Due personaggi indissolubilmente legati alla storia di Ferrara e dell'Italia
Ricordare la figura di Paolo Ravenna (1926-2012) attraverso una biografia è in fondo ricostruire la condizione, l'evoluzione, di Ferrara, nel secolo breve. In altri termini le vicende sue e quelle della sua famiglia s'intrecciano indissolubilmente con le storie di una città ma anche di un periodo cruciale del Novecento. In più il matrimonio con Roseda Tumiati lo colloca in contatto con una famiglia di intellettuali ferraresi che molto influirono sulla cultura ferrarese e italiana. Da qui la necessità di tenere assieme il senso dell'opera di Paolo Ravenna a Ferrara e la prospettiva non solo ferrarese che quell'opera ha significato. Vale a dire precipuamente, ma non solo, l'intreccio tra la sua condizione di cittadino e cittadino ferrarese influente e la sua missione di intellettuale: e di più intellettuale ebreo che pone in rilievo non solo l'immensa tragedia della Shoah ma la funzione, il ruolo, il senso della cultura ebraica nel panorama della nazione. Ringrazio di cuore l'amico Adriano Prosperi che mi ha concesso di poter fruire della splendida lezione sulla figura di Paolo Ravenna appena scomparso e sul significato dell'opera estrema, quel La sinagoga dei Sabbioni che è stata non l'opera conclusiva ma un testamento morale, una dichiarazione d'intenti, il punto fermo da cui ripartire. E le parole finali quelle che rappresentano il punto di ri-partenza sono affidate all'ultimo mio ricordo.
L'andai a trovare con Portia Prebys in campagna. Appena entrati Paolo ci impose silenzio. "Adesso parlo io" – disse – "se no mi dimentico" (era una civetteria per ottenere la massima attenzione). "Ecco!" – e tirò fuori l'ultima bozza del suo libro sulla Sinagoga dei Sabbioni – "Ci sono riuscito". Cosa significa quella frase? Significa che per Ravenna si stava ricomponendo il circuito tra una memoria familiare privata a cui dedica un libriccino non venale per i familiari, La tovaglietta del nonno rabbino. Le feste ebraiche in casa Ravenna-Modena uscito nel dicembre del 2011 e la consapevolezza del ruolo che la grande cultura ebraica ha avuto nello sviluppo di quella nazionale. La memoria privata coltivata come solido ancoraggio nel momento della tragedia e della fuga avventurosa in Svizzera nel 1943 dove Paolo con la famiglia incontra la collettività ebraica e soprattutto un amico: il grande scenografo e illustratore Emanuele Luzzati con il quale avrebbe progettato un libro di ritualità familiare se la morte di Luzzati nel 2006 non avesse annullato quel piano: "Questo menabò doveva guidare le illustrazioni di Lele Luzzati per il mio libretto di ricordi familiari. Secondo la sua richiesta glielo inviai, ma purtroppo il progetto non fu realizzato per la sua scomparsa" (p. 4). Così commenta Adriano Prosperi: "Dava il titolo al libretto il tappetino del nonno rabbino Pardo di Verona uno dei pochi oggetti salvati" nella fuga in Svizzera. Il soggetto collettivo con cui il racconto è condotto, prosegue Prosperi, "era la famiglia e la scansione era quella delle feste ebraiche: un calendario festivo di una famiglia ebraica ricollocato nel contesto di paesaggi e di interni dispersi dalla distruzione della persecuzione e della guerra". Alcuni momenti di questo "menabò" illustratissimo sono memorabili come le feste di Purim (marzo-aprile) "in cui si usa uscire in maschera" o quelle di Pesach, la Pasqua ebraica, dove fortissima è l'influenza memoriale delle celebri pagine di quella festività nodo centrale del Giardino dei Finzi-Contini, il libro più conosciuto del "suo amico" Giorgio Bassani, e qui negli appunti di Ravenna si parla degli "zuccherini divisi in due sacchi, quelli rotondi profumati col vino, da noi preferiti, distinti da quelli secchi all'uovo" (p. 17) o delle "azzime confezionate nella stanza di via Vignatagliata (dove si trova la sinagoga)" o degli "scacchi, la minestra di verdure che ci accompagnerà nei prossimi giorni" (ivi). Sono testimonianze che, nella memoria, si accompagnano al mio ricordo personale della celebrazione del quarantesimo anniversario della pubblicazione del Giardino nel 2002 alla Sinagoga di via Mazzini, quando il commento al romanzo era accompagnato dalla spiegazione dei cibi ebraici condotta da Jenny Bassani Liscia, sorella di Giorgio, e il canto rituale era eseguito da Enrico Fink, il figlio di Guido che con Paolo Ravenna era stato alunno alla scuola ebraica di via Vignatagliata dove Giorgio Bassani insegnava dopo l'esclusione degli ebrei dalle scuole pubbliche a seguito delle leggi razziali. Memorie private dunque, ma di un privato che si allargava alla vita pubblica nazionale. Quindi un lato privato che si affianca alla grande opera che un intellettuale come Ravenna conduce non solo in quanto ebreo, ma nella difesa dei valori della cultura nazionale, operando all'interno di imprese di altissimo profilo che si concretizzano nella gigantesca impresa del salvataggio e restauro delle mura estensi, nella sua attiva e fondamentale presenza in Italia Nostra raccogliendo il testimone dal suo "primo amico" in senso dantesco così, come per Dante, Guido Cavalcanti; il primo amico che per lui fu Giorgio Bassani. In questo senso la memoria privata diventa testimonianza pubblica a cominciare dal titolo della grande mostra I TAL YA'. Isola della rugiada divina: duemila anni di arte e vita ebraica in Italia che si tenne a palazzo dei Diamanti nel 1990, il cui catalogo ha per prefazione uno scritto di Primo Levi. L'autore di Se questo è un uomo scrisse parole decisive che innestano la questione ebraica in una questione italiana: "È stato detto che ogni paese ha gli ebrei che si merita: l'Italia postrisorgimentale, paese di antica civiltà, etnicamente omogeneo e indenne da gravi tensioni xenofobe, ha fatto dei suoi ebrei una classe di buoni cittadini, rispettosi delle leggi leali allo stato, alieni dalla corruzione e dalla violenza. Sotto questo aspetto l'integrazione dell'ebraismo italiano è peculiare nel mondo, ma forse più peculiare è l'equilibrio dell'ebraismo torinese-piemontese che si è facilmente integrato pur senza rinunciare alla propria identità, I TAL YA'' " (p. 17). Lo stesso si potrebbe dire per l'ebraismo ferrarese e per il suo storico insediamento, frutto della politica estense rinascimentale a cui Paolo Ravenna dedicò personalmente una importante serie di studi che si riassumeranno nella storia della Sinagoga dei Sabbioni da Ser Mele, il fondatore della Sinagoga, alla descrizione bassaniana dei Finzi-Contini. Nella ricca bibliografia di Ravenna gli scritti sulla storia della Comunità sono numerosi e straordinariamente accurati. Già nel 1974 il primo intervento sulla scuola ebraica dopo le leggi razziali nel saggio Una scuola nel Ghetto per gli "Annali del Liceo Ariosto", ripreso e ampliato in Bassani, insegnante negli anni Trenta per gli atti del convegno bassaniano "Bassani e Ferrara, le intermittenze del cuore" del 1995, e soprattutto i due saggi fondamentali sul cimitero ebraico: L'antico orto degli ebrei - il cimitero ebraico di Ferrara del 1998 e Le lapidi ebraiche nella Colonna di Borso d'Este a Ferrara del 2002, quest'ultimo tra le più impressionanti testimonianze del rapporto di intolleranza e di esclusione che il governo pontificio, successo a quello estense dopo il 1598, condusse nei riguardi degli ebrei ferraresi confinandoli nel Ghetto, chiuso la notte da cancelli di ferro, e che usò, con la soppressione del cimitero ebraico, le lapidi di marmo per innalzare la colonna su cui sedeva la statua del duca Borso. Ravenna studiò quelle lapidi, ne ricompose la provenienza e le testimoniò con un ricco apparato fotografico. Non va poi dimenticato il progetto museologico per il costituendo Museo ebraico di Ferrara condotto assieme a Alessandra Mottola Molfino, del 1996, che produsse il prezioso anche se piccolo museo collocato nella Sinagoga dei Sabbioni. Tracce, spie di quel pensare in grande che avrebbe permesso a Ravenna di essere tra gli interlocutori e responsabili del meis, il Museo dell'Ebraismo italiano ora in fase di costruzione nel luogo più odioso delle memorie ebraiche: quel carcere di via Piangipane dove furono internati gli ebrei ferraresi per il viaggio senza ritorno. La ricostruzione della storia dell'ebraismo a Ferrara si accoppia e prosegue parallela ai grandi interventi sull'urbanistica e sul paesaggio ferrarese effettuati sotto la bandiera di Italia Nostra e trova un'ulteriore spinta in due opere monumentali che lo stesso Ravenna volle e perseguì fino al loro adempimento: quelle di Adriano Franceschini e di Aaron di Leone Leoni: del primo, Presenza ebraica a Ferrara. Testimonianze archivistiche fino al 1492 (Firenze, Olschki, 2007) e del secondo, La Nazione ebraica spagnola e portoghese di Ferrara (1492-1559), 2 tomi (Firenze, Olschki, 2011). Le opere, fondamentali per la cultura ferrarese, vennero pubblicate per l'appassionato interesse di Ravenna e per la liberalità della Fondazione e della Cassa di Risparmio di Ferrara di cui Ravenna è stato consigliere e membro del comitato direttivo fin dal primo numero della elegante rivista "Ferrara. Voci di una città". I ferraresi ben sanno quanto la città e la sua storia culturale debbano al maestro Adriano Franceschini, maestro nel senso più ovvio del termine poiché per tutta la vita insegnò nelle scuole elementari, per dedicarsi nelle ore libere a quelle ricerche d'archivio che gli permisero di pubblicare opere fondamentali quali i tre volumi di Artisti a Ferrara in epoca umanistica e rinascimentale e l'ultimo sulla presenza ebraica a Ferrara. Paolo Ravenna nella premessa di questo volume – Storia di una iniziativa – scrive: "In sostanza lo scavo archivistico che Franceschini stava svolgendo aveva finito col coinvolgere una parte significativa della cultura più radicatamente ferrarese". La conoscenza delle fonti ebraiche, il lavoro d'archivio intrapreso da Franceschini sono naturalmente condivisi dalla "cultura più dichiaratamente ferrarese". Nella storia delle ragioni che portarono le "nazioni", le comunità, portoghesi e spagnole a insediarsi a Ferrara investigate da Aaron di Leone Leoni che vede concludersi contemporaneamente la fine di questo fondamentale lavoro e la sua vita, Ravenna è costantemente presente nella progettualità che ha permesso la pubblicazione di questo libro affiancando con una discreta e appassionata presenza la curatela affidata e svolta in modo esemplare da Laura Graziani Secchieri. Si arriva così al momento più difficile e complesso per capire come e in che modo nasca un concetto di "cultura" che affonda le sue radici nel contesto particolare della continuità della presenza dei Ravenna a Ferrara e nello stesso tempo, partendo proprio da questo dato soggettivo, come Paolo si batta tutta la vita perché la soggettività si riversi nel dato oggettivo di una cultura che approda al riconoscimento di una "italianità" o meglio di una internazionalità che trascende il dato legato alle origini di una terra d'appartenenza. Con lo stesso punto di vista di Bassani, che ambientando l'intera opera in una città prima di "pianura" poi indicata con una F. puntata e infine col suo nome, Ferrara, la rende metafora di una condizione umana e nello stesso tempo storica, città reale ma anche possibilità per attuare la conoscenza di una parte non certo secondaria della cultura: quella ebraicità per cui Ferrara non avrebbe potuto avere quel passato e questo presente. Paolo Ravenna ha tentato di costruire sull'intreccio tra memoria privata e contributo pubblico italiano quel rapporto che è stato la dannazione e la scoperta del più grande intellettuale (e per me scrittore) del Novecento: Thomas Mann. Tutti sanno che lo scrittore tedesco fuggito in America nel 1933 perché non gradito al nazismo, nel suo primo romanzo I Buddenbrook descrisse la decadenza e rovina di una famiglia potente di Lubecca in cui velò le vicende della sua famiglia, i Mann che governarono la città anseatica per ridursi con Thomas e i suoi fratelli ad abbandonare quella posizione in cui si riconosceva il concetto di germanicità ovvero le solide basi su cui era nata quella borghesia che aveva imposto al mondo il concetto romantico di "Kultur" ovvero l'espressione dei valori che la borghesia aveva
incarnato e che l'ultimo discendente racconta nella sua decadenza. Questa "Kultur" che Mann rivendica come origine del proprio lavoro e nello stesso tempo come prodotto della sua condizione borghese è poi quella che in qualche modo condiziona uno degli aspetti più sofferti e complessi della personalità di Paolo Ravenna, l'essere figlio di quel «podestà ebreo» che fu caso unico nella politica e che, ancora Mann lo ripete, rappresenta una prevaricazione della politica sulla cultura che lo scrittore tedesco chiama "civilizzazione". Il caso di Renzo Ravenna rimane dunque la montagna che il figlio Paolo deve scalare, una montagna che non può essere conquistata da soli ma ha bisogno di una mediazione che oggettivizzi la storia, che ne veda e ne condanni l'aspetto politico ma ne salvi in qualche modo l'aspetto culturale e ne individui soprattutto l'origine. Paolo allora affida la stesura dell'opera a una giovane ricercatrice della Scuola Normale di Pisa, Ilaria Pavan, che rispondendo a un'intervista fatta da Stefano Lolli giornalista di una testata ferrarese rivela quanto fosse stata dubbiosa nell'intraprendere una storia che è nello stesso tempo individuale e di una città per non cadere nell'apologia, ma che questa preoccupazione gli è stata risolta dalla collaborazione con Paolo Ravenna. "Mi ha subito conquistato, innanzitutto con la storia di quest'uomo tipico dell'Italia del suo tempo, quindi con la ricchezza dei materiali d'archivio, infine per non avermi mai nascosto una sola carta, per la sorridente ossessione di andare a stanare in soffitta anche il più polveroso degli articoli". È possibile dunque per la storica ricostruire la figura di un uomo prima italiano che ebreo "Perché faceva parte di quella generazione di italiani che ha creduto onestamente nel fascismo approdandovi spesso da sponde opposte". È dunque un percorso che permetterà poi al podestà ebreo di ri-conquistare la fiducia dei concittadini anche dopo la fine della guerra, mentre Paolo dopo la morte di Italo Balbo protettore del padre e dopo le leggi razziali, cresciuto alla scuola ebraica di via Vignatagliata, accetterà l'altro polo del dualismo manniano, quella "civilizzazione" che rappresenta in un certo senso l'acquisizione del primato morale della democrazia sull'ideologia condivisa in gran parte dagli ebrei ferraresi nati dopo l'unità nazionale. Una profonda convinzione che lo porta a scrivere questa volta sì in prima persona La famiglia Ravenna 1943-1945 del 2001. Una serena e per questo ancor più coinvolgente storia delle vicende della famiglia travolta e decimata dalla Shoah ma anche di quelli che si salvano. Primo fra tutti il cugino Eugenio detto Gegio Ravenna che ritorna, unico sopravissuto della famiglia, dall'inferno di Auschwitz pur creduto morto, e che Bassani immortalerà nella straordinaria "storia ferrarese" de La lapide in via Mazzini. Ormai il tragitto è compiuto e Paolo può dedicarsi anche a progetti meno laceranti quali quelli che si compiono nella lunga militanza con Italia Nostra, a cui approda per invito e desiderio di Giorgio Bassani primo presidente e cofondatore con la figlia di Croce, Elena, della benemerita associazione. E anche in questa impresa assunta con un grande senso civico da ferrarese e da italiano la nota fonda della presenza ebraica costante: da Bruno Zevi a cui viene affidata la ristrutturazione e il restauro della mirabile cerchia delle mura ferraresi alla moglie Tullia Zevi a Tina Ottolenghi e ad altri intellettuali ebrei-italiani. Poi il progetto e l'attuazione del parco urbano che si titolerà allo scrittore amico e alle campagne per il riconoscimento dell'importanza paesaggistica del parco del Delta, e non ultima la presenza attiva nel progetto del Museo ebraico nazionale. Di questo inserimento della cultura e del pensiero ebraico nella storia di Ferrara e della sua cultura rimane a monito e ad appassionato suggerimento la dedica: "Nel ricordo di Ida Ascoli Magrini, Geri Bonfiglioli, Giampaolo Minerbi, Tina Ottolenghi, Franco di F. Ravenna e Leone Ravenna". Di Gaetano Tumiati (1918-2012) non ricordo solo la statura e la voce, ma l'intelligenza così spesso condivisa e compartecipata. Era il fratello della mia grande amica Roseda, moglie di Paolo e compagna appassionata ed effervescente di una stagione per me, ma non solo, memorabile all'Istituto tecnico "Vincenzo Monti" di Ferrara dove insegnavano Roberto Pazzi, scrittore, Elettra Testi scrittrice e studiosa di letteratura, Gianni Giordani, economista, Alberto Rossatti attore e voce storica della rai. Roseda condivideva con la famiglia di letterati da cui proveniva il gusto della scrittura e mi volle al suo fianco nella presentazione dei suoi romanzi, tra cui l'indimenticabile La pace del mondo gelatina (1984) con prefazione di Giorgio Bassani. Gaetano era il più trepidante e compartecipe: con consigli, battute, ricordi. Discendono i fratelli Tumiati da una importante generazione di ferraresi tra cui vanno ricordati Gualtiero Tumiati attore e regista, Domenico scrittore e drammaturgo, intellettuali di caratura nazionale e capaci di influenzare anche le scelte letterarie di d'Annunzio. Gaetano parte volontario per la Libia durante la seconda guerra mondiale. Fatto prigioniero, è internato in un campo di concentramento del Texas; qui conosce grandi intellettuali, dal pittore Alberto Burri allo scrittore Giuseppe Berto: da questa prova comincia la sua nascente vocazione allo scrivere, esperienza che viene descritta in Prigionieri nel Texas del 1985, ma la notorietà gli viene dal romanzo Il busto di Gesso che vince il Campiello nel 1976 aprendogli la strada alle esperienze giornalistiche più prestigiose. Precedentemente era diventato famoso come giornalista: inviato speciale per "L'Avanti" in Cina e in Corea del Nord; direttore de "L'illustrazione italiana" e inviato speciale de "La Stampa"; vicedirettore di "Panorama". La sua tempra morale si esplicita nel "clan" Ravenna-Tumiati nell'appassionato ricordo di suo fratello Francesco, partigiano, catturato dai nazifascisti e fucilato nel 1944, a cui dedica il libro Morire per vivere. Vita e lettere di Francesco Tumiati medaglia d'oro della Resistenza (1997). Ebbi il privilegio di conoscerlo nella esperienza comune della rivista della Fondazione e della Carife «Ferrara. Voci di una città» di cui fu vicedirettore. Una rivista che ha espresso al meglio le possibilità culturali della città. Tumiati ne era un pilastro. E per l'ampio respiro che volle dare agli articoli e ai temi e per l'attenzione ironica, affettuosa e intelligente alle scelte. Se forse si farà un bilancio di quella stagione ci si accorgerà come quella rivista sia stata un punto fermo per l'ampliamento della "voce" di Ferrara fuori dalle mura cittadine. E se Gaetano non ci sarà più a consigliare, spronare, entusiasmare, quella esperienza non deve essere chiusa perché è stata un volano in cui l'economia si sposava con la cultura. Onore dunque a due personaggi che sono stati e sono indissolubilmente legati alla storia e alla cultura di una città Ferrara e di una nazione Italia.