Era il 26 febbraio del 1861. Nelle intenzioni dei promotori dell'iniziativa si creava nel panorama cittadino un'alternativa al più paludato "Casinò dell'Unione", allineato da tempo sulle posizioni politiche di un mondo ormai al tramonto con la fine, nella Legazione ferrarese, del potere temporale della Chiesa e l'affermazione concreta del principio liberale della separazione dei poteri tra lo Stato italiano e quello pontificio. In particolare si erano finalmente realizzate le condizioni costituzionali e politiche per promuovere in quello spazio libero nuove relazioni sociali, sviluppare l'eredità dell'Illuminismo nel settore letterario e scientifico, incoraggiare aggregazioni spontanee ai fini della formazione continua dell'opinione pubblica, in un contenitore peraltro non estraneo allo svago e al divertimento. Del resto un sodalizio del genere corrispondeva alla nuova situazione storica di Ferrara che dal 1859 non era più sottoposta al doppio giogo pontificio ed austriaco, durato 45 anni. Restituita alla libertà, già con il plebiscito del 1860, Ferrara aveva espresso l'adesione alla monarchia costituzionale ed incominciava a riflettere seriamente sulle principali questioni di ordine politico e sociale, locali e nazionali. Certo, l'esito del voto non era molto
attendibile e fa pensare, tra l'altro, al plebiscito grottesco di Donnafugata descritto con tanta amara ironia da Tomasi di Lampedusa in quel capolavoro letterario che è Il gattopardo. Ma dinanzi alle questioni imponenti da affrontare e risolvere (casa, scuola, bonifiche, difesa del territorio, viabilità, assistenza, lavoro, salute pubblica, ecc.) diventavano irrinunciabili e non procrastinabili sia l'effettiva formazione civile dei ferraresi, sia la selezione rigorosa del personale politico a tutti i livelli di governo.
Nel Museo dell'Ottocento ferrarese si conserva, non senza una faziosa ed anacronistica mutilazione antimonarchica nelle riproduzioni celebrative degli ultimi tempi, un quadro di Giovanni Pagliarini (1809-1878): è La famiglia del Plebiscito, che riproduce l'immagine austera di due soci fondatori del Casino dei Negozianti. Sono Felice Bortoletti, e suo genero, Gaetano Casanova che, seduto, legge i risultati dello storico plebiscito del 1860. È una sorta di manifesto politico che a suo modo rivela il passaggio non traumatico dalle vicende risorgimentali a quelle inedite delle esperienze associative, in attesa di più importanti sviluppi nello scenario politico, amministrativo e finanziario di Ferrara comunque in transito tranquillo dall'obbedienza virtuosa al legato pontificio a quella centralistica dei prefetti di nomina governativa. Un altro quadro, che documenta la naturale transizione dalla esperienza associativa a quella più vasta all'interno della comunità ferrarese, reca la firma di Angelo Longanesi Cattani (1860-1945), un pittore che nel Novecento dipinse il volto severo dell'avvocato Cesare Monti, primo presidente del Circolo dei Negozianti e presidente della Cassa di Risparmio di Ferrara dal 1884. Da allora numerosissimi sono stati i personaggi del medesimo Istituto di credito iscritti al Circolo: da Mario Cavallari ad Emilio Arlotti, da Giorgio Bissi a Vito Cavallini, da Armando Calzolari a Raffaello Collevati, sino ad Alfredo Santini. Il rapporto Circolo e città, nell'Ottocento, trova poi un momento alto e significativo quando il conte avvocato Carlo Giustiniani, secondo presidente dei "Negozianti", diventa nel 1889 il primo sindaco elettivo di Ferrara: era un successo personale ma anche un riconoscimento indiretto della funzione propulsiva esercitata nella città dal nuovo sodalizio.
Dalla sua nascita nel 1861 ad oggi il Circolo dei Negozianti, pur tra rinnovate difficoltà e la marcata modificazione della sua composizione sociale e professionale, continua ad essere un punto di riferimento costante per molte manifestazioni artistiche, culturali e ludiche che nei suoi saloni si realizzano. All'inizio della sua esistenza il Circolo aveva trovato ospitalità nei locali dell'Antica Locanda dei Tre Mori, posta all'angolo tra via Cortevecchia e via Boccaleone, di proprietà del conte Ludovico Beccari. Qualche anno dopo, nel 1869, si trasferì nel più ampio e prestigioso palazzo Magnanini-Roverella, in corso Giovecca, una strada che un viaggiatore inglese nel 1723 riterrà "più bella di Via Toledo a Napoli". Il palazzo, con la sua facciata "cesellata come un reliquario", fu costruito intorno al 1508, probabilmente ad opera di Biagio Rossetti, forse ultima tra quelle progettate a conclusione di lunghi interventi all'interno di quell'"addizione erculea" che fece di Ferrara, a giudizio di Jacob Burckhardt, "a prima città moderna d'Europa". Committente del palazzo era stato un importante personaggio della burocrazia estense, Girolamo Magnanini, ovviamente attento alle strategie d'intervento urbanistiche predisposte da Ercole I d'Este e dai suoi collaboratori. Due secoli dopo, quando la potente famiglia Roverella acquistò il palazzo, quest'ultimo nome venne aggiunto al primo e da allora,
nonostante i diversi passaggi di proprietà, la denominazione è rimasta consegnata alle due famiglie Magnanini e Roverella.
Due singolari vicende, legate a complicate situazioni di politica internazionale, hanno attraversato la storia più circoscritta del palazzo. La prima si svolse a metà del Cinquecento, l'altra nell'Ottocento. Dal 1549 al 1551, come hanno scritto in ultimo Aron di Leone Leoni e Laura Graziani Secchieri (La Nazione ebraica e portoghese di Ferrara (1492-1559), Firenze, Olschki, 2011), i Magnanini sono costretti a cedere in affitto il loro palazzo a Beatrice de Luna, una ricchissima ebrea portoghese che da Ercole II d'Este aveva ottenuto, dopo aver offerto ogni garanzia, e forse qualche non disdegnata o pretesa regalia, un salvacondotto che l'autorizzava a "venire, stare, abitare, conversare, haver sinagoga, negoziare ed esercitare suoi trafichi". Grazia Nasi (questo il vero nome prima del battesimo forzato subito da bambina in terra lusitana) venne quindi a Ferrara con un numerosissimo seguito, ed il palazzo Magnanini sembrò trasformarsi subito in una sorta di ambasciata portoghese dove si svolgevano incontri culturali ed iniziative religiose volte a frenare la dispersione sefardita europea e ad incoraggiare il ritorno alla fede dei Padri. La seconda vicenda, che si può definire una vera e propria occupazione forzata del palazzo, si svolge nell'Ottocento. Ce lo ricordano prima, nelle sue memorie, William Macalister, un ricco mercante di canapa e vice console di Sua Maestà Britannica a Ferrara, e in seguito, all'inizio del Novecento, l'ingegnere Giulio Righini. Ad occupare il palazzo Magnanini-Roverella questa volta fu il generale maggiore barone Giovanni Rohn di Rohnau, comandante austriaco della Fortezza dal 19 dicembre 1849 all'11 marzo 1859 e amante della vita mondana, magari per offrire anche occasioni matrimoniali alle sue tre figlie. Splendidi ricevimenti e balli viennesi, nel palazzo dei destini incrociati, incominciarono a rianimare le sale in un curioso rimescolio di parlate, alcune originarie delle più lontane province dell'impero austro-ungarico ed altre perfino di chiara persistente inflessione locale. Ma nel 1859, con la partenza degli austriaci, pur lasciando per lungo tempo languide nostalgie e carezzevoli ricordi, quegli incontri improvvisamente cessarono. Dovranno trascorrere tanti anni, sopiti gli ardori risorgimentali, prima di rivivere nel palazzo atmosfere spensierate ed affascinanti esibizioni mondane frammiste a vibrazioni patriottiche che la storia di volta in volta s'incaricava di suggerire. Dopo i Roverella altre famiglie, di inferiore visibilità, entreranno nell'albo dei proprietari del palazzo: gli Aventi, i Novi, gli Storari, i fratelli Zamorani e, dal 1906, il cavaliere Federico Zamorani. Quest'ultimo, alla sua morte, avvenuta nel 1932, con un inaspettato colpo di teatro e l'ausilio di acrobatiche formulazioni giuridiche, lasciò in eredità a tutti i soci la proprietà del palazzo, quasi a sottolineare il legame ideale del Circolo con la città mediante le sue molteplici iniziative culturali e di solidarietà. Si tratta, come si vede, di una lunga storia ferrarese che parte dal Rinascimento, s'incrocia con il Risorgimento nazionale ed approda ai nostri giorni. E il Casino dei Negozianti, come recita quel canto ottocentesco, resta ancora tra gli episodi di vita intensamente collettiva più interessanti di Ferrara.