Il Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, una storia lunga settantasei anni
Con l'inaugurazione delle ultime sale, avvenuta il 14 ottobre 2011, si è presso che concluso il percorso di valorizzazione del Museo Archeologico Nazionale di Ferrara; un percorso che, iniziato alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, si è articolato passando per il restauro conservativo di palazzo Costabili, detto di Ludovico il Moro, e dei suoi giardini, per giungere agli ultimi allestimenti. Nato per ospitare i materiali della necropoli di Spina, riemersa dai lavori di bonifica della valle Trebba, il museo, da sempre dipendente della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia Romagna, si è ora arricchito di nuove sezioni. Con il rinvenimento della necropoli, cominciò l'avventura archeologica di Spina e con essa la storia del museo, creato per esporre i materiali del sepolcreto, una storia che, ai suoi albori, fu travagliata e controversa. I ricchi corredi recuperati da valle Trebba vennero inizialmente ricoverati presso il Museo Civico Archeologico di Bologna. Solo in un secondo momento, grazie ad un movimento di pensiero che accomunò cultori di storia locale, politici e amministratori ferraresi e illustri studiosi, si giunse alla determinazione di riservare ai materiali di Spina e alla realtà che essi rappresentavano, una collocazione autonoma. Una decisione fortemente osteggiata da Pericle Ducati, alla cui guida era affidato il museo civico di Bologna.
Tra i luoghi candidati a sede del museo venne scelto palazzo Costabili, all'epoca meglio noto come palazzo di Ludovico il Moro. Tale attribuzione scaturì dalla stretta consuetudine e frequentazione istituzionale – fu ambasciatore estense a Milano – e personale del committente del palazzo, Antonio Costabili, con Ludovico Sforza, il Moro, legato a Ferrara per aver sposato nel 1491 Beatrice d'Este, figlia di Ercole I. Secondo questa versione – riportata nel 1621 da Marc'Antonio Guarini nelle pagine del Compendio – sarebbe stato il Moro a elargire i capitali necessari alla costruzione del palazzo, poi donato, durante la prigionia seguita alla sua caduta, per l'appunto al Costabili. Una versione questa che, mai avvalorata dalla documentazione d'archivio, è stata smentita anche recentemente, in occasione di un ciclo di conferenze, organizzato dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici, dell'Emilia-Romagna, dedicato alla storia del palazzo Costabili, al suo proprietario e ai restauri di cui il monumento è stato oggetto nel corso dei secoli.
Il palazzo, commissionato dal nobile Antonio a Biagio Rossetti – che ne seguì l'avvio dei lavori (1500) e inizialmente la loro direzione, per esser poi sostituito in tali compiti da Girolamo Pasini e Cristoforo di Ambrogio da Milano – non fu mai concluso, un'incompiutezza che suscitò la considerazione del Burckhardt: "vale più di dieci palazzi, benché non sia realizzato che a metà". Dopo l'estinzione dei Costabili, avvenuta nel 1595, il palazzo fu ereditato dai nobili Bevilacqua, quindi, a seguito di nuove divisioni ereditarie che ne infransero l'unità immobiliare, esso venne ripartito tra le famiglie dei conti Scrofa e dei marchesi Calcagnini, le quali, a più riprese e in epoche successive, cedettero la proprietà ad altri. Tali vicende e i riscontri che ne derivarono, patrimoniali e architettonici, mutarono l'assetto del palazzo, talora con superfetazioni anche di pregio, talaltra snaturando la destinazione originaria degli ambienti e compromettendone lo stato di conservazione, ulteriormente aggravato dalla presenza degli sfollati della prima guerra mondiale e delle loro famiglie. Proprio per fermarne il forte degrado, dando così prova di lungimirante attenzione alla "tutela preventiva", lo Stato italiano, su impulso di Adolfo Venturi e Corrado Ricci, ne decise l'acquisizione per la somma di 195.000 lire, avvenuta nel 1920. Il restauro dell'immobile, sollecitato dalla volontà di dare una sistemazione museale ai materiali spineti, poté esser avviato, sotto la guida di Carlo Calzecchi Onesti, solamente nel 1932, dopo una laboriosa e complessa opera di "liberazione" dagli inquilini e realizzato a tempo di record, seppure con vistosi errori come, ad esempio, l'eliminazione dei paramenti murari che tamponavano, a due a due, gli archi del loggiato del cortile d'onore, e la rimozione di gran parte delle decorazioni settecentesche a stucco, qualche labile traccia delle quali rimane nei caminetti e nelle porte del piano nobile, oltre che in alcuni deliziosi ambienti posti al piano terra.
Recupero architettonico e allestimenti – fortemente caldeggiati da Salvatore Aurigemma, succeduto ad Augusto Negrioli nella direzione degli scavi di Spina e primo sovrintendente alle Belle Arti dell'Emilia-Romagna – trovarono concrete risorse nell'erogazione del cospicuo stanziamento a tali iniziative necessario (preventivo di 1.530.000 lire).
L'inaugurazione del museo avvenne il 20 ottobre del 1935, in concomitanza con la celebrazione dell'VIII centenario della costruzione della Cattedrale di Ferrara. Da quel lontano giorno, salvo che durante il secondo evento bellico, il museo è rimasto aperto al pubblico fino alla fine degli anni Ottanta, allorquando, con la guida dell'architetto Carla di Francesco, ora direttore per i Beni Culturali e Paesaggistici dell'Emilia-Romagna, fu avviata una nuova stagione di restauri della struttura, finalizzati al suo consolidamento e al recupero delle decorazioni pittoriche, quale la famosa Sala del Tesoro affrescata da Benvenuto Tisi da Garofalo, e di nuovi ambienti da offrire alla fruizione pubblica. Interventi che, solo da breve tempo terminati, sono stati per realizzati anche con i proventi del gioco del lotto, sapientemente gestiti dalla Direzione regionale e dal responsabile del procedimento, architetto Andrea Sardo, sensibile e appassionato gestore di quei fondi, cui si è aggiunto il contributo erogato per il restauro dell'affresco del Garofalo dalla Cassa di Risparmio di Ferrara, da sempre al fianco del Museo, fin dalla sua apertura, a cui contribuì con le boiseries che arredavano la Sala delle Carte Geografiche. È stato così ampliato il percorso espositivo che può ora svilupparsi pure nelle sale, anch'esse affrescate dal Garofalo e dalla sua scuola, situate al piano terra dell'ala di levante, prima relegate a depositi. Il poderoso intervento di restauro ha altresì favorito la scoperta di nuove decorazioni pittoriche, fino ad ora obnubilate dagli intonaci degli anni Trenta. La visita al museo, diversamente dal percorso storicizzato dal 1935 – che contemplava solamente l'esposizione al piano nobile dei materiali della necropoli, prima da valle Trebba, poi anche da valle Pega – comincia ora al piano terra, dalla sala dedicata all'abitato della città di Spina e alla sua quotidianità, i cui contorni erano prima percepibili solo indirettamente, di riflesso alla realtà funeraria.
Dall'Umanesimo in poi, con il recupero delle fonti classiche, si sviluppò la ricerca del sito di Spina, la fiorente città sorta tra Po e Adriatico, della cui ricchezza si favoleggiava, così come delle sue origini: pelasgiche, diomedee? Una città poi sparita fisicamente, ma rimasta nel ricordo degli antichi, fino alle età augustea, nelle parole di Strabone, e flavia, nelle descrizioni di Plinio il Vecchio, ben sintetizzato dal Boccaccio: "Di essa oggi non rimane vestigio alcuno, e il ricordo stesso del suo nome è andato perduto". Ad esclusione degli sporadici rinvenimenti avvenuti già dalla seconda metà del XVI secolo in territorio comacchiese, e delle narrazioni di annalisti e cultori di storia ferrarese, relative a materiali affioranti nei periodi di secca delle valli che circondavano la cittadina lagunare, una fitta coltre di nebbia ha avvolto Spina fino al 1922, allorquando, come sopra accennato, i lavori di prosciugamento delle valli nord di Comacchio, tra cui la valle Trebba, confermarono la veridicità delle fonti. Dal 1922, l'indagine archeologica della Soprintendenza dell'Emilia Romagna, coadiuvata da istituti universitari italiani e stranieri, ha riportato in luce, in consonanza con le attività di bonifica, dapprima la necropoli estesa sui dossi di valle Trebba (scavi 1922-1935) e valle Pega, indagata negli anni Cinquanta, quindi, negli anni Sessanta l'abitato, situato nella valle Lepri-Mezzano.
La vita della città portuale, fondata da popolazioni etrusche, sorta negli ultimi decenni del VI secolo a.C. alla confluenza di un potente ramo padano con un fiume appenninico, a breve distanza dal mare Adriatico, fu indissolubilmente intrecciata alle vicende del suo fiume che, se ne determinò la fortuna, contribuì anche alla sua decadenza. Circondata da possenti opere di arginatura e bonifica, costituita da agglomerati (insulae) di case/capanne separate da canali e strade, la città si sviluppò secondo criteri urbanistici, come dimostra il rinvenimento di cippi gromatici, contraddistinti dall'incrocio di due linee, ortogonali tra loro, indicative dell'orientamento del tessuto urbano. Uno di essi, databile al IV secolo a.C., purtroppo rinvenuto erratico, reca la scritta destrorsa: mi tvlar, "io sono il confine". Le abitazioni, costruite sui lievi dossi che connotavano questo lembo di territorio, con travi portanti di legno, pareti perimetrali di canne e argilla, tetti in paglia o tegole e coppi, erano mediamente composte di due ambienti, in cui i divisori erano pareti a graticcio, i pavimenti erano in argilla o in legno. La vita gravitava intorno al focolare, nei cui pressi trovava posto il telaio verticale, utilizzato dalle donne di casa per tessere la lana che esse stesse filavano e cardavano grazie a fusi ed epinetra, rinvenuti negli scavi. Sempre gli scavi hanno restituito tracce di officine per la manifattura di ceramiche e oggetti in metallo, data la tipologia dei materiali da costruzione delle capanne, fortemente incendiabili, ubicate ai margini della città per motivi di sicurezza. Anche la concia delle pelli, la lavorazione delle corna di cervo, la conservazione della carne e del pesce, l'allevamento di caprovini rientravano tra le attività diuturne degli Spineti, rappresentando l'economia interna della città. L'attività primaria fu infatti il commercio con Atene e i suoi intermediari commerciali e con l'entroterra padano, etrusco e transalpino. Dobbiamo immaginare le grandi navi mercantili piene di anfore di vino greco e di ceramiche attiche a figure nere, prima, poi a figure rosse, o a vernice nera, che, giunte nel porto fluviale di Spina, riprendevano il mare cariche di cereali, bronzi, schiavi, cavalli, pelli, sale e ambra (il mitico elettro, di provenienza baltica, scambiato sulle rive dell'Adriatico fin dall'età micenea), dopo aver esercitato forme di scambio regolate dal baratto delle merci, come testimonia la significativa assenza di monete. La ricchezza e raffinatezza delle ceramiche da mensa, ma anche da cucina, avvalorano l'idea che degli Spineti si era desunta dagli scavi della necropoli, vale a dire di una popolazione di ceto medio-alto, con raffinate abitudini, quanto all'uso di vasellame da mensa, preferibilmente di produzione attica, utilizzato
finché è stata attiva e "scambiabile" tale produzione ceramica, poi sostituita da altri "servizi" pregiati, di produzione etrusca, magno greca o localmente manufatti e ornati con motivi decorativi importati dall'Etruria propria (ceramica alto adriatica). Ricchezza e raffinatezza eloquentemente rappresentate nella necropoli, separata dall'abitato dal corso del Po, situata sui dossi delle valli Trebba e Pega, posti tra il fiume e il mare, in cui hanno trovato posto oltre quattromila tombe a cremazione o a inumazione. Pozzetti, o fosse scavate nella sabbia, talora dotate di cassa lignea, indifferentemente utilizzata in entrambe le tipologie, le sepolture erano sormontate da tumuli di sabbia, in qualche caso evidenziati da segnacoli tombali, ciottoli, i cui luoghi di provenienza, ora identificati grazie a raffinate analisi petrografiche, consentono di ricostruire le rotte commerciali dei mercantili, di cui rappresentavano la zavorra. Una popolazione, quella spinete, eterogenea, come si conviene a una città portuale cosmopolita, frequentata da genti greche, fenicie, venete, illiriche, celtiche; genti di etnie diverse dall'etrusca, che tuttavia utilizzavano la lingua etrusca per apporre il proprio nome sui vasi, ma che sapevano anche parlare greco, la lingua di scambio commerciale.
Città-cardine per i commerci da e per la Grecia, grande potenza marinara, Spina riuscì a mantenere un ruolo di primaria importanza anche quando l'Etruria padana subì l'invasione di popolazioni celtiche. La sua scomparsa, avvenuta secondo le fonti ad opera dei "barbari" (Celti), è archeologicamente situabile intorno alla metà del III secolo a.C. Una scomparsa, quella di Spina, cui contribuì certamente anche il mutato assetto idro-geomorfologico del delta, che portò ad un sensibile allontanamento dal mare della città – deducibile dalla lettura delle fonti di età classica – un allontanamento cui gli Spineti cercarono di ovviare con la creazione di un canale artificiale che, evidentemente, com'è facilmente comprensibile, non fu risolutivo. La distanza della città deltizia progressivamente aumentò, tant'è che il sito di Spina si trova ora a 15 chilometri dal mare. Abitudini, credenze religiose, legami commerciali, lingua e presenze etniche: tutto questo si è cercato di raccontare nel museo, la cui ossatura portante, dovuta al progetto scientifico di Fede Berti, poi integrato da Luigi Malnati, è stata arricchita con pannelli, apparati didattici e didascalie bilingui (italiano e inglese). Particolare attenzione è stata dedicata alla sala dell'abitato, che, con le sezioni dedicate ai culti, alla scrittura e ai popoli di Spina e con la sala relax arredata con banco tattile, completano il circuito espositivo, già ampliato nel 2010 con l'inaugurazione della Sala degli Ori, alla cui valorizzazione ha contribuito Bulgari, il riallestimento della sala delle imbarcazioni monossili, la riapertura al pubblico dei giardini, quello "storico", neo-rinascimentale di mezzogiorno, e il giardino di levante con la simulazione della necropoli e l'allestimento dei ciottoli-segnacolo. Ci si è affidati a dotazioni multimediali per rappresentare in modo esauriente e coinvolgente la quotidianità di Spina, affidandone la descrizione a multiproiezioni, a ipertesti consultabili autonomamente con touch-screen, ad un plastico rappresentativo del tessuto urbano della città, esposto "al vivo", come le anfore da trasporto e i ceppi d'ancora – altamente significativi della valenza commerciale e marinara di Spina – e come i busti, arule e cippi allestiti nella Sala dei Culti, analogamente a quella della scrittura e dei popoli a Spina, arricchita da un video con animazioni creato dagli studenti dell'Accademia di Belle Arti di Bologna. Un'ultima novità è costituita dal percorso per ipo e non vedenti, integrato nella sequenza espositiva del Museo, che si conclude nella sala relax, in cui sono disponibili testi di approfondimento sulla realtà spinete e una guida in braille, realizzata in collaborazione con l'Unione Italiana Ciechi, Sezione di Ferrara; un salotto accogliente, il cui arredo è arricchito dal banco tattile, ove sono esposte suppellettili ceramiche, esemplificative del servizio da simposio e del vasellame da cucina, più rappresentato nell'abitato di Spina. Da qualche anno il museo si propone anche come luogo d'incontro, ove seguire cicli di conferenze, ascoltare musica, o assistere a visite guidate e performance ispirate ai culti e alle storie di dei ed eroi rappresentate sui vasi che costituirono i corredi da simposio degli Spineti. Tutte iniziative, quelle ora descritte, che, realizzate in collaborazione con associazioni culturali e gruppi di volontariato – quali Bal'danza e il Gruppo Archeologico Ferrarese – hanno contribuito alla valorizzazione del Museo e all'incremento dei suoi visitatori.