Una pianta della nostra tradizione

Scritto da  Vittorio Emiliani

Una carovana per il trasporto della canapa, in una foto d'epoca.Nelle campagne del ferrarese, un rientro atteso: la canapa.

Torna la canapa. La verde pianta, che per millenni ha fatto parte nella nostra vita quotidiana e nel paesaggio agrario di alcune regioni, dagli anni Sessanta era praticamente sparita. Se non dalla vita quotidiana (ancora qualche abito femminile, qualche tovaglia o tenda), certamente dal panorama italiano, da quello ferrarese in primo luogo.
Della canapa parlavano, e non benissimo, soltanto le cronache giornalistiche in relazione al "fumo" nelle sue varie forme e al sequestro di più o meno modiche coltivazioni personali.

 

Mi è capitato di vivere nel Ferrarese, a Copparo, dal 1948 al 1954. All'epoca, la canapa (del tipo industriale, cannabis sativa) era ancora fortemente insediata fra le colture di una pianura frutto di lunghe bonifiche (ancora in corso verso il Delta del Po), la quale si presentava per mesi e mesi sconfinata, rotta soltanto da qualche vialone di pioppi in lontananza.
Vi si coltivavano, infatti, soprattutto grano e barbabietole da zucchero. Nella tarda estate, quel paesaggio tipicamente padano si macchiava di verde intenso: era la canapa che si alzava sempre più, fino a quattro-cinque metri dal suolo, creando l'illusione di un bosco invece presto destinato al taglio.

 

Un'altra fase della lavorazione tradizionale della canapa.Un'operazione che avveniva manualmente in settembre e che impegnava un esercito di braccianti, donne per lo più, giunte in bicicletta, che entravano dentro il folto di quel coltivo, armate di falci e di falcetti, coperte di panni di lana, con cappelli e grandi fazzoletti in testa pur in quell'afa tremenda, per recidere i duri steli fibrosi e cercare di non ferirsi. Poi le cataste di piante così faticosamente recise, venivano calate in centinaia di fosse piene d'acqua, i "maceri" (i "màsar" in dialetto), tenute lì sotto da pesanti sassi perché, appunto, vi si macerassero. Pronte per essere poi essiccate e sfibrate, un tempo manualmente sotto l'azione delle gramolatici di legno, alcune persino elegantemente dipinte.

 

Un'altra fase della lavorazione tradizionale della canapa.Allora cominciava,  nella calura di fine estate, una doppia sofferenza per chi abitava presso i maceri: il fetore insopportabile delle piante di canapa ormai marcescenti e i nugoli di zanzare giganti che si liberavano da quella specie di bosco sparito in pochi giorni sotto falci e seghetti.
Nel primo trentennio del Novecento, l'Italia era seconda soltanto dopo la Russia nella produzione di canapa, con quasi 80.000 ettari investiti e poco meno di 800.000 quintali di prodotto. Nel 1914, la provincia di Ferrara figurava al primo posto nel nostro paese, con circa 30.000 ettari coltivati e 363.000 quintali di canapa, seguita dalle province di Caserta (157.000 quintali) e di Bologna (145.000), e dal napoletano con 89.000 quintali.
Sino al primo Novecento, la canapa era stata coltivata, magari qua e là, un po' in tutta Italia, pure nella prima fascia collinare: in Romagna (c'è, infatti, un bel museo della canapa a Sant'Arcangelo), nelle Marche (a Urbino esiste una via dei Maceri, su per Santa Margherita) e soprattutto in Toscana, nel Senese.

 

La documentazione fotografica d'epoca di alcune delle moltissime fasi della lavorazione tradizionale, prevalentemente manuale, della canapa in area ferrarese.Coltivata per l'autoconsumo contadino e per prodotti di tessitura a mano che, pur belli, non varcavano di solito i confini del mercato locale. La canapa era stata introdotta in Italia in epoca remota, fra il X e l'VIII secolo a.C., registrando via via una fortuna crescente documentata dalle fonti del tempo, in specie da quelle rinascimentali.
Nel Settecento, uno degli intellettuali ferraresi di maggior spicco, il canonico Girolamo Baruffaldi (1675-1755), autore delle Vite dei pittori e degli scultori ferraresi, le aveva dedicato un poema erudito intitolato Il Canapajo, uscito nel 1736. In otto libri o capitoli, dalla scelta del terreno al modo migliore di "gramolarla", Baruffaldi tesseva - è il caso di dirlo - le lodi di quella coltura che "s'alza e verdeggia, e selve ombrose forma/ quando la stagion fervida comincia". Avvertiva pure in versi eleganti: "Non paventar se il puzzo allor più s'alza/ E le narici ti percote e infetta" (siamo alla macerazione).

Una sofferenza che poi sarebbe stata ben ripagata. I tessuti di canapa, infatti, erano freschi, gradevoli da vedere e da portare, eleganti. Ma tanti sottoprodotti si potevano ricavare da quella verde pianta così difficile da domare e che però richiedeva tante braccia per essere tagliata, macerata, essiccata, lavorata. I più umili erano sicuramente i "canapoli", i residui ultimi, che d'inverno noi usavamo per accendere o ravvivare il fuoco nelle stufe e che si favoleggiava alimentassero a quintali la locomotiva di un treno da Far West che epicamente conduceva gruppi di pendolari squattrinati fino all'Adriatico.
Il primo "boom" economico portò con sé altri mestieri meno gravosi di quello, per giunta precario, del bracciante agricolo, e concorse alla parallela affermazione delle fibre artificiali a danno di quelle naturali, come la canapa e il lino (nei miei lontani ricordi di praticante giornalista c'è un titolo di Borsa che si chiamava "Linificio e Canapificio").

 

Un'altra fase della lavorazione tradizionale della canapa.Fu crisi nera per queste colture. Nel ferrarese "esplose" il frutteto, già così diffuso in Romagna e nel modenese (Cesena e Vignola). Negli anni Sessanta, la canapa resistette per un po' in Campania, poi praticamente scomparve dal paesaggio agrario italiano. Bisogna dire che il "sogno" della chimica, delle fibre artificiali (quasi nessuno parlava allora di ecologia) aveva favorito l'inerzia dei governi, condannando la canapa.
La quale però, tenace, è rispuntata quarant'anni dopo. A partire da 1997, quando da Ferrara sono partite le prime iniziative di ricerca, sperimentazione e nuova valorizzazione. Il Comitato promotore - coordinato dall'Amministrazione Provinciale e di cui fanno parte la Fondazione Cassa di Risparmio, la Cassa di Risparmio, la Camera di Commercio, il Comune di Ostellato e quello di Comacchio, Ecocanapa e Canapa Italia - ha attivato una serie di progetti che riguardano: le ricerche sui tipi di seme più convenienti, sulle tecnologie atte ad abbattere i costi - sin qui proibitivi - della lavorazione primaria e a migliorare quella secondaria, sulle condizioni ambientali tipiche delle nostre zone e quindi sulle varietà di seme più adeguate alle medesime.

La preparazione dei maceri (i ''màsar'' in dialetto), fosse piene d'acqua in cui venivano calate le cataste di canapa, poi fermate con pesanti sassi perchè, appunto, macerasseroCon indagini sulle tradizioni contadine e artigiane della canapa, sugli antichi mestieri a essa collegati, su cui esistono, in provincia di Ferrara, ricche documentazioni letterarie, figurative e fotografiche che, però bisogna tradurre in mostre e musei "vivi": un circuito di immagini, di storie, di materiali antichi tutto da valorizzare.
Intanto si è provveduto a stabilire un rapporto diretto fra le aziende agroindustriali interessate al rilancio della canapa (per ora si è lavorato nel ferrarese su 250 ettari sperimentali destinati ad aumentare) e l'Alta Moda: nell'ambito del Consorzio Canapaitalia, sorto a Ferrara, alcuni gruppi industriali, in particolare la Simint SpA, licenziataria del marchio Armani, hanno utilizzato la canapa per produrre jeans, maglie, camicie, scarpe, borse e accessori di tutte le collezioni (donna, uomo, bambino), scegliendo il paesaggio ferrarese come scenario per presentare la collezione primavera-estate "Armani Jeans" 2000.

Nel maggio 2001, l'assessore provinciale di Ferrara, Gabriele Ghetti, annunciava la creazione di un primo stabilimento, tutto privato, a Comacchio, l'Ecocanapa, per la stigliatura e la pettinatura della pianta, in sinergia fra Sorgeva e Consorzio Canapaitalia, calibrato per fronteggiare "una produzione estesa su almeno 1.500 ettari".
Gli utilizzi del seme di canapa e della pianta fibrosa che da esso nasce, salendo in soli 4-5 mesi anche a cinque metri, sono molteplici. Anzitutto, per la carta, evitando così l'abbattimento di altri alberi o limitandolo, stimolando all'innovazione un'industria come quella delle cartiere italiane, già molto avanzata. Si calcola che da questa pianta si possano ricavare oltre cinquantamila prodotti che vanno dal settore tessile a quello cartario, dalla cosmesi (olii e saponi) all'alimentare, dall'erboristeria alla farmaceutica, dall'edilizia biologica all'allevamento animale, fino ai truciolati per i mobili.

Che cosa ostacola il ritorno in forze di questo prodotto, naturale e tradizionalissimo nella campagne italiane, oltre a costi ancora elevati di produzione? Essenzialmente la legge Jervolino-Vassalli del 1979 contro la droga, la quale ne vieta a tutt'oggi la coltivazione con una notevole confusione fra i vari tipi di cannabis, alcuni a elevato contenuto di tetra-idro-cannabinolo (THC), sostanza allucinogena usata per ricavarne hashish e marijuana, e altri, invece, a basso contenuto.

 

Una fase della raccolta.Lasciando da parte la discussione in atto fra droghe pesanti e leggere (ma non quella su di un maggior uso terapeutico della canapa quale antidolorifico, ormai diffuso in altri paesi europei), va detto che sono disponibili alcuni semi di cannabis certificati con un tasso di THC inferiore allo 0,15 per cento, in grado di liberare i neo-canapicultori italiani dai vincoli di legge che, nonostante una parziale autorizzazione del Ministero per le Politiche Agricole, li costringono a recintare in modo quasi bellico i campi, a illuminarli di notte, a sorvegliarli in maniera pressante.
Col rischio - com'è accaduto più volte - che qualche pattuglia troppo zelante sequestri coltivazioni pienamente autorizzate di canapa industriale, scambiandole per imprese malavitose (di ben altro tipo e livello, purtroppo). La Francia, la quale ha adottato per tempo una legislazione avanzata e flessibile, all'inizio degli anni Novanta già produceva 30.000 quintali di fibra e procedeva con risolutezza nel terreno, da noi sempre più difficile, della ricerca.

Ciononostante il direttore dell'Istituto sperimentale per le colture industriali di Bologna, Gianpaolo Grassi, ha annunciato di aver selezionato insieme a un team ucraino (vedi "Panorama" dell'8 novembre 2001) una varietà dalla quale "siamo riusciti a eliminare completamente il THC".
Insomma, passi avanti se ne stanno facendo, affinché questa pianta, composta al 90 per cento di cellulosa, torni nel suo habitat storico: italiano e, anzitutto, ferrarese. Già si accendono polemiche fra la Toscana, che rivendica una coltura più "ecologica" della canapa, e l'Emilia-Romagna che si assegna un ruolo di punta industriale. Ma sono le polemiche, si spera, della crescita. O della ricrescita.