, filza 39, n. 58, 15 maggio 1554). La nota manoscritta fa chiaramente riferimento al solo busto, probabilmente commissionato tra la fine del 1553 e il principio del '54, quando lo scultore aveva a disposizione in bottega consistenti scorte di materiale marmoreo che stava utilizzando per portare a termine varie incombenze, tra cui le statue ordinate dal Capitolo del Duomo di Reggio e la sepoltura monumentale di Filippo Zoboli nella chiesa di San Nicolò della medesima città (pure per quest'ultimo progetto la corresponsione pattuita fu di cento scudi); tuttavia, seppure non espressamente menzionato nell'inedito emolumento, il basamento inciso con l'allegoria della Pazienza rappresenta un elemento integrante del medesimo ritratto, su cui poggiava, e non vi è dubbio alcuno che fu lo stesso scalpello ad agire, magari in un momento successivo e comunque entro il 3 ottobre 1559, data della morte di Ercole II d'Este.