La presenza del pittore bolognese nella chiesa di Santo Stefano a Ferrara
Il primo maggio del 1949 usciva sulla «Gazzetta Padana» un articolo firmato da Giulio Righini dal titolo: Di Vitale da Bologna gli affreschi di Santo Stefano? Giulio Righini, presidente della "Ferrariæ Decus" e studioso di cose d'arte, con quello scritto informava la cittadinanza della scoperta di alcuni affreschi frammentari ritrovati in un ambiente situato alla base del campanile della chiesa di Santo Stefano. L'attribuzione da lui data portava direttamente alla mano di Vitale da Bologna, che aveva lavorato a Ferrara in un periodo compreso tra il 1334 e il 1359: tutto questo era sostenuto dalla ricognizione della pittura esaminata dal vivo ed ancora sul muro sul quale era stata dipinta, oltre alla rilevanza di alcuni particolari dei profili, degli occhi dei personaggi e dell'andamento complessivo dell'opera; osservazioni precise ed acute, ma sostanzialmente rimaste inascoltate.
Nel 1998, dunque quasi cinquant'anni più tardi, durante i quali tutta una schiera di storici dell'arte aveva esteso le proprie considerazioni circa l'esecuzione degli affreschi, tale attribuzione è stata confermata dall'intervento di Alessandro Volpe in «Nuovi Studi», intitolato Vitale a Ferrara, sventure e risarcimenti, in cui l'autore spiega molto bene che la conferma della mano di Vitale viene data grazie al ritrovamento di due vecchie lastre fotografiche. Le immagini furono realizzate dallo studio Vecchi e Graziani di Ferrara proprio nel 1949 all'epoca dello scoprimento degli affreschi e mostrano con straordinaria precisione la qualità della materia pittorica così diversa da come la si vede oggi, ossia dopo l'intervento di trasporto su di un diverso supporto. Dunque se tutta la critica successiva al Righini e quindi posteriore anche alle operazioni di stacco delle pitture è stata deviata dall'aspetto deteriore degli affreschi, lo si deve in gran parte all'esecuzione di un cattivo restauro da non imputare agli operatori; probabilmente è proprio questa la causa che non ha messo in luce chiaramente quei particolari così ben descritti da Giulio Righini e che facevano pensare proprio a Vitale; ai motivi e alle cause che hanno portato a tutto ciò cercherò di dare risposta, ma è doverosa premessa ripercorrere brevemente la storia della chiesa.
Santo Stefano era un'antichissima parrocchiale di cui si hanno notizie già nell'XI secolo; la chiesa faceva parte dei beni del Capitolo della Cattedrale di Ferrara già dal 1083 e lo fu sino al XVII secolo. Lo storiografo ferrarese Marcantonio Guarini ci informa che il campanile della chiesa, eretto nel 1275 crollò nel 1339... «senza che in lui si scorgesse alcun segno o macola ... poi venne rifatto, ma di minore altezza, nella forma presente» e tale intervento di ricostruzione fu posto in cantiere senza rifare le fondamenta. È inoltre probabile che dopo la ricostruzione del campanile le pareti del sacello che si trova alla base dello stesso venissero affrescate da Vitale con storie della vita di san Maurelio che assieme a san Giorgio è patrono della città. Ancora dal Guarini sappiamo che la chiesa dopo il terremoto del 1570 fu oggetto di restauro e ampliamento a tre navate; magari proprio durante quel cantiere gli affreschi dipinti da Vitale vennero ricoperti da alcuni strati di calce e addirittura
mutilati per l'apertura di un'altra porta di ingresso al vano che era utilizzata come cappella.
Durante il XVII secolo furono i padri Filippini ad officiare la chiesa di Santo Stefano e questo sino al 1796, anno in cui la congregazione fu soppressa; l'edificio comunque rimase aperto al culto e nel 1825 venne allestito sulla facciata il portale marmoreo della chiesa di San Silvestro andata distrutta.
Negli anni Venti del Novecento poi, in una temperie culturale che potremmo definire neoestense, la "Ferrariæ Decus" si fece onere del restauro della facciata e dell'abside riportandoli ad uno stile gotico; negli anni Quaranta fu sistemato il fianco destro, ma pochi anni più tardi e in particolare nel settembre 1944, la città di Ferrara fu colpita da un violento bombardamento che distrusse anche il soffitto della chiesa di Santo Stefano, che venne successivamente ripristinato e forse proprio in quel periodo, i primi mesi del 1949, grazie ad un'attenta indagine esplorativa dell'edificio, si giunse allo scoprimento degli affreschi con storie della vita di san Maurelio.
Ritornando dunque alla vicenda degli affreschi, si è già detto che se l'articolo di Giulio Righini fosse stato recepito in maniera più ampia, maggiore sarebbe stata l'attenzione da parte delle autorità competenti alla campagna di restauro degli affreschi e un buon restauro avrebbe sostanzialmente meglio conservato la superficie della pellicola pittorica, che sarebbe stata più leggibile perché ricca di particolari eseguiti a secco e che avrebbe portato all'attribuzione a Vitale con più facilità e in minor tempo. Per una serie di eventi particolari tutto ciò non è avvenuto, anche se una nota del 17 maggio 1949 della Soprintendenza di Bologna diretta a quella di Ravenna ci informa che il ritrovamento delle pitture era cosa già nota agli uffici competenti, i quali erano interessati in accordo col Comune di Ferrara e col parroco al distacco poiché tale intervento veniva sollecitato anche da Roberto Longhi che stava organizzando la mostra sulla pittura bolognese del Trecento. Allora come in questo difficile periodo la scarsità dei fondi a disposizione per la conservazione delle opere d'arte era quanto mai viva, e quindi era solo grazie alla partecipazione di molti soggetti pubblici e privati che si costituivano i cantieri di restauro.
In prima battuta fu dunque incaricato il restauratore Enrico Gessi – il quale non aveva grande pratica nel distacco di affreschi – delle operazioni di descialbo: ossia il togliere gli strati di calce dalla pittura per poter mettere in luce la globalità delle superfici dipinte; le tinte a calce si riuscivano ad eliminare anche se... «è risultato ... la resistenza di alcune zone»: dato che si ricava dal suo preventivo di spesa. Soltanto un anno più tardi però si riparla degli affreschi di Santo Stefano, quando la Soprintendenza incaricò dell'intervento di distacco il celebre restauratore Arturo Raffaldini che in precedenza si era occupato di importanti interventi di restauro in cicli pittorici anche molto vasti: dagli affreschi di Sant'Agostino a Rimini a quelli di palazzo Te a Mantova, dal Salone dei Mesi di palazzo Schifanoia, alle ante d'organo di Cosmè Tura del Museo del Duomo a Ferrara e che in quel periodo stava lavorando al recupero della Sala delle Sibille a Casa Romei, e voleva dunque utilizzare la stessa strumentazione nei due cantieri, ottimizzando i tempi. Al 20 giugno del 1950 i lavori di strappo erano cominciati, ma Raffaldini stava incontrando molte difficoltà; vicende al limite del grottesco, direi, che probabilmente sono state alla base della cattiva riuscita del restauro: infatti una volta applicato il primo strato di tele non si era potuto procedere col secondo strato in quanto il sagrestano della chiesa aveva chiuso tutte le parti del vano con gli affreschi, con la conseguenza che la colla non si era asciugata del tutto e in alcuni punti si era asciugata male, per cui il restauratore aveva pensato a riscaldare l'ambiente in maniera artificiale utilizzando una piccola stufa per velocizzare il processo di asciugatura, ma non gli fu concesso usare la corrente elettrica della parrocchia, così dovette ricorrere ad un attacco temporaneo di luce con l'installazione di un altro contatore anticipandone le relative spese. Solo riscaldando la piccola cappella Raffaldini riuscì a strappare gli affreschi e una volta trasportati a Firenze per la trasponitura su tela e il montaggio su telaio in legno, li riconsegnò al Comune di Ferrara che una volta collaudati li allestì, qualche anno più tardi, a Casa Romei dove ancora oggi si possono ammirare e in maniera più leggibile, grazie ad un restauro della fine degli anni Ottanta che ha eliminato muffe, scollamenti, stuccature grossolane, vecchie patine e insetti xilofagi.
Dobbiamo aggiungere per dovere di cronaca una piccola notizia d'archivio che non ha trovato seguito: gli affreschi di Santo Stefano dovevano essere esaminati nel laboratorio di Raffaldini a Firenze da Mario Salmi, grande storico dell'arte e a quel tempo vice presidente del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti, segno che in ambito accademico si era sparsa la voce di un ritrovamento di notevole valore storico.
Dunque si può dire che siano questi i motivi che hanno fatto pensare per tanto tempo agli studiosi e alla critica: Vitale sì, Vitale no.