

Moretti non nascondeva un certo fastidio benché, stemperato dal ricordo di colui che diverrà uno dei sodali più intrinseci e fraterni, il racconto degli anni Sessanta fosse tutto intriso d'affettuosa ironia. Ma quell'iniziale distanza, frutto dell'irruente personalità dell'artista e di quella sua «oltranza narcisistica» che in generale lo separava dalle voci poetiche e prosastiche di quegli anni, andava immediatamente colmandosi non appena quell'intrepido slancio e quella incontenibile eccentricità venivano inquadrate nell'eccezionale personalità di de Pisis. Così infatti per Moretti: «Quando finalmente lo conobbi, costui, poco più d'un anno dopo, io avevo lasciato Roma dove ero rimasto ben quattro anni vivendo in disparte, come già a Firenze, e stupii ch'egli non accennasse al mio tavolino ch'era stato anche suo. [...] Capii subito ch'era ambiziosissimo, anche se pareva disposto a pubblicare per qualche anno i suoi libri, anzi libretti, a sue spese; e me ne porgeva già uno, forse quei Canti della Croara, che, purtroppo, non ritrovo più nei miei scaffali».



È in questa stanza d'arredo piccolo-borghese che metaforicamente si concentrano e vengono a condividersi stati d'animo di giovanile scontento ed esistenziale malinconia, che muovono da una mesta ironia di de Pisis a una più definita frustrazione morettiana, ancorché attribuita al fratello «svogliato e deluso tra il ciarpame fine di secolo, impaziente di balzare nel mondo nuovo, lasciando dietro di sé il grottesco delle idee arretrate, dei "premi" gratuiti e semigratuiti su per i muri». Le antiche stampe, topos di matrice decadente, suggeriscono dunque la visione di un passato, anche emotivamente lontano, e insieme di un futuro insieme denso di speranza e di incertezza.
Mentre Moretti maturo, nelle pagine di memoria, mostra uno sguardo consapevole sulle cose e un equili-brio che lo rende già giudice, la pagina di de Pisis rivela invece tutta la spontaneità di quella immediata sensazione. Ce ne mostra l'estemporaneità, e la facilità con cui il giovane Tibertelli riusciva a farsi catturare da visioni repentine, quanto sfuggenti e inattese, e a fissarle e trattenerle in ogni momento sulla pagina con rapidi, e già poco incerti, tratteggi. Filippo de Pisis viveva intorno a quel 1917 in una maniacale ricerca di inconsuete epifanie estetiche, e spesso, incredibilmente, la provenienza di queste nasceva in spazi chiusi: camere vissute, interni pieni di oggetti desueti e immobili nella fissità di un tempo pressoché eterno. Cosicché le prose di questi anni rappresentano anche l'officina, il banco di prova per la pittura, appunti per i quadri futuri. Gli oggetti su cui si posa l'occhio del pittore hanno già vicino il campione di colore per la tela. La misura della prosa rappresenta già una campitura, e possiede la giusta gradazione di luce. La prosa dedicata a Moretti rivela, pur nella dissomiglianza del temperamento, non poche sintonie tra i due scrittori. A confermare questa corrispondenza una pagina del 1919, in cui de Pisis recensiva il volume delle Poesie morettiane, mettendo in luce proprio quella prevalente nota che è «la pittura di ambienti intimi, provinciali, la ironia sottile, il gusto nel richiamare certi indefinibili stati d'animo della fanciullezza o della prima gioventù », dove pure «si infiltrano, senso di aristocrazia, ironia amara, quasi sarcasmo, violenza sia pure velata e repressa, brividi profondi di sensualità, senso squisito del colore e della forma».
Piaceva dunque non solo il Moretti, come da più parti evidenziato, dalla «vena facile» e dalla «grazia rattenuta » che mai sfociava in lirismo astratto, ma anche il poeta «visivo» e «descrittivo», e la sua «pittura sintetica ed efficacissima» nella descrizione di angoli domestici, in ambienti con luce incerta, con personaggi minimi e oggetti insignificanti. Una poesia con cui il gusto del lettore «può fraternizzare più o meno», affermava de Pisis.
Di fatto era il gusto del pittore che stava fraternizzando con certa letteratura.
E se pure per quasi un decennio il lavoro artistico dovrà ancora rimanere «un impegno estemporaneo, intermittente e un po' marginale nei confronti della fatica letteraria del giovane ferrarese», l'esordio "romagnolo" risulterà per de Pisis determinante per il suo itinerario artistico. Così il sodalizio con il poeta di Cesenatico, che ne "Il giovane Tibertelli", raccolta in Tre anni e un giorno, ancora ricorda: «Durante una mia assenza / tu ben chiedesti a mio padre licenza / di restar nel mio studio ed ivi scriverei su questo stesso tavolo qualcosa / che sapesse di timo e nepitella, / come dicessi voglio / a un prato di trifoglio. / Molte delle tue prime / lirichette bambine / sciamaron da una mia vecchia cartella. / Non ci si conosceva di persona. / Eri poeta allora, uno che dona / versetti anzi che schizzi ed acquerelli. Eri un fanciullo, eri ancor Tibertelli. / Ma mi lasciasti un disegnino sulla / cartella: quasi nulla: / qui con la firma dello sconosciuto: / "Grazie pel tavolino", era il saluto».
A P P E N D I C E
L'esercito di terra - a Marino Moretti
Nel tinello semibuio a pian terreno (le finestre basse guardano sulla stradella sassosa che corre a fianco del canale verdastro dardeggiato dal sole) uggia piccina.
Appese ad una parete, a destra, sulla ottomana sfiancata, le vecchie oleografie dentro la loro cornice color oro, protette dal vetro appannato.
Rappresentano scene del nostro glorioso esercito di terra alle grandi manovre: "La cavalleria", "L'artiglieria". Il generale coll'alto chepì dalle penne bianche spioventi, tutto lucido e attillato nella sua
uniforme nuova, monta il morello pieno di morbino, che si impenna in un salto e apre le froge bavose. I trombettieri dall'elmo di ottone luccicante che arrivano in fila, protesi con lo strumento alla bocca, sui cavalli sauri lanciati alla gran corsa. I soldatini tutti composti, seduti sui cariaggi che avanzano fra nugoli di polvere. Il capitano col chepì col pennacchietto nero davanti e la fascia azzurra a tracolla e che ruota la spada lucente intorno, sul suo capo.
Io guardavo le oleografie dai colori smorti fusi nel tono fondamentale di una tinta d'ocra, dietro il vetro che dava come una patina translucida; guardavo quelle figurette che sembravano rintagliate nel cartone con quelle espressioni di una dignità ridicola o di una disinvoltura forzata e patetica. Pensavo a quel che era il glorioso esercito di terra a quei tempi e quali le condizioni d'Italia, appena redenta, debole e povera e brutta, e provavo oggi come un senso di pietà e un risolino ironico mi veniva alle labbra senza ch'io lo volessi.
Agosto. Cesenatico 1917
F. de Pisis