Gli umori sulfurei di un grande amante delle terre ferraresi: Mario Soldati
La memoria di Mario Soldati, scrittore, regista, autore di memorabili inchieste televisive è legata in modo speciale al Po e alla sua maestosa, popolata valle che sfocia nel Delta, ferrarese e polesano. Lungo il nostro fiume egli realizzò infatti per la Rai del monopolio, per la Rai "didascalica" del servizio pubblico, una indimenticata inchiesta ponendosi alla ricerca dei cibi e dei vini genuini. Il "Viaggio nella valle del Po" è infatti del 1957. Girato con la vivacità dell'acuto narratore di costume e con la cura quasi calligrafica che Soldati aveva messo nei suoi film esteticamente più apprezzati, come "Piccolo mondo antico" dall'omonimo romanzo di Antonio Fogazzaro. Con Ferrara, con le Valli di Comacchio e col Delta, tuttavia, Mario Soldati aveva fatto più approfondita conoscenza già all'inizio del decennio '50, nel 1953, allorché aveva girato per Carlo Ponti "La donna del fiume", uscito nel '54, e destinato a trasformare da maggiorata in attrice, presto hollywoodiana, la ventenne Sophia Loren, da poco uscita dai fumettoni dei fotoromanzi dove compariva quale Sofia Lazzaro.

Un film che, prima della scelta commerciale di Ponti, sarebbe dovuto risultare di ben altro impegno. Tanto che fra i numerosi sceneggiatori figuravano lo scrittore ferrarese Giorgio Bassani, allora emergente (di lui era appena uscita La passeggiata prima di cena), e quel Pier Paolo Pasolini che la realtà emiliana ben conosceva, bolognese di nascita e di studi, fino alla laurea (su Giovanni Pascoli), riparato poi in Friuli con la madre durante la guerra. Aiuto-regista, un altro ferrarese destinato a crescere: Florestano Vancini, già autore di apprezzati documentari, all'epoca sui 27 anni, che di quelle settimane di lavoro fra Ferrara, Comacchio e il Delta conserva tuttora un ricordo animato, vivissimo.

"Soldati, che conosceva il Po torinese, cioè un fiume urbano tutto sommato, ebbe modo di calarsi nella realtà del Po rurale e naturalistico", rievoca ora Florestano. "Quel film lo considerava, dopo la scelta della Loren come protagonista, un po' "alimentare" e quindi scatenava la sua natura istrionica tutti i giorni, si può dire, sul set." Faceva scherzi in continuazione, come infilare delle anguille in qualche borsa gridando poi al serpente. E ne voleva pure ricevere. Altrimenti si incupiva, o fingeva di incupirsi. Una mattina, a Comacchio, racconta sempre Vancini, la troupe rimase a lungo inoperosa in attesa del fatidico ordine del regista "macchina qui", senza il quale le riprese non possono avere inizio. Mario Soldati non si decideva a dare quella indispensabile indicazione. "Poi si girò verso di noi e, in sopracuto, cominciò a gridare che, quel giorno, sentiva sul set un clima ostile nei suoi confronti e che quindi non avrebbe girato nulla". Un clima ostile perché nessuno aveva organizzato un qualche scherzo per lui. Talmente istrione che, alcuni giorni prima, aveva convinto il capostazione di Ferrara a bloccare un rapido della linea Bologna-Venezia che lì non poteva sostare e del quale, inventandosi non si sa quale drammatica urgenza, ottenne invece una breve fermata. "Un giorno però Soldati non volle né scherzi né distrazioni", continua a ricordare Vancini. "Si isolò con l'operatore e in silenzio girò l'episodio-chiave del film, un autentico gioiello filmico, e cioè la morte accidentale del figlioletto della protagonista." Un pezzo memorabile, secondo i critici. Come il viaggio in motocicletta di Sophia, "bomba" erotica, avvinghiata alle spalle dell'atletico Rick Battaglia, di Corbola (Rovigo), allora sui 24 anni, uno degli ultimi attori presi dalla strada (secondo la lezione del neorealismo ormai deperente), un giovanotto che faceva il barista nel centro di Milano e che poi ebbe una sua storia negli "spaghetti western". In questa sequenza il paesaggio assolutamente raro e particolare del Delta emerge con una potenza straordinaria. Come sempre, Mario Soldati trovava nella cucina popolare (in realtà sovente raffinata), nella gastronomia locale la chiave per sondare e capire una regione, una città. Anni dopo dedicò il suo "occhio indagatore", come l'ha chiamato il letterato ferrarese Gianni Venturi, alla celebre salama da sugo. Della quale, in un prezioso libretto, dice, e par di vederlo recitare con voce scandita, "non v'è cibo più antico né più semplice da ammannire. Raro caso di pietanza prelavorata e allo stesso tempo genuina, la salama è, per così dire, l'antenato dei cibi conservati, confezionati e bell'e conditi. Un antenato che risale addirittura al Rinascimento, all'epoca degli Estensi". E ne canta, assieme alle lodi, i modi per pulirla, lavarla, cuocerla al vapore, degustarla. "Andarci adagio, però: a bocconi piccoli: con la punta della forchetta, o col cucchiaio da frutta. Bere sopra vino rosso o anche bianco, ma trasparente, leggero di gradazione e di corpo, e secchissimo: in ogni caso, non bere molto", per non affogare il profumo della salama che, ultima, quasi allarmata raccomandazione, non va mai confusa col cotechino. Di recente è uscito per la Minerva Edizioni di Bologna, con mia introduzione, una antologia di scritti di Mario Soldati sulla nostra regione ("Viaggio in Emilia Romagna", a cura di Anna Cardini Soldati). Fra i racconti ne viene ripreso uno, intitolato "I colori di Bondeno", in cui egli descrive una realtà moderna e antica insieme. Sentite come parla delle nostre vaste piazze: "Perfino la loro forma, allungata allargata e irregolare, ha la sua ragione e la sua bellezza: serve agli immensi mercati e, imitando la natura più vicina, suggerisce un'immagine fluviale: ripete la forma di un'ansa del Po, padre, appunto, di tutta questa prosperità". La sosta gastronomica di rito era, allora, a Bondeno, dal cavalier Enzo Tassi, primo piatto i caplàzz con la zucca. Quella zucca che compare lungo le rive del Po, quasi assecondandone il corso: da Piacenza a Ferrara, in varie forme, tortelli, tortelloni, cappellacci, ma non più all'interno. O assai raramente. Tuttavia il passaggio più straordinario - che dà il titolo al racconto - è quello in cui Soldati si diffonde sui colori dell a piazza bondenese che gli "ricordavano la nostra migliore pittura moderna, Rosai, Carrà, Semeghini (...) erano toni sicuri e sommessi, architetture nitide e riservate". Da dove sortivano? Mario Soldati lo scopre in un altro viaggio, quando incontra, a tarda sera, un curioso personaggio che è, insieme, custode di biciclette e restauratore di quadri di scuola ferrarese, dai quali capisce che vengono quelle tinte delicate e intense. Un incanto che oggi temo sia andato completamente perduto. Più avanti vengono pagine di diario, alcune nuove e intriganti. Nel nostro caso, quelle del 7 marzo 1965, nelle quali parla di un altro grande ferrarese del Novecento, Michelangelo Antonioni, e ne parla, quasi litigando, proprio con Giorgio Bassani. È quest'ultimo a prendere di petto lo scrittore e regista torinese: "A proposito, ho incontrato Antonioni, ieri. Dice che tu sei una gran testa di..." Risposta fulminea: "Esattamente quello che anche io penso di lui." Ma non perché bocci in toto il suo lavoro, bensì perché Antonioni vive, ai suoi occhi, una lacerante e mai risolta contraddizione fra la bellezza suprema, raffinata, perfetta, delle immagini, esaltate da un montaggio che tutto rende vivo e pregnante, e il dialogo "che resta inerte, imbecille, casuale, rozzamente trasferito dalla vita, come se Antonioni non vi annettesse importanza alcuna, come se fosse un elemento che lui non calcola e che lui disprezza"...
La replica di Bassani, che conosce il regista da quando, quasi coetanei, erano ragazzini per strade e piazze di Ferrara, è acuta, gli dà torto e ragione in una sola volta: "Il dialogo che tu dici brutto e inerte, è veramente tale: brutto e inerte. Soltanto che, ed è qui il tuo errore, non è che Antonioni non se ne accorga. Lui lo vuole proprio così. Un dialogo bello a lui rompe le scatole". Soldati non se ne dà pace, interrompe, quasi alterca con l'autore delle Cinque storie ferraresi che insorge e a sua volta lo contesta: "Lasciami finire, mi interrompi sempre". Alla fine convengono sul fatto che Antonioni si serve di un dialogo brutto e banale per mettere "ancora più in valore la bellezze di tutti gli altri elementi. Un po' come gli oggetti grezzi che i maestri della pop-art introducono a forza nelle loro composizioni pittoriche". Solo che per Soldati questa sintesi non si realizza, mentre per Bassani sì, e il dialogo-litigio si conclude, ma potrebbe proseguire all'infinito.
Siamo nel 1965. Due anni dopo uscirà il capolavoro (per me) del grande regista ferrarese, "Blow up", dove - anche Soldati, suppongo, l'avrebbe ammesso - forza, poesia e ritmo delle immagini della swinging London non hanno davvero bisogno di parole.