Così all'Alamanni da Firenze il 17 dicembre 1517 scriveva risentito Niccolò Machiavelli. Da pochi mesi, nell'aprile 1516, il poeta ferrarese aveva dato alle stampe il gran libro e già dappertutto se ne parlava e lo si leggeva; ma, tra lo stizzito e l'offeso, dopo aver ammesso che il poema 'è bello tutto', il segretario fiorentino rimproverando celatamente l'Ariosto di non essersi ricordato di menzionarlo tra i poeti celebri del suo tempo, prometteva di farlo lui, con generosità.
Come Ariosto aveva passato sotto silenzio la qualità poetica di Machiavelli, questi usando una generosità abbastanza pelosa gli concedeva l'onore di essere menzionato nel suo Asino d'oro che veniva componendo.
Ma una vendetta più sottilmente perfida stava apprestando il non comodo fiorentino: la bocciatura senza appello della lingua ariostesca, considerata rozza e priva di quella illustre tradizione poetica che solo i toscani, anzi i fiorentini potevano rivendicare. Nella aristocratica Ferrara occorreva soddisfare un gusto che la corte e il signore prediligevano e che già aveva prodotto un'opera insigne, amata non solo nella città degli Estensi, ma in buona parte delle corti e delle signorie italiane.



Ora, anche se la sparizione di un solo testimone dei dodici rimasti dovesse scomparire, possiamo contare su questa moderna edizione che affida al futuro il primo capolavoro ariostesco. Dorigatti si è avvalso dell'entusiasmo e della capacità scientifica di una giovane studiosa italiana, Gerarda Stimato, che creando un ponte anche questo non solo metaforico tra Italia e Inghilterra ha permesso alle voci, alle parole, alla poesia di Ariosto di ricomporsi nell'opera perduta o meglio dimenticata. La storia avventurosa ed esaltante di questo recupero ha tenuto conto non solo degli esemplari pervenutici, ma anche di quelli scomparsi, ognuno dei quali ha una sua storia affascinante come un romanzo. Di due esemplari scomparsi vale la pena di accennare, entrambi ferraresi, quello riferentesi alla celebre copia Cavalieri e quello posseduto da Renzo Bonfiglioli, il padre dell'amico scomparso Geri che ha dimostrato la sua generosità aiutando Dorigatti a ricostruire l'esistenza del testimone perduto.
Il primo volume era nella biblioteca del grande industriale ebreo ferrarese Giuseppe Cavalieri (Ferrara 1834- Bologna 1918), raffinatissimo collezionista di opere preziose e introvabili. L'esemplare dell'Orlando da lui posseduto venne posto in vendita a Firenze nel 1906, ma il libro rimase invenduto fino alla morte del Cavalieri avvenuta nel 1918 e venne ceduto dalla vedova, assieme a tutta la biblioteca, alla Libreria Antiquaria Ulrico Hoepli di Milano per la somma di 310.000 lire. In una serie di aste successive, la biblioteca fu smembrata e anche il meraviglioso esemplare del Furioso, di cui abbiamo anche una descrizione della lussuosa veste, venne disperso prima del 1922. Passato di mano in mano, l'esemplare di cui Dorigatti registra ogni possibile traccia ricompare sul mercato nel 1955; ma da allora il libro è svanito nel nulla. Di tanto splendore rimane testimonianza da una sola pagina superstite riprodotta in monocromia nel catalogo d'asta del 1955 ed è usata, si potrebbe dire, come tredicesimo testimone, dal critico per le ultime ottave del poema. Ancor più commovente e misterioso il destino dell'esemplare Bonfiglioli che, oltre testimoniarci la raffinata cultura bibliofila di Renzo Bonfiglioli (1904- 1963), rimane per noi ferraresi una pagina emblematica di quel mondo ebraico di cui Renzo e il figlio Geri furono protagonisti non solo negli anni cupi della Shoah, ma anche nella rinascita culturale, morale e civile della Ferrara del dopoguerra. Internato nel campo di concentramento di Urbisaglia nel 1940, il dottor Renzo Bonfiglioli, laureato in Scienze politiche a Firenze con Piero Calamandrei, conosce il medico triestino Bruno Pincherle, appassionato bibliofilo. Nonostante la tragicità della situazione, il ferrarese apprende dal triestino gli strumenti di quella passione che nell'immediato dopoguerra, nonostante il difficile ritorno nella città e nella sua bellissima casa, lo porterà a costruire una delle più importanti collezioni librarie del mondo. Non poteva mancare un esemplare dell'Orlando ferrarese 1516 che veniva accuratamente custodito in un armadietto dietro le spalle del proprietario nella splendida biblioteca che poteva contare su due esemplari ariosteschi del 1532 e su di un folto numero delle edizioni cinquecentesche del poema di cui ben trentasette pubblicate in quel secolo dall'editore ferrarese Nicolò d'Aristotele detto lo Zoppino. Nel 1974, a undici anni dalla morte del proprietario, gli eredi decidono di mettere in vendita l'intera biblioteca cercandone di salvare l'unitarietà e proponendo l'acquisto alla città di Ferrara. Purtroppo le trattative fallirono e l'intero patrimonio librario venne affidato a un famoso antiquario milanese che la disperse in varie sedi, tra cui la biblioteca di Yale che acquistò 401 esemplari, ma del Furioso del 1516 e delle stampe dello Zoppino si persero le tracce e il libro non si ritrovò più né presso gli eredi Bonfiglioli né sul mercato antiquario, segno inequivocabile di una passione 'feroce' qual è stata sempre quella del bibliomane. A Geri Bonfiglioli, nel 2005, un anno prima della sua scomparsa, toccò il compito di ricordare la triste vicenda che Dorigatti con affetto e acume riproduce nella storia dell'esemplare Bonfiglioli restituito perlomeno alla storia. Terzo esemplare ferrarese, questa volta felicemente conservato alla Biblioteca Ariostea, è quello che funge da testo di riferimento nell'edizione Dorigatti e con il quale si confrontano gli altri esemplari del testo. Anche per questo Furioso la vicenda è affascinante e implica la presenza del più rappresentativo intellettuale della Ferrara ottocentesca, il conte Leopoldo Cicognara, l'amico più caro di Antonio Canova a cui dedica la monumentale Storia dell'Architettura. Presidente e fondatore dell'Accademia di Venezia e responsabile della formazione di quel Museo tra i più importanti al mondo, presidente dell'Ateneo Veneto e figura politica e intellettuale di primissimo rilievo del periodo napoleonico, si rese benemerito nel seguire le trattative che portarono la cessione del rarissimo esemplare dalla Biblioteca di Brera, dove era custodito come legato del cardinal Durini, a quella di Ferrara in cambio di altri libri preziosi, in verità veramente rari. Ma, conclude la scheda Dorigatti, certamente il grande bibliotecario Agnelli che condusse queste ricerche 'poteva comprendere che cosa volesse dire per la collezione di edizioni ariostee di Ferrara possedere questa che era stata la capostipite di tutte.'
C'è poi una vicenda particolarmente interessante che rende ancor più preziosa l'edizione 2006 del capolavoro scomparso (o 'in sonno', per liberare una suggestiva metafora dalle cupe ombre della ferocia umana così come oggi si esercita in guerre che poco hanno a che fare con la gran bontà dei cavalieri antiqui), quella che riguarda Ariosto in tipografia, forse il primo esempio di un autore che si fa editore della propria opera usando il recente, anzi recentissimo strumento della stampa. Ariosto, in breve (e per non dar qui conto della dottissima ricerca di Dorigatti che si china sui materiali della stampa, dalla carta alla grafia, ma soprattutto a correggere quegli errori che una stessa edizione porta in ogni esemplare sfornato dai torchi), segue di persona e controlla ogni pagina che esce dalla stamperia di Giovanni Mazocco 'dal Bondeno' con officina a Ferrara in via Sabbionara; suggerisce come vanno scritte le parole e infine tenta di rendere reale il sogno di ogni autore: che l'opera a stampa sia la più aderente al manoscritto, anzi, che superi il manoscritto in perfezione formale. Notevole al proposito il metodo seguito da Dorigatti di testimoniare la volontà dell'autore di proporre per il suo testo una grafia originale. Ariosto aveva opinioni precise in fatto di materia ortografica e voleva che l'edizione venisse stampata con una diligentissima correzione formale. Ciò induce lo studioso a conservare la grafia originale che con tanto scrupolo Ariosto detta al suo stampatore, di modo che noi possiamo accertare la qualità linguistica assolutamente diversa da quella patinatura toscana che avrà la più fortunata edizione del 1532. Ecco perché i due Orlandi sono opere diverse e non invece varianti di uno stesso poema. La forza di questa edizione sta proprio nel confermare coraggiosamente che l'Orlando 'ferrarese' ha una sua poeticità diversa che nel nostro tempo può essere (forse) più apprezzata per i suoi regionalismi, per la sua sanguigna carica vitale non stemperata dal decoro formale dell'ultima veste.
Non si tratta di scegliere tra l'una e l'altra, ma di considerarle due capolavori. Di un Orlando si era perduta la traccia che ora, amorosamente confortato dal concorso della sua Ferrara, vince la gara contro il tempo intrapresa dal paladino Marco Dorigatti che non sulla Luna, ma nei meandri polverosi della memoria assonnata, riporta alla luce il tesoro. Come ogni eroe che si rispetti.
Leggiamo dunque per la prima volta, dopo cinquecento anni, l'incipit dell'Orlando 'ferrarese:
Canto I, ottava1
Di donne e cavalier li antiqui amori,
le cortesie, l'audaci imp rese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d'Aphrica il mare, e in Francia nocquer tanto,
tratti da l'ire e giovenil furori
d'Agramante lor Re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra Re Carlo Imp erator Romano.