Una visione lucida della società contemporanea mutuata da una rigorosa ricerca estetica
Presentare le opere di Mona Hatoum alla XIII edizione della Biennale Donna rappresenta una scelta importante e qualificante che integra e completa la scelta artistica e culturale operata nelle ultime due edizioni.
La scelta di Mona Hatoum si è dimostrata perfettamente coerente per concludere, senza la pretesa di poter essere esaustiva, una indagine tematica così interessante e rivelatrice. Se uno degli aspetti più studiati è stato il nomadismo e, conseguentemente, l'identità culturale, la Hatoum ne è un esempio clamoroso.
Non vi è dubbio che la circostanza crudele determinata dallo scoppio della guerra civile nel suo paese, il Libano, che le impedisce di rientrare in patria, ne ha condizionato fortemente le scelte, ma al tempo stesso ha contribuito ad arricchire e ampliare la sua educazione artistica e la sua formazione socio-politica.

La distanza che ha dovuto mettere fra sé e le sue radici le ha consentito di vedere il suo passato, ma ancor più il suo futuro, in modo distaccato e probabilmente non privo di un salvifico "cinismo" che la indurrà a mettere a fuoco gli orientamenti e le specificità della società contemporanea che si dibatte costantemente fra la positività della scienza e l'iniquità della guerra. Mona Hatoum sceglie di vivere a Londra dove frequenta, nel periodo che va dal 1975 al 1981, prima la Byam Shaw School of Art e, successivamente, la Slade School of Art. Berlino sarà la seconda città nella quale sceglie di vivere e lavorare.
Nella produzione di Mona Hatoum si avvertono legami evidenti con il pensiero minimalista e con la frequentazione dell'esperienza concettuale, ma esclusivamente come background culturale, mentre il suo stile, il suo linguaggio e le sue tematiche sono assolutamente originali, personali e fortemente coinvolgenti. Molte delle sue opere conducono a un retro pensiero insidiosamente ostile e inducono lo spettatore a una riflessione profonda e anche sofferta.

Ben presto ci si accorge che quello che si sta osservando ha diverse valenze, diversi significati, diverse interpretazioni. Un'opera del 1989, The Light at the End, mi stimola in modo particolare queste considerazioni. Lo spazio nel quale viene collocata l'installazione è un angolo di una stanza semibuia dove sei sbarre di metallo incandescente posizionate verticalmente simulano una prigione - o forse un luogo invalicabile? L'artista fa dell'ambiguità la sua "arma" preferita che utilizza per spiazzare, per togliere certezze, per depistare, per insinuare inquietudine. La sua produzione artistica non vuole certo essere consolatoria, anche se i materiali, le forme e i colori che usa per realizzare le installazioni, le sculture e i suoi oggetti ingigantiti, quindi sottratti alla loro funzione abituale, risentono fortemente di una eleganza formale frutto di una consapevole ricerca estetica, raffinata e puntuale, che certamente affascina e seduce, ma al tempo stesso sconcerta e disorienta. In diverse delle sue grandi opere si scorge l'intenzione di trasmettere l'insicurezza che deriva da un vissuto dominato dalla paura intesa come condizione esistenziale.

Quella paura con la quale ogni essere umano, nel mondo in cui viviamo, potrebbe dover convivere. Quello che più mi attrae nel "leggere" le opere della Hatoum è l'intercettare il suo rifiuto per qualsiasi soluzione didascalica, il suo sottrarsi a ogni soluzione che possa dar luogo a precisazioni o a chiarimenti. Sembra che non ami prendere posizioni tramite il suo lavoro, ma che preferisca provocare lo spettatore fino al punto di costringerlo a capire e riflettere, e anche inconsciamente schierarsi, o quanto meno avvertire i pericoli che investono anche quella parte di umanità lontana dalle dittature, dai conflitti, dalla miseria, dalle epidemie. Nessuno è al sicuro per sempre, sembra volerci ricordare l'artista. Negli anni Ottanta, Hatoum concepisce performance e realizza video dove viene evidenziata in modo incisivo la centralità e la rilevanza del corpo. Nel 1985, nel sobborgo londinese di Brixton si esibisce in una performance intitolata Roadworks che la vede camminare per la città a piedi nudi con un paio di stivali annodati alle caviglie e sembra voler simulare la condizione dei carcerati che deambulano faticosamente con le catene ai piedi. Molto più tardi ho saputo che la performance non è nata con questo scopo, ma in riferimento ai disordini razziali del 1981 a Brixton, con l'intendimento di sottolineare l'insicurezza e la vulnerabilità che gli individui patiscono nei conflitti. Il fascino dell'opera della Hatoum deriva anche dalla possibilità di leggere ogni sua azione artistica, ogni sua opera non in modo univoco e bloccante, ma interagendo e mettendo in gioco visioni e sensibilità diverse.

Per l'artista è importante, direi vitale, sfidare i tabù che il corpo umano incarna in modo simbolico ed esemplare. È sempre il corpo che cattura la sua attenzione in quanto destinatario delle torture, delle segregazioni, della guerra, ma il corpo è importante anche per la sua fisicità, sensualità e vigore. Spesso queste peculiarità fisiche-umane sono state e sono tuttora mortificate da culture, religioni, società sessuofobiche.
Nel concepimento dei suoi primi video utilizza le telecamere di sorveglianza focalizzando il suo interesse probabilmente anche sul significato ambiguo di questa parola. Infatti, il vocabolario della lingua italiana ci dice testualmente: «Sorveglianza (s.f). Controllo assiduo e diretto a scopo cautelare o anche di custodia e difesa», ma il temine sorvegliato (agg.) contempla fra i diversi significati anche «persona soggetta a speciali misure di controllo da parte della polizia», dunque ancora una volta mette in evidenza il carico di ambiguità insita nel linguaggio attraverso il quale le società e i poteri istituzionali si proteggono. Nel 1994, Mona Hatoum decide di realizzare un video, per certi versi sconvolgente, ma rivelatore. Con una microcamera, in uso nelle unità mediche ospedaliere, decide di esplorare-sorvegliare l'interno del suo corpo per ricavarne delle riflessioni. Il titolo è Corps étranger. La prima perplessità è motivata dalla circostanza che si tratta del suo corpo, ma subito dopo viene spontaneo pensare che ognuno di noi non ha alcuna dimestichezza o familiarità con l'interno del proprio corpo e questo può risultare inquietante e spiazzante, quindi in qualche modo ci risulta anche estraneo. Gli organi interni del corpo umano non sono distinguibili sul piano estetico e formale; infatti per operare un trapianto di organi è indispensabile la compatibilità genetica che non ha nulla a che vedere con le

razze, le culture, le religioni, le ideologie, le appartenenze a clan o tribù. Questa in distinzione dell'interno del corpo, territorio estraneo e al contempo familiare, come lo definisce Mona Hatoum, mi ha ricordato le immagini drammatiche del mercato clandestino di organi, a danno delle popolazioni più povere. Per questa ragione ritengo che il lavoro di Mona Hatoum anche in questo caso sia stato illuminante oltre che formalmente ineccepibile. Tuttavia, un'altra interpretazione, anche se meno efficace o addirittura superficiale, potrebbe essere che il corpo estraneo è rappresentato dalla microcamera che invade l'organismo. L'ambiguità è pur sempre un elemento presente nella decodificazione dell'opera dell'artista. Un altro video, di segno completamente diverso, mi ha coinvolta anche emotivamente; si tratta di Measures of Distance (1988). Si intravede il corpo nudo di sua madre mentre fa la doccia, mentre sullo schermo appaiono in dissolvenza le pagine manoscritte delle lettere scambiate con la figlia. Una voce narrante rende l'atmosfera intima, quasi mistica, per cui la sensazione che si prova è di estremo imbarazzo, come se si fosse compiuta una grave violazione.
In questa occasione, l'artista presenta un'opera, Nature morte aux grenades, che viene esposta in anteprima al Padiglione d'Arte Contemporanea di Palazzo Massari: la scultura si ascrive in quella ricerca estetica che prevede lo stravolgimento della funzione d'uso di oggetti della quotidianità. Oggetti che volutamente ingigantiti e modificati perdono la familiarità che è loro propria per assumere un ruolo a volte stupefacente, ma anche aggressivo, ostile, teso probabilmente più che a intimidire a fare ancora una volta riflettere sulle forme e sulle funzioni. Nulla, o quasi, è realmente come vorremmo fosse o come dovrebbe essere secondo criteri di ispirazione etica. La manipolazione è sempre possibile e il più delle volte pericolosa. Attenzione!