inerente il luogo di sepoltura in uso agli ebrei nel 1335, il solo monsignor Samaritani ne aveva pubblicato un sintetico regesto nel 1995. Questo ri-trovamento è stato il punto di partenza per l'ulteriore approfondimento del tema della presenza ebraica nella nostra città in epoca medievale, rivelando alcuni risultati inaspettatamente interessanti: le risultanze sono state scritte a quattro mani da Silvia Superbi e da me sotto il titolo Il cimitero ebraico del Sesto di San Romano: prime riflessioni, nel numero di "Analecta Pomposiana" per il sessantennio sacerdotale di mons. Antonio Samaritani.
Del cimitero situato nel Sesto di San Romano si hanno poche ma ben precise informazioni attraverso tale atto trecentesco, che si apre con la trascrizione integrale della dichiarazione resa a Bologna, il 2 gennaio di quell'anno, da frate Lamberto da Cingoli, dell'ordine dei Predicatori ed inquisitore per la provincia della Lombardia Inferior, istituita nel 1303 e imperniata sulle città di Bologna e Ferrara, attraverso la quale il domenicano ribadiva i diritti vantati dall'Inquisizione sopra un edificio con corte destinata alle sepolture degli ebrei, posto in Ferrara nella contrada del Sesto di San Romano, appunto; lo scoperto aveva ingresso posteriore attraverso una stradella confluente nella via grande che portava al terraglio e alle mura cittadine, odierna via Bersaglieri del Po, mentre l'affaccio principale dell'edificio era sulla strada grande che conduceva dalla porta dei Leoni alla piazza del Comune, attuale corso Martiri della Libertà. Il rogito poi proseguiva con la vendita di quell'immobile a maestro Iacobucio calegario da parte di frate Iacobo Ripano, in qualità di vicario dell'inquisitore. L'atto si concludeva con la clausola che l'acquirente avrebbe dovuto continuare a consentire agli ebrei di effettuare le sepolture in quella corte. Nella premessa, si descrive che l'edificio con grande scoperto era stato requisito a causa di azioni nefande che gli ebrei vi avevano compiuto in precedenza: purtroppo frate Lamberto non ha specificato né a quali comportamenti facesse riferimento né a quale epoca fossero da ascrivere. Del resto, la confisca dei beni era esito usuale delle condanne che l'Inquisizione (e non solo essa: pensiamo agli espropri inflitti agli esiliati per motivi politici) aveva già applicato in Ferrara ad Arimanno Pungilupo e al suo gruppo di sodali eretici, ad esempio. Al contrario, un inquisitore non poteva agire contro gli ebrei in quanto tali, non avendo giurisdizione su di essi: la sua funzione giudiziale poteva essere applicata solo ai neofiti ed ai relapsi, convertiti che tornavano alla religione dei Padri, oltre che a quegli ebrei che propugnavano e favorivano le pratiche di abiura. La peculiarità del caso ferrarese, unica sede dell'Inquisizione nel nord-est dove fosse presente una consistente presenza ebraica, aveva addirittura fatto sì che, per mancanza di un codice di comportamento ad hoc, gli inquisitori locali avessero dovuto richiedere specifici pareri al riguardo a dottori civilisti e canonisti delle Università di Bologna e Padova, a periti in utroque e a religiosi di Ferrara. I responsi degli esperti legisti erano stati concordi nell'indicare le condanne per relapsi e fiancheggiatori, oltre alla confisca dei beni. La requisizione avvenuta prima del 1335 non può essere stata motivata dalle comuni azioni di vita degli ebrei e neppure dall'attività di prestito ad interesse o su pegno, sulle quali l'Inquisizione non poteva intervenire; si deve quindi concentrare la ricerca di questo cold case ad opere contro la religione cristiana quali abiura, delitto rituale o profanazione dell'ostia. Ma l'ipotesi dei due ultimi reati è da escludere in quanto non se ne trova menzione nelle cronache dell'epoca né nella trattatistica religiosa: si deve, perciò, ritenere che, in precedenza, nell'edificio con grande corte gli ebrei avessero compiuto atti di apostasia. Ci si può chiedere perché, anche dopo una condanna tanto gravosa, frate Lamberto si premurasse di specificare che l'uso a cimitero avrebbe dovuto continuare anche in futuro. In effetti, la presenza di un terreno destinato a sepolcreto esclusivo era uno dei punti che i rappresentanti degli ebrei (individuati nei prestatori, a Ferrara come altrove) ponevano come non negoziabili nelle trattative per l'ottenimento delle condotte che regolavano la permanenza in città dei foeneratores e delle loro famiglie. Evidentemente, l'inquisitore ha ritenuto che requisire la proprietà dell'edificio e, al contempo, imporre all'acquirente la prosecuzione dell'uso ormai storicizzato fosse l'unica operazione possibile (in ogni caso ben remunerativa) poiché egli non poteva in alcun modo influire su quanto era contemplato dalla condotta vigente, tanto per la limitazione del suo mandato quanto per gli Statuti di Ferrara. Infatti, un articolo datato 1275 in essi contenuto imponeva ai podestà, ai loro giudici ed assessori deputati al reggimento della città di osservare le non meglio specificate immunità che erano state concesse in precedenza agli ebrei e sulle quali non avrebbero potuto influire deroghe né del papa né dei marchesi d'Este; e a questo, quando ha confermato i diritti alla sepoltura nella zona del Sesto di San Romano, si è attenuto frate Lamberto.
Egli si presenta alla ribalta ferrarese con tre rogiti del 1335, fino ad ora inediti. Di questa figura sono in parte noti solo alcuni, per quanto molto significativi, aspetti 'professionali': all'attività inquisitoriale, cui si è dedicato tra il 1324 e il 1336, il domenicano ha alternato l'insegnamento di teologia a Bologna, dove lo troviamo docente nel 1326 e nel 1356; inoltre, ha ricoperto le cariche di priore nella città felsinea e di provinciale della Lombardia inferiore. La sua notorietà è soprattutto da ascrivere alla sentenza che ha emesso nel 1324 nei riguardi dell'astrologo e pauperista Cecco d'Ascoli e che costituirà un pesante precedente, determinante per la sua condanna al rogo a Firenze nel 1327. Era già risaputo che frate Lamberto avesse sottoposto alla sua attenzione inquisitoriale eretici di diversa natura, ma è con l'atto del 1335 che divengono note le sue iniziative nei confronti degli ebrei ferraresi: da sottolineare come sia stato rispettoso dei loro diritti il comportamento dell'inquisitore, in occasione dell'assegnazione del cimitero del Sesto di San Romano. È possibile una ricostruzione della compagine ebraica ferrarese attraverso il giuramento a papa Clemente V nel 1310 ed alcuni contratti di affitto datati in quell'intorno d'anni, che collocano le abitazioni di 17 maschi capifamiglia ebrei nella contrada di Centoversuri e nelle vie contigue. Su una popolazione complessiva stimata in 16-20.000 abitanti, il raggruppamento ebraico doveva contare circa 80 unità: non è ipotizzabile che così tanti individui vivessero della sola attività del prestito, sebbene sicuramente foeneratores di origine romana fossero stati i componenti della migrazione alto medievale che ha costituito il primo nucleo ebraico a Ferrara. L'area prescelta per lo stanziamento era vicinissima ai porti fluviali urbani di San Nicolò e di San Michele, attracchi per le merci provenienti dalle zone interne della pianura padana e dal Po di Primaro. In quegli scali, i prestatori romani avevano riconosciuto il punto di forza economica della città comunale e dalla contrada di Centoversuri potevano controllare gli scambi mercantili oppure influire su di essi. Attorno a quei primi foeneratores, si sono poi coagulati addetti a mestieri e professioni necessari alla vita di ogni gruppo di ebrei rispettosi dei dettami religiosi: pensiamo a chi era responsabile della produzione degli altri alimenti kasher, dalle carni al pane prima di tutto; al circoncisore (che, di norma, esercitava comunque un'attività lavorativa) e al rabbino. E in quel non modesto numero di ebrei del terzo decennio del Trecento vi saranno stati anche artigiani utili alle esigenze della quotidianità della popolazione ferrarese, ebrea o cristiana che fosse. Ora che abbiamo conosciuto l'inquisitore e gli ebrei ferraresi, protagonisti della vicenda, ritorniamo all'oggetto della vendita del 1335. Leggendo attentamente le coordinate attraverso cui frate Giacomo, per mezzo della penna del notaio, ha descritto l'immobile ceduto, è possibile collocarlo con buona approssimazione nel corpus civitatis. Innanzitutto è detto appartenere alla contrada del Sesto di San Romano, sufficientemente lontano dalle abitazioni degli ebrei nella contrada di Centoversuri, come dettato dalle leggi rabbiniche. Il Sesto era costituito in gran parte dal borgo nuovo che era stato inglobato nella città con la costruzione delle mura comunali: era delimitato dalle attuali vie Bersaglieri del Po, Adelardi, Martiri della Libertà e Giovecca. Parallela a quest'ultima correva la via del Terraglio, riconoscibile ora nelle vie del Teatro, del Gambero e del Pozzo. La strada omonima di Borgonuovo, odierna via Cairoli, attraversava l'intero quartiere che costituiva in origine la sesta parte dell'area di pertinenza del priorato di San Romano, il quale l'ha dovuta cedere alla nascente parrocchia del duomo, dopo una disputa durata dal 1182 al 1195. Se ne conservava però nel nome la derivazione. Il nominativo, che ha permesso di procedere alla localizzazione dell'edificio venduto nel 1335 insieme alla relativa corte utilizzata come cimitero degli ebrei ferraresi, è quello di ser Uberto detto del Sacrato, figlio di Mercatello Maioli. Questi aveva iniziato dal 1298 una vera e propria campagna immobiliare, finché dal 28 febbraio 1324 egli non è risultato residente sulla via di Borgonuovo nel Sesto di San Romano: aveva costituito la prima facies di quello che, attraverso le acquisizioni effettuate dai suoi figli e nipoti, sarebbe divenuto palazzo Sacrati, poi Muzzarelli Crema ed è ora sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara. Strano a dirsi, nessuno dei documenti inerenti gli edifici dei Sacrati e dei loro vicini, nell'isolato fra via Cairoli e via del Pozzo, fa più menzione del cimitero ebraico del Sesto di Romano che non compare neppure come toponimo, traccia di una preesistenza. Tale silenzio è sintomo di quella che ritengo essere stata l'unica, temporanea emigrazione ebraica, durata non più di un quarantennio, che ha interrotto la quasi millenaria presenza degli ebrei in Ferrara.