La Cassa aderisce da numerosi anni all'iniziativa ABI giunta alla sua decima edizione
Trecento visitatori, non solo ferraresi, provenienti da numerose città d'Italia, ma anche dall'estero, persino dalla Repubblica Popolare Cinese; quattro guide esterne, una interna per nove ore non stop di visite guidate e – naturalmente – gratuite: sono "i numeri" dell'edizione 2011 targata Carife di "Invito a Palazzo", la manifestazione dell'ABI che prevede – per gli istituti che vi aderiscono – l'apertura delle proprie sedi storiche. Giunto alla sua decima edizione, l'evento si è caricato di un duplice significato: una manifestazione che ha individuato una formula di successo presso il grande pubblico e ha riscosso l'apprezzamento dei cittadini e dei media; la ricorrenza dei 150 anni dell'Unità d'Italia, inoltre, ha costituito, per le banche aderenti, un motivo per riflettere sulla storia del Paese e sulla propria in particolare, aprendo al pubblico i luoghi della memoria ed esibendo documenti d'archivio. Credo sia opportuno riflettere sul rapporto tra banche e arte, e più in generale, tra banche e cultura, partendo proprio dalle giornate abi. Perché mai una banca si occupa di arte? Per investimento, per ragioni di immagine, per motivi di pubblicità, ma non solo: per sensibilità culturale o perché, grazie ad acquisizioni cospicue che si snodano nel tempo, è divenuta proprietaria di un notevole patrimonio artistico e può dare ampio conto di forme d'arte del passato. Arte e potere hanno sempre goduto, d'altra parte, di buoni rapporti: dal mecenatismo, nato sotto Augusto e fiorito in modo speciale nel Rinascimento, è stato un susseguirsi di committenze, in una gara di eccellenza a colpi d'opere d'arte che già a partire dal Trecento ha coinvolto soprattutto chi nasce senza blasone. La tendenza ad accaparrarsi gli artisti migliori e a costruire raccolte sempre più ricche, vide in primo luogo i Principi di Santa Romana Chiesa, affiancati dai borghesi danarosi e dai banchieri poi: basti pensare all'influenza esercitata su Giotto dai Bardi e dai Peruzzi per gli affreschi delle rispettive cappelle gentilizie in Santa Croce a Firenze. Oggi non è più così. Quasi mai vengono elargite somme a favore di artisti affinché producano opere senza preoccupazioni finanziarie, ma l'accento si è spostato dalla creazione alla conservazione e alla tutela del patrimonio artistico già esistente allo scopo di preservarlo dall'incuria, dal degrado, dalla dispersione. Bisognerà comunque rammentare che il patrimonio artistico italiano, quanto ad appoggi esterni al bilancio statale, ha avuto storici benefattori. Sono stati soprattutto quegli istituti di credito, dotati di statuto sociale, che per decenni hanno previsto nei loro capitoli di bilancio finanziamenti per opere di restauro o di collezionismo. Tutta questa multiforme materia descrive ormai un secolo e mezzo di storia e vede le banche – soprattutto le Casse di Risparmio – affiancate all'opera dei conservatori. C'è stato un momento in cui il patrimonio culturale degli istituti di credito era più noto che realmente conosciuto, in quanto riservato ad iniziative sporadiche ed elitarie. Poi, in tempi recenti, lo scenario è gradualmente cambiato con una maggiore apertura delle banche. È il momento di ricognizioni critiche del patrimonio, mostre d'arte, volumi su singoli autori: valga per tutti la collana dei pittori ferraresi – auspice la nostra Cassa tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso –, primo esempio, mai celebrato abbastanza, dell'editoria d'arte. Contemporaneamente, si restaurano le sedi storiche delle banche ma anche monumenti cittadini: edifici religiosi, ma non solo, non v'è limite all'intervento risanatore a cura delle Casse di Risparmio in particolare. Esse, impegnando somme anche cospicue per un'opera di salvaguardia, beneficiano la comunità stessa che ha partecipato a suo tempo alla nascita della banca, facendo ridiscendere in modo armonico ed equilibrato nel tessuto sociale il vantaggio acquisito dal "lavoro" stesso del credito. In quest'opera di tutela, le Casse di Risparmio – e quella di Ferrara può dirsi un'antesignana – restituiscono all'utenza sociale un patrimonio di conoscenze che merita attenzione, e la possibilità per molti studiosi di accedere alla visione diretta di capolavori spesso inediti è una occasione per ricostruire contesti. E in questa fitta trama di relazioni tra il mondo delle banche e quello dell'arte e della cultura, si instaura – quale approdo di una ampia riflessione nel mondo delle banche – "Invito a Palazzo" ovvero la possibilità, per il grande pubblico, iniziati e non, di poter fruire di un patrimonio artistico e culturale senza pari. Il "palazzo" diviene dunque la metafora dell'evoluzione culturale, sociale, civile ed economica, simbolo del ruolo che le banche gli attribuiscono nel contesto della città italiana: nel palazzo non vi sono solo gli aspetti architettonici ma la sua valenza si dilata fino a lambire la storia, la filosofia, il paesaggio.
La costruzione del "palazzo" pose ai progettisti non pochi problemi, formali in primo luogo, oltre a quelli tecnici e funzionali. Occorreva un lessico stilistico riconoscibile, in grado di trasmettere un sistema valoriale improntato a concetti quali sicurezza, inviolabilità, sobrietà, eleganza, armonizzandolo, nel contempo, con l'alta efficienza operativa. Problemi comuni a moltissime banche, compresa la Cassa di Risparmio di Ferrara, allorché si accingeva a rinnovare la sua sede. «È troppo evidente che nella odierna sua sede, l'Amministrazione di questa Cassa si trova ristretta ed angustiata». Comincia così la trattazione del primo punto all'ordine del giorno del Consiglio di Amministrazione della Cassa nella seduta del 4 aprile 1902 alla voce "Ampliamento della residenza dell'Istituto". Dalla sua istituzione, era questa la quarta volta che mutava residenza. Aperti i locali la domenica 3 febbraio 1839 nel palazzo Comunale, vi rimase fino al 1858 per poi trasferirsi in un locale d'affitto del Monte di Pietà in largo Castello. Nel 1871 traslocava nella casa di corso Giovecca 108, acquistata all'asta, dove manteneva la propria sede fino a quando, il 21 settembre 1907, poteva entrare, collocare i suoi uffici ed aprirli al pubblico nella parte di residenza già ricostruita, in attesa della nuova e più ampia dimora.
Ad un ampliamento dei locali, la cui necessità si faceva sempre più manifesta e imprescindibile, si pensava da tempo, tant'è che in quel famoso 1902 venivano
acquistati dal conte Pietro Braghini gli stabili attigui a quello della propria sede. Fu edificata tra il 1907 e il 1910 su progetto di Luigi Barbantini con la supervisione di Gaetano Koch, famoso progettista del palazzo della Banca d'Italia, in stile neo-rinascimentale, di architettura severa e grandiosa, con tre ordini di finestre sul davanti e sulle fiancate, quattro su quello posteriore: abbondanti ma sobrie le decorazioni in marmo bianco, un artistico portale con balcone, anch'esso marmoreo.
Probabilmente l'azione di Koch fu risolutiva per il problema dello scalone d'onore: infatti, espanderne troppo la volumetria avrebbe significato sacrificare la funzionalità degli ambienti operativi; per contro, la sua compressione avrebbe tolto la maestosità che sta all'origine della sua concezione. Il rigore spaziale, l'impressione di solidità, le bianche pilastrate d'angolo e della trabeazione marmorea, il delicato equilibrio tra cotto e marmo – proveniente dalle cave di Chiampo (Vicenza) – del palazzo di corso Giovecca, ricordano abbastanza quello romano di via Nazionale. Se all'occhio dell'osservatore dei primi anni del Novecento, i 53 metri di fronte, per 36 di lato per 19,60 di altezza sovrastavano ampiamente gli altri palazzi prospicienti la Giovecca, suscitando fortemente l'idea di potenza e qualche perplessità circa l'inserimento del manufatto nella volumetria cittadina complessiva, oggi il palazzo fa parte dell'immagine della città. Fu inaugurato nel giugno 1910 da Vittorio Emanuele III.