A chi sarà affidato il futuro della città?
Dopo averle dedicato alcuni romanzi, di Ferrara, dove ho sempre vissuto, ho finito per sentirmi un testimone possibile della qualità della vita. Con qualche titolo per interpretarne l'identità segreta, carezzando l'illusione di percepire come evolverà anche quando non camminerò più nelle sue "vie piane / grandi come fiumane". E lo dico con particolare convinzione dopo il viaggio che mi ha condotto più lontano da casa, sul treno della Transiberiana. Un'avventura vissuta fra tajga e immense foreste, traversando pianure sterminate per 6.000 chilometri, da Mosca al lago Bajkal. Bisogna rovesciare il cannocchiale e allontanare da sé la nostra casa per capire come ci abbia plasmato abitarla. In Siberia, nel fulgore delle foreste dalle foglie dorate, mi domandavo "Come sarà a Ferrara il colore dei palazzi al tramonto, con la luce incendiaria di settembre? Ho perso un settembre a Ferrara...". È l'infinitamente grande che dona il sentimento dell'infinitamente piccolo. Così come il lungo viaggio nutre la passione del ritorno a casa. "I veri paradisi sono quelli perduti". Lo sa chi ha perso una persona amata. Perduta, ne scopre "l'essenza nell'assenza", come non sapeva coglierla da viva.
Ora che mio padre non c'è più da tredici anni, quasi ogni notte lo sogno e non mi è mai stato tanto vicino. Occorrerà che io dica tutto questo, prima di avventurarmi nel futuro della città che mi offre da sempre l'incomparabile piacere del ritorno. Ferrara è casa mia. Le sue vie, le mie stanze. Le sue piazze, il mio salotto.
La sua gente, la mia famiglia. Non mi sento mai solo a Ferrara. Ci sono momenti, mentre passeggio verso il Castello, da contrada della Rosa, che riconosco una persona dal passo, dal cappello, dalla capigliatura, dalla voce, dal cane al guinzaglio. Molti sono familiari anche se non li conosco di nome, a me che spio le forme viventi della città che muore: siamo noi quelle forme che se ne vanno. Ogni tanto mi rendo conto che qualcuno manca: "Da parecchio non lo vedo... vuoi vedere che se n'è andato?".
Dove va Ferrara, nel terzo millennio ab urbe condita? Me lo domando sulle sue mura mai sottoposte ad assedio, sfiorando nella passeggiata la facoltà di Architettura dove ho insegnato "Lo spazio nella Letteratura". Un insegnamento ritagliato apposta perché potessi spiegare ai futuri architetti il sentimento che sposa gli spazi fisici e geografici alla scrittura. La città fatica a vivere il suo destino di città d'arte e cultura, che le ha meritato l'ambito riconoscimento dell'Unesco di patrimonio dell'umanità. Fatica perché partecipe della grave crisi del Bel Paese. Una ben povera stagione storica la nostra, senza più statisti di rango. Ma a livello locale dove sono oggi i grandi amministratori che avevano fatto le fortune della città postunitaria come Carlo Mayr, Pietro Niccolini, l'onesto podestà ebreo Renzo Ravenna? gli aristocratici illuminati come Enrico Prosperi e Anton Francesco Trotti? E personalità femminili di grande spessore, impegnate per il progresso e la giustizia sociale come l'antesignana del femminismo Rina Melli, l'antifascista Alda Costa e la sindacalista Nives Gessi? E la lucida passione civile di Vittorio Passerini, l'impegno sociale e politico dei nostri amministratori?
Con nostalgia ricordiamo iniziative di vero mecenatismo culturale promosse dalla Carife, come la collana di più di una trentina di libri d'arte, le mostre curate da Andrea Emiliani, le lecturae Dantis in duomo, l'acquisto della storica collezione Sacrati Strozzi ed il restauro della chiesa di San Cristoforo, in Certosa, per ricordarne solo alcune. Nel centocinquantesimo anniversario della Cassa di Risparmio, nel 1988, mi capitò di scrivere che la Cassa ferrarese poteva a buon diritto essere considerata per il suo mecenatismo culturale la vera erede di Casa d'Este. È comunque esaurito da tanto lo slancio della ricostruzione dopo la guerra, con alcune amministrazioni gelose custodi del patrimonio ideale della lotta contro fascismo e nazismo. È passato il periodo di illuminato dispotismo di Roberto Soffritti, garantito dalla protezione finanziaria governativa dell'on. Nino Cristofori. Quel momento ha portato Ferrara alla dignità di piccola Salisburgo, per la ricchezza di eventi culturali, nella musica, di Abbado e dei Buskers e nell'arte, con le mostre di palazzo dei Diamanti inventate da Franco Farina. E nella letteratura perché non dovrei ricordare il convegno da me ideato allora sull'"Immaginario contemporaneo" (1999), un appuntamento lasciato morire, insieme al solco che avevo tracciato identico al Festival di Mantova? Successivamente la città ha iniziato un declino silenzioso, di cui le graduatorie annuali delle città più vivibili, curate da "Il Sole 24 ore", offrono una credibile testimonianza. Colpa delle cose o delle persone? Nelle sorti umane la fortuna machiavellica può incidere per metà. E la virtù degli uomini può quindi solo fino a un certo punto contrastare la fortuna avversa. C'è un fondo fatalistico della decadenza di Ferrara che non ci consente di additare soltanto negli individui i responsabili. Basta riconsiderare quel sublime particolare dell'affresco di Francesco del Cossa, a Schifanoia, della impavida cavalcata di Borso d'Este e dei cortigiani verso il vuoto e il Nulla... Che sia visibile in quell'ineluttabile procedere verso la fine il segno del futuro della città, previsto da astrologhi di corte, come Pellegrino Prisciani? O è una metafora della caducità universale, un trionfo petrarchesco dell'eternità, sul tempo, sulla fama e sulla morte? Già la previsione apocalittica di Al Gore sull'innalzamento dei mari che sommergerà fra cento anni parte della pianura padana, portava a sospettare che la città, se non verrà sommersa e cancellata dalle acque dell'Adriatico, possa diventare una nuova Venezia. Talvolta, come tanti che pure l'hanno sempre votata, mi sono domandato se non sia stata anche l'inamovibilità della formula politica civica a inclinare i ferraresi alla sindrome fatalistica di Oblomov. Dopo sessantacinque anni di maggioranza monocolore, il ricambio non sarebbe un salutare mestruo della sua anima civile? È questo che ci attende prima o poi nel futuro. Sappiamo tutti quali ereditarie signorie di fatto, se non di diritto, ingenera sempre questo blocco di inamovibilità. Ma a chi consegneremo la città? Non appare un Mario Monti in formato ferrarese, all'orizzonte civico... E il confondersi e appiattirsi di destra e sinistra su un'unica logica forzata dalla finanza mondiale non fa ben sperare neanche nel ricambio. Ricordando come ero alla loro età, osservo i giovani, cercando di esplorare nel loro disagio il sentimento di appartenenza a Ferrara, spiando il futuro negli studenti dell'Università e in quelli dei miei annuali corsi di scrittura creativa. Ne ho ascoltato uno dei più attivi ed inquieti, che compone canzoni e già incide dischi a ventidue anni, Giacomo Marighelli. Lamenta che a Ferrara non ci sia nulla da fare, non ci siano posti in cui ritrovarsi, che la mentalità sia chiusa come la città dalle mura... Non diverso sentimento testimonia il miglior poeta giovane della città, il venticinquenne Matteo Bianchi, l'ispirato autore di "Fischi di merli", quando mi parla di disaffezione assoluta alla politica dei suoi coetanei. Pure né l'uno né l'altro paiono propensi a lasciare la loro città, reagendo al clima che lamentano con un impegno culturale e politico ancora più forte. Sarà ancora una volta affidato a un'élite culturale il futuro della città? Tutto questo consuona con una testimonianza a me familiare, quella di un giovane nipote liceale tutto preso dalla composizione dei suoi rap di denuncia anarchica, sulle orme di Eminem e 50 Cent. Il dato che accomuna alcune di queste esperienze è il rifugio nella creatività, nell'indifferenza al passato culturale di Ferrara. Perché non è dai suoi grandi pittori e scrittori, né dai suoi registi che trae spunto la loro creatività. Non è nemmeno sempre in italiano che questa si esprime, ma in inglese, anzi nello slang dei ghetti degli Usa. Dall'America, dai luoghi lontani di più alta contraddizione sociale, nella lotta fra ricchi e poveri, neri e bianchi, il canto della Sirena pare sedurli. Ma non sarà allora la sorte di tanti giovani italiani, e non solo dei nostri? I ragazzi che cantano in una lingua in cui non pensano e pensano in una lingua in cui non cantano, non si troveranno anche a Padova, a Salerno, a Lecce? Pure sono sempre più convinto che sia lo sfondo storico mortificante di quest'ultima stagione del Paese, la vera malattia, e non il fatalismo cui tende il ferrarese, che ci ha visto guadagnare tristi primati nei fenomeni del suicidio e della denatalità. La nostra temperie culturale offre però anche esempi di rara civiltà, se si pensa alla capacità di meditare libera dal fare che custodisce ed offre l'alta qualità della vita, non cessando di attrarre un turismo culturale colto, esigente ed elitario, favorita dalla preservata bellezza monumentale della città di Ariosto e Tasso e dall'atmosfera sospesa, ancora metafisica come l'aveva colta De Chirico. Non corrono nelle nostre strade le formiche pazze di Parma, di Modena, di Bologna, sull'asse dello sviluppo economico della via Emilia che ci ha visti esclusi e che, per un paradosso della storia, oggi ci trova più liberi da un modello economico morente. La vita rallenta, a Ferrara, arresa a parametri di consumo più bassi delle sorelle città padane, ma ci salva dal diventare un po' più mostruosi. Ci dimostra che non dobbiamo vivere per lavorare, ma lavorare per vivere. E ci ricorda che il sabato è per l'uomo e non l'uomo per il sabato.