Vivere al 108

Scritto da  Roberto Pazzi
Lo scalone d’onore della sede della Cassa di Risparmio di Ferrara, in corso Giovecca al 108Centosettantanni di storia vissuti nei ricordi di uno scrittore
Ferrara vive nella palpabile nostalgia della Signoria Estense che la governò per alcuni secoli, dal Trecento fino a quando nel 1598 iniziò la lunga decadenza del dominio pontificio. Ma a contribuire a governarla, dal 1838, c'è stata un'altra Signoria, non ducale questa volta, ma delle finanze : la Cassa di Risparmio. "Hanno frantumato le loro antiche corone nelle monete ..."
scriveva nei suoi versi Rainer Maria Rilke, all'alba del XX secolo, riferendosi alle decadute regalità delle antiche monarchie europee. Da pochi anni la tragica fine di Ludwig II di Baviera, l'ultimo sovrano che vivesse la mistica del potere regio, ne aveva dimostrato l'impossibile convivenza con la borghesia degli affari. È il prezzo della Storia, il passaggio da un sistema di potere legato alla forza militare di un Duca e di una dinastia - dux significa comandante dell'esercito -, a quello di un sistema economico legato alla forza dell'imprenditorialità garantita dai capitali. Se Ferrara, nave carica di tesori preziosi, L’ufficio del Presidente in una fotografia d’epoca.oggetto spesso di cupidigia di nuovi "pirati" - si pensi ai cardinali Aldrobrandini, nipoti di Clemente VIII, che la spogliarono di tante insigni opere d'arte, come a certe avventurose e deturpanti speculazioni edilizie di oggi -, ha potuto navigare felicemente nei secoli fino a giungere quasi intatta col suo prezioso carico nel XXI secolo, è anche merito di questa generosa Signoria delle finanze. Così la città si è meritata dall'Unesco il titolo di "patrimonio dell'umanità". Nell'arco della mia vita, iniziata con la caduta di una monarchia e l'instaurazione di una repubblica, non ho mai visto sorgere impresa di vitale rilevanza, nella mia Ferrara, che non fosse sostenuta anche dalla Signoria la cui sede non è più in Castello, ma nel novecentesco palazzo di Corso Giovecca, al numero 108. Dove ho vissuto i primi dieci Un’incisione d’epoca della facciata del 108.anni della mia esistenza, come figlio di un suo funzionario, all'ultimo piano del grande palazzo, costruito nel 1911. I miei primi e più indelebili ricordi sono così legati a quelle stanze immense ( alti soffitti, pavimenti a palladiana, doppie porte di legno, termosifoni dai motivi floreali, finestre troppo alte perché mia madre arrivasse a pulirne i vetri ... ), che quando, di recente, ho avuto modo di ritornarvi, passati più di cinquant'anni, mi è parso di vivere un sogno ad occhi aperti, dove il Tempo sprofondava su se stesso. Mi trovavo nelle sale della direzione generale, in visita all'amico direttore Gennaro Murolo, ma non ero più lì... Vedevo in quegli spazi luminosi le stanze più in penombra della camera da letto dell'allora direttore generale, Achille Ballardini, che abitava con la sua famiglia nel-l'appartamento sottostante il mio ... e in piedi davanti allo stupito amico, evocavo spazi riconoscibili solo alla mia vista, che vista non era più, ma visione ... "Sai, gli precisavo" qui, proprio in questo angolo, c'era la scrivania dove la consorte del direttore, professoressa di latino, m' istruiva sul pronome relativo qui, quae, quod, cuius, cuius, cuius, cui, cui cui ... laggiú, nel cortile interno, ora ricoperto da lucernai, c'era il pollaio, dove l'Ebe e l'Indàna, le fantesche domestiche, tiravano il collo a qualche cappone per le feste di Natale e Pasqua ... più in là, la camera da letto del figlio del direttore, il giovane avvocato che rientrava sempre tardi la notte e ci svegliava con i suoi passi ..." Insieme a quella surreale planimetria interna, un'Italia che non esiste più riaffiorava ai miei occhi. Ed era un'Italia contadina, senza televisione, senza computer, con pochi telefoni e un infinito senso delle distanze, non solo fra le città, ma anche nelle gerarchie bancarie, fra direttore e funzionari, fra funzionari e impiegati, al cui ultimo gradino stavano i cosiddetti "fattorini" e, in una condizione solitaria, nel suo magico gabbiotto, la telefonista, signora Bice. Un Paese con treni lenti, anche se si chiamavano direttissimi, a tre classi, con panche di legno in terza e velluti rossi in prima. E poche automobili che sfrecciavano sul corso della Giovecca, fra i filobus della Stu delle due uniche linee, la 1 e la 2, la prima diretta a Porta Mare, la seconda a San Giorgio. E le lunghe feste di Natale così sentite, così attese, dove il presepio aveva il senso magico di reinvenzione della leggenda più dolce della nostra millenaria Storia cristiana. Aveva molto meno fascino, nelle mie stanze all'ultimo piano della Cassa, l'albero di Natale, perché "roba da gente del nord, non da italiani" diceva mio padre Gualtiero, fiero della sua mansione di capo ufficio depositi, mentre scartava una nuova statuina per il presepio, ogni anno arricchito di un esemplare. Non nego di aver provato quasi una vertigine, mentre in quelle stanze, ora impreziosite da tante opere d'arte esposte alle pareti, riportate a Ferrara grazie alla Carife, si muovevano le eleganti segretarie della direzione succedute alle nerborute fantesche che tiravano il collo ai polli dell'antico direttore generale ... Che salto nel Tempo! Un ruzzolone da rompersi quasi l'osso del collo, mentre riemergevo alla conversazione dal mio sogno ... Ma non era affatto un sogno ! Era la mia vita, che come tutte, quelle delle persone come quelle delle città, fluisce nel Nulla, quel Nulla a cui allude, nell'affresco sul segno dell'ariete, di Francesco del Cossa, a Schifanoia, la cavalcata del Duca Borso e della sua corte, verso il baratro, sopra gli archi in rovina ... È tutto così nella nostra esistenza, se però questa abbia ricevuto il dono di poter attraversare le diverse stagioni della vita, fino a giungere alla ricchezza di una memoria dove i ricordi, anche quelli più personali e più sacri, coincidono con gli eventi collettivi della Storia. Sopravviviamo a noi stessi, nella costante rovina di quello che fummo. Noi sfioriamo spazi, stanze, scale, vie, piazze, giardini senza renderci conto che, dentro quelle forme visibili, alle quali lasciamo un così povero segno del nostro passaggio, ne esistono altre invisibili e che tuttavia premono su di noi, come le acque di un fiume le sponde. Così, in una bambola russa. Ogni bambola è rivestita da altre e altre ne riveste, che sono in successione sempre più piccole all'interno, sempre più grandi all'esterno. E noi camminiamo qui, essendo là. Partecipi, nel 2008, "la stagion presente e viva", del suo affanno per la crisi dei mercati americani, per il salvataggio difficile dell'Alitalia, per le nuove minacce di Al Qaeda in Pakistan. Ma avvolte dentro di noi, solo addormentate, le vite ferraresi vissute nel Duecento, con le lotte fra Adelardi e Salinguerra, nel Trecento, con la lenta costruzione del Castello Estense, nel Quattrocento, con la notizia dell'ambito titolo ducale concesso da papa e imperatore a Borso d'Este ... Il sentimento proustiano del Tempo, che mi aveva aggredito quel giorno nelle stanze della nuova Signoria ferrarese, la Cassa di Risparmio, forse meglio si coglierà nei versi che anni prima avevo scritto, di ritorno a casa mia, dopo una lunga passeggiata, spiando i nomi antichi delle vie, sottoscritti ai nomi attuali :

I NOMI
Metteva nome Stanley a fiumi che nessuno conosceva: e sulle carte vergini dell'Africa città e cascate apparivano evocate da quell'esperto di nomi. L'esploratore non rivelò mai la formula delle sue evocazioni, ma a volte, alzando il capo in città a leggere i nomi delle vie, in me rivive quell'amore per gli sconosciuti prigionieri nel sonno delle pietre, nell'incoerenza dell'acqua.
[da Calma di vento, Garzanti, 1987]