Un valore quasi simbolico, oltre alla intrinseca gravità dell'avvenimento, assunse la celeberrima sottrazione dei Baccanali di Tiziano dai camerini di Alfonso I in Castello, destinati a ricomparire nell'inventario romano di Pietro Aldobrandini stilato nel 1603 dal suo maestro di casa, Giovan Battista Agucchi.
I conti del viaggio di Ferrara e la corrispondenza di Giovan Francesco Aldobrandini, cugino e cognato del cardinal Pietro, conservata nell'Archivio Aldobrandini di Frascati, ci introducono a una lettura di quei mesi cruciali dalla parte, per così dire, dell'invasore, ma di un invasore piuttosto pacifico, che, come spesso capita, si lascia ammaliare dal luogo raggiunto. Il viaggio a Ferrara è infatti l'occasione, per Pietro Aldobrandini, di condurvi i più stretti collaboratori, come Girolamo Agucchi, fratello maggiore di Giovan Battista, e gli artisti, come il cavalier d'Arpino, che da Ferrara viene anche spedito a Venezia, in viaggio di studio e probabilmente anche di attenta valutazione delle collezioni private.
Non solo i Baccanali, infatti, attirano l'attenzione di Pietro, che per appropriarsene si giova del suo recente ruolo di erede universale di Lucrezia d'Este della Rovere, ma anche altre testimonianze della pittura rinascimentale che la permanenza nella zona rende note e accessibili. Una delle mosse senz'altro più importanti dell'attività di Giovan Francesco, comandante delle truppe pontificie, in sintonia con Girolamo Agucchi, si può senz'altro considerare l'acquisto di un altro piccolo dipinto di Tiziano, una Crocifissione, al momento non individuabile con sicurezza, e del Noli me tangere di Correggio. Come è noto, il dipinto oggi al Prado, ammirato già da Vasari, che lo descrive come meglio non si potrebbe, "lavorato tanto bene e morbidamente" compare nel già citato inventario del 1603. Sia Vasari nella seconda edizione delle Vite che Pietro Lamo ne ricordavano l'esistenza in Bologna; il Lamo precisava l'appartenenza alla collezione Ercolani.
Il passaggio alla collezione di Pietro Aldobrandini avvenne proprio all'inizio della legazione: Ferrara era dunque una base ottima anche per lanciare le proprie intraprendenti mosse di acquisizione verso città vicine, per il tramite di pittori ben introdotti. È infatti alla fine di gennaio 1598 che risale il pagamento di duecentotrenta scudi a "Bernardo Baldi pittore (...) per prezzo d'un quadro di Antonio da Correggio nel quale sta dipinto la maddalena alli piedi di Nostro Signore precandoli dilla noli me tangere (...)". Bernardo Baldi, noto più che altro alle fonti per la sua attività di organizzatore di un'accademia di pittura, doveva essere un personaggio in grado di trattare con i collezionisti più importanti della città, che affiancava all'attività di pittore e di imprenditore di bottega anche quella di intermediario.
Al contrario della citazione del dipinto di Tiziano, in questo caso la chiara indicazione del soggetto fa sì che sia possibile riconoscere senza incertezze il capolavoro di Correggio negli inventari successivi della raccolta e anch'esso destinato alla stessa rotta di due dei Baccanali: dopo la collezione Aldobrandini, quella di Ludovico Ludovisi, e, in seguito al dono di Niccolò Ludovisi al re di Spagna, Napoli e Madrid. L'importanza del dipinto per la cultura dei pittori attivi a Roma all'inizio del Seicento è assolutamente innegabi-le e va di pari passo, anzi forse precede di poco, quella dei quadri di Tiziano, che attireranno l'ammirazione incondizionata dei pittori di passaggio a Roma, da Annibale Carracci a Domenichino, a Rubens, a Nicolas Poussin, in un processo di assimilazione di modelli che va dalla copia alla rielaborazione, allo studio appassionato della "maniera" di dipingere.
Sia Correggio che Tiziano, insieme al "disegno romano" di Raffaello e Michelangelo, saranno inoltre i capisaldi della pittura rinascimentale lodati da Giovan Battista Agucchi nel suo trattato e i punti di riferimento essenziali della riforma della pittura che Annibale Carracci, a stretto contatto con Agucchi e con la raccolta di Pietro Aldobrandini, uno dei suoi principali mecenati, conduce a Roma all'inizio del secolo. Se in parte gli studi recenti hanno già illuminato questi nessi, ancora in gran parte da scrivere è invece la fortuna, nelle collezioni romane del Seicento, ma soprattutto presso i pittori, dei quadri di Dosso Dossi, di cui nel primo decennio del secolo si cominciano a popolare le raccolte più importanti.
Un primo censimento dei dipinti a lui attribuiti è stato fornito da Burton Fredericksen negli atti del convegno Dosso's fate: Painting and Court Culture in Renaissance Italy, a cura di L. Ciammitti, S. F. Ostrow, S. Settis, del 1998, e anche le attente ricostruzioni delle vicende dei dipinti di Dosso nel volume di Alessandro Ballarin del 1995 forniscono una traccia importante. Nella collezione di Pietro i quadri di Dosso erano numerosi e esposti, a partire dagli anni Venti, nei luoghi rappresentativi delle residenze: talvolta contigui a quelli di Tiziano, talvolta, a seconda del "genere", insieme ai paesaggi o nella serie di ritratti degli Estensi, o creduti tali, in una sorta di galleria di antenati elettivi del cardinale.
Oltre ad Annibale Carracci, quei quadri li avrà guardati verosimilmente Carlo Saraceni, che nelle fisionomie delle figure "in piccolo", nella ricercatezza dei costumi e delle stoffe così come negli elementi del paesaggio sembra rifarsi agli esempi di Dosso, come dimostra in particolare Lazzaro al banchetto del ricco Epulone, oggi alla Pinacoteca Capitolina; ma anche Orazio Gentileschi e Agostino Tassi, artisti in grado di apprezzare la vena bizzarra e inventiva dei quadri ferraresi. Per il cardinal Pietro, il legame con Ferrara è generato dall'avvenimento fondamentale nella storia della famiglia Aldobrandini, celebrato oltre che in incisioni e medaglie, anche nella lunga iscrizione che corre sull'esedra alle spalle della villa di Frascati così come, per immagini, nell'anticamera del palazzo ora Chigi, già Aldobrandini, a via del Corso, fatto decorare nel 1616 dal cardinal Deti, parente di Pietro per parte materna.
L'iscrizione nella villa ricorda la devoluzione di Ferrara come l'avvenimento più importante nella vita densa di "negozi" del cardinale, cui si contrappone la pace del ritiro nella campagna, lontano dalla corte. Ma molto presto, anche in altre raccolte che non si erano alimentate in maniera così diretta e significativa dell'eredità estense, compaiono i dipinti ferraresi: si pensi alla collezione di Paolo Savelli che già nel 1610 registra quadri di Garofalo e di Scarsellino, ovviamente a quella di Scipione Borghese, in cui si ricostituisce anche la decorazione a fregio dei quadri stretti e lunghi di Dosso che provenivano dal Castello, all'opera di Jacopo Serra, legato pontificio dal 1615 al 1622, come promotore del Guercino a Genova e a Roma, e alla descrizione del 1623 del casino dell'Aurora di Ludovico Ludovisi che, sotto gli affreschi del Guercino, vedeva un accostamento di dipinti cinquecenteschi ferraresi con quelli fiamminghi e bolognesi di qualche decennio più tardi. Nei primi anni Venti prendono stanza a Roma da Ferrara, nel palazzo accanto al Quirinale che era stato di Scipione Borghese, anche Enzo e Guido Bentivoglio, che fungeranno a lungo da agenti per l'acquisto di opere d'arte per la corte estense ormai trasferita a Modena; certamente trasferiscono a Roma parte delle loro raccolte cinquecentesche, dalle quali a più riprese attingono per doni diplomatici.
Nell'inventario di Costanzo Patrizi, che il cavalier d'Arpino redige nel 1624, sono registrate già opere ferraresi, sia di Garofalo sia di Scarsellino, e nella collezione Patrizi si trova ancora oggi uno dei capolavori giovanili di Guercino, il San Francesco che predica agli uccelli, registrato nell'inventario più precoce, e il grande San Girolamo che sigilla una lettera. Una prima segnalazione di quadri provenienti da Ferrara e tuttora nelle gallerie romane, che si sono formate proprio grazie al passaggio dalla collezione privata al museo pubblico, è stata fornita dal olume Il Museo senza confini, a cura di J. Bentini e S. Guarino, nel 2002, con una ricerca esaustiva, ma ovviamente più orientata sulle raccolte ancora esistenti, dalla Borghese alla Barberini, o su quelle, come la collezione Pio o Sacchetti, in gran parte formate nel contesto ferrarese, alienate nel Settecento, ma i cui nuclei sono assai riconoscibili in raccolte pubbliche, come i Musei Capitolini.
Com'è noto infatti, molte delle raccolte che abbiamo citato si dispersero molto presto e i quadri si avviarono ad arricchire altre collezioni, non solo in Italia, ma anche in Europa. La collezione Savelli era in gran parte sul mercato romano già nel 1650, nonostante l'imposizione del fidecommisso; un quadro di Garofalo, il Matrimonio mistico di Santa Caterina, e uno di Scarsellino, il gigantesco Diluvio universale, furono acquistati da Camillo Pamphilj e si trovano ancora oggi nella Galleria Doria Pamphilj. Jacopo Serra morì all'improvviso durante il conclave del 1623 e la consistenza della sua collezione non è al momento nota; gli eredi Ludovisi non furono in grado di conservare, già poco oltre la metà del Seicento, le raccolte che l'improvvisa fortuna di Alessandro e Ludovico aveva consentito di formare.
Credo che una ricognizione documentaria a tutto campo sulla corrispondenza fra la corte Estense e gli ambasciatori a Roma, così come quella con i cardinali, indicizzata solo di recente, e il suo riscontro con le lettere, gli inventari e i documenti contabili contenuti negli archivi romani in un arco di tempo che copra inizialmente la prima metà, ma poi tutto il XVII secolo, porterebbe non poche novità alla nostra conoscenza delle dinamiche del mercato artistico fra l'Emilia, Roma e le altre città italiane. È tempo di approfondire e di raccordare le ricerche che sono cominciate anni fa, di ricomporre finalmente il quadro omplessivo delle relazioni che, non solo a svantaggio di Ferrara, si stabilirono all'indomani della devoluzione; di indagare il tessuto delle collezioni private ferraresi del Seicento, nel loro rapporto con i modelli cinquecenteschi e con le sollecitazioni date dal confronto più serrato con le novità artistiche che venivano da altre parti di Italia.
Ma anche di studiare, in chiave di irraggiamento e non solo di deprecabile dispersione, la diffusione delle opere ferraresi del Cinquecento nelle collezioni che, da Roma, prendono talvolta la strada della corte spagnola o di quella francese, di indagare i motivi e le modalità delle acquisizioni delle opere e dei viaggi degli artisti, citati e talvolta concordati nelle corrispondenze. Si scoprirà così che è un farmacista venditore di colori a scrivere una lettera a Ludovico Ludovisi per raccomandargli, il 15 febbraio 1621, il Guercino, che certamente lo zio Alessandro ben conosceva; o che, molti anni più tardi, serviva l'intercessione del cardinale Bentivoglio perché Pietro da Cortona andasse a Roma da Firenze, a dipingere per il papa Innocenzo X, che nel frattempo aveva mandato il suo maestro di casa a visitare i palazzi per farsi venire delle idee sulla decorazione della sua galleria.
Il fenomeno del collezionismo seicentesco si può studiare attraverso nuove figure e nuove domande, che emergono dalla lettura sistematica, cominciata con una ricerca del Dipartimento di Scienze Storiche dell'Università di Ferrara, dei carteggi estensi, della corrispondenza ufficiale e privata che integra la tradizionale analisi degli inventari di beni, in cui la raccolta per un attimo si immobilizza, finora uno degli strumenti privilegiati dell'indagine.